Pensieri

L’Afghanistan che non volevamo

11.11.2021
Dunque è tornato l’Afghanistan di prima, quello che mette metà della popolazione sotto il tallone dell’altra metà. L’Afghanistan della Sharya, dei visi velati, dell’indipendenza negata, del matrimonio obbligato, dell’assenza di diritti, dell’obbligo di ignoranza e sottomissione.
C’era da immaginarselo, no?
Sia prima, quando si andava esportando democrazia come se fosse uno squisito formaggio francese, una bibita saporita o uno stile di vita (l’american way of life, sai che bellezza).
Sia durante, quando trilioni di dollari venivano investiti in armi letali, invece che nella costruzione di strade, scuole, palestre, ospedali, teatri e biblioteche (perché è così che si aiuta).
Sia dopo, quando, a insindacabile giudizio dei potenti d’occidente, si è slacciata la museruola ai cani dell’ideologia talebana (quel velenoso mix di religione e tradizione), ritirando le truppe dei costruttori di pace armata (quest’ossimoro idiota), e lasciando un fragile cast di fantocci a difendere una libertà non ancora abbastanza radicata, come valore fondante e uguale per tutti, donne e uomini.
C’era da immaginarselo che sarebbe successo quello che è successo.
In un mondo di passioni spente i militanti dell’ideologia hanno la meglio anche sui cannoni.
E’ pericoloso sottovalutare la forza di chi ha una visione alternativa, oppressiva, antica, superata, vergognosa, ma pur sempre una visione. E alternativa.
Adesso i vincitori dicono che non torceranno un capello a nessuno e che i diritti acquisiti dalle donne saranno salvaguardati.
Non ci credo.
O meglio: non credo che nei paesi, sul territorio, nelle famiglie, nelle scuole coraniche, fra i talebani circonfusi di gloria per aver cacciato i fantocci filo occidentali si accetterà di lasciare in pace le figlie, le sorelle, le madri, le vicine di casa che studiano, o insegnano all’università.
Credo che le ragazze e le donne siano in pericolo.
Mi sento impotente, come altre volte di fronte ad altri scenari di guerra, di violenza, di dolore.
E’ l’inutile empatia che ti porta al massimo a regalare un racconto, a devolvere un guadagno, a firmare una petizione?
Sì, ma c’è qualcosa di più…qualcosa che riguarda l’identità di genere…non so come spiegarlo…è un sentimento forte e primitivo, una rabbia personale, come se la minaccia di non poter, domani, andare a lavorare o aprire un conto in banca riguardasse anche me.
Finché c’è una donna minacciata in quanto donna, nessuna di noi può vivere in pace.

Lidia Ravera

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Street Artist Shamsia Hassani

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