PRIMA PARTE
È un vecchio marinaio, e ferma uno dei tre
convitati: «Per la tua lunga barba grigia e il tuo
occhio scintillante, e perchè ora mi fermi?
Le porte del Fidanzato son già tutte aperte, e io
sono il più stretto parente; i convitati son già
riuniti, il festino è servito, tu puoi udirne di qui
l’allegro rumore.»
Ma egli lo trattiene con mano di scheletro.
«C’era una volta un bastimento …» comincia a
dire. «Lasciami, non mi trattener più, vecchio
vagabondo dalla barba brizzolata!» E quello
immediatamente ritirò la sua mano.
Ma con l’occhio scintillante lo attrae e lo
trattiene. —E il Convitato resta come
paralizzato, e sta ad ascoltare come un bambino
di tre anni: il vecchio Marinaro è padrone di
lui.
Il Convitato si mise a sedere sopra una pietra: e
non può fare a meno di ascoltare attentamente.
E cosí parlò allora quel vecchio uomo, il
Marinaro dal magnetico sguardo:
«La nave, salutata, avea già lasciato il porto, e
lietamente filava sull’onde, sotto la chiesa,
sotto la collina, sotto l’alto fanale.
Il Sole si levò da sinistra, si levò su dal mare.
Brillò magnificamente, e a destra ridiscese nel
mare
Ogni di più alto, sempre più alto finché diritto
sull’albero maestro, a mezzogiorno …» Il
Convitato si batte il petto impaziente, perché
sente risuonare il grave trombone.
La Sposa si è avanzata nella sala: essa è
vermiglia come una rosa; la precedono,
movendo in cadenza la testa, i gai musicanti.
Il Convitato si percuote il petto, ma non può
fare a meno di stare a udire il racconto. E così
seguitò a dire quell’antico uomo, il Marinaro
dall’occhio brillante.
«Ed ecco che sopraggiunse la burrasca, e fu
tirannica e forte. Ci colpì con le sue irresistibili
ali, e, insistente, ci cacciò verso sud.
Ad alberi piegati, a bassa prora, come chi ha
inseguito con urli e colpi pur corre a capo chino
sull’orma del suo nemico, la nave correva
veloce, la tempesta ruggiva forte, e ci
s’inoltrava sempre più verso il sud.
Poi vennero insieme la nebbia e la neve; si fece
un freddo terribile: blocchi di ghiaccio, alti
come l’albero della nave, ci galleggiavano
attorno, verdi come smeraldo.
E traverso il turbine delle valanghe, le rupi
nevose mandavano sinistri bagliori: non si
vedeva più forma o di bestia — ghiaccio solo
da per tutto.
Il ghiaccio era qui, il ghiaccio era là, il ghiaccio
era tutto all’intorno: scricchiolava e muggiva,
ruggiva ed urlava. come i rumori che si odono
in una sincope.
Alla fine un Albatro passò per aria, e venne a
noi traverso la nebbia. Come se fosse stato
un’anima cristiana, lo salutammo nel nome di
Dio.
Mangiò del cibo che gli demmo, benché nuovo
per lui; e ci volava e rivolava d’intorno. Il
ghiaccio a un tratto si ruppe, e il pilota poté
passare fra mezzo.
E un buon vento di sud ci soffiò alle spalle, e
l’Albatro ci teneva dietro; e ogni giorno veniva
a mangiare o scherzare sul bastimento,
chiamato e salutato allegramente dai marinari.
Tra la nebbia o tra ’l nuvolo, su l’albero o su le
vele, si appollaiò per nove sere di seguito;
mentre tutta la notte attraverso un bianco
vapore splendeva il bianco lume di luna.»
«Che Dio ti salvi, o Marinaro, dal demonio che
ti tormenta! — Perchè mi guardi cosí, Che
cos’hai?» — «Con la mia balestra, io ammazzai
l’ ALBATRO!
PARTE SECONDA
Il sole ora si levava da destra: si levava dal
mare, circonfuso e quasi nascosto fra la nebbia,
e si rituffava nel mare a sinistra.
E il buon vento di sud spirava ancora dietro a
noi, ma nessun vago uccella lo seguiva, e in
nessun giorno riapparve per cibo o per trastullo
al grido dei marinari.
Oh, io avevo commesso un’azione infernale, e
doveva portare a tutti disgrazia; perchè, tutti lo
affermavano, io avevo ucciso l’uccello che
faceva soffiare la brezza. Ah, disgraziato,
dicevano, ha ammazzato l’uccello che faceva
spirare il buon vento.
Né fosco né rosso, ma sfolgorante come la
faccia di Dio, si levò il sole gloriosamente.
Allora tutti asserirono che io avevo ucciso
l’uccello che portava i vapori e le nebbie. È
bene, dissero, è bene ammazzare simili uccelli,
che apportano i vapori e le nebbie.
La buona brezza soffiava, la bianca spuma
scorreva, il solco era libero: eravamo i primi
che comparissero in quel mare silenzioso…
A un tratto, il vento cessò, e cadder le vele; fu
una desolazione ineffabile: si parlava soltanto
per rompere il silenzio del mare.
Solitario in un soffocante cielo di rame, il sole
sanguigno, non più grande della luna, si vedeva
a mezzogiorno pender diritto sull’albero
maestro.
Per giorni e giorni di seguito, restammo come
impietriti, non un alito, non un moto; inerti
come una nave dipinta sopra un oceano dipinto.
Acqua, acqua da tutte le parti; e l’intavolato
della nave si contraeva per l’eccessivo calore;
acqua, acqua da tutte le parti; e non una goccia
da bere!
Il mare stesso si putrefece. O Cristo! che ciò
potesse davvero accadere? Sì; delle cose
viscose strisciavano trascinandosi su le gambe
sopra un mare glutinoso.
Attorno, attorno, turbinosi, innumerevoli fuochi
fatui danzavano la notte: l’acqua, come l’olio
nella caldaia d’una strega, bolliva verde, blu,
bianca.
E alcuni, in sogno, ebbero conferma dello
spirito che ci colpiva così: a nove braccia di
profondità, ci aveva seguiti dalla regione della
nebbia e della neve.
E ogni lingua, per l’estrema sete, era seccata
fino alla radice; non si poteva più articolare
parola, quasi fossimo soffocati dalla fuliggine.
Ohimè! che sguardi terribili mi gettavano,
giovani e vecchi! In luogo di croce, mi fu
appeso al collo l’Albatro che avevo ucciso.
PARTE TERZA
E passò un triste tempo. Ogni gola era riarsa,
ogni occhio era vitreo. Un triste tempo, un
triste tempo! E come mi fissavano tutti quegli
occhi stanchi! Quand’ecco, guardando verso
occidente, io scorsi qualche cosa nel cielo.
Da prima, pareva una piccola macchia, una
specie di nebbia; si moveva, si moveva, e alla
fine parve prendere una certa forma.
Una macchia, una nebbia, una forma, che
sempre più si faceva vicina: e come se volesse
sottrarsi ed evitare un fantasma marino, si
tuffava, si piegava, si rigirava.
Con gole asciutte, con nere arse labbra, non si
poteva nè ridere nè piangere. In quell’eccesso
di sete, stavano tutti muti. Io mi morsi un
braccio, ne succhiai il sangue, e gridai: Una
vela! Una vela!
Con arse gole, con nere labbra bruciate, attoniti
mi udiron gridare. Risero convulsamente di
gioia: e tutti insieme aspirarono l’aria, come in
atto di bere.
Vedete! vedete! (io gridai) essa non gira più,
ma vien dritta a recarci salute: senza un alito di
vento, senza corrente, si avanza con la chiglia
elevata.
A occidente l’acqua era tutta fiammeggiante; il
giorno era presso a finire. Sull’onda occidentale
posava il grande splendido sole — quand’ecco
quella strana forma s’interpose fra il sole e noi.
E a un tratto il sole apparve listato di strisce
(che la celeste Madre ci assista!) come se
guardasse dalla inferriata di una prigione con la
sua faccia larga ed accesa.
Ohimè! (pensavo io, e il cuore mi batteva
forte), come si avvicina rapidamente, ogni
momento di più! Son quelle le sue vele, che
scintillano al sole come irrequiete fila di ragno?
Son quelle le sue coste, traverso a cui il sole
guarda come traverso a una grata? E quella
donna là è tutto l’equipaggio? È forse la Morte?
o ve ne son due? o è la Morte la compagna di
quella donna?
Le sue labbra eran rosse, franchi gli sguardi, i
capelli gialli com’oro: ma la pelle biancastra
come la lebbra… Essa era l’Incubo VITA-INMORTE, che congela il sangue dell’uomo.
Quella nuda carcassa di nave ci passò di fianco,
e le due giocavano ai dadi. «Il gioco è finito! ho
vinto, ho vinto!» dice l’una, e fischia tre volte.
L’ultimo lembo di sole scompare: le stelle
accorrono a un tratto: senza intervallo
crepuscolare, è già notte. Con un mormorio
prolungato fuggì via sul mare quel battello fantasma.
Noi udivamo, e guardavamo di sbieco, in su. Il
terrore pareva suggere dal mio cuore, come da
una coppa, tutto il mio sangue vitale. Le stelle
erano torbide, fitta la notte, e il viso del
timoniere splendeva pallido e bianco sotto la
sua lanterna.
La rugiada gocciava dalle vele; finché il corno
lunare pervenne alla linea orientale, avendo alla
sua estremità inferiore una fulgida stella,
L’un dopo l’altro, al lume della luna che pareva
inseguita dalle stelle, senza aver tempo di
mandare un gemito o un sospiro, ogni marinaro
torse la faccia in una orribile angoscia, e mi
maledisse con gli occhi.
Duecento uomini viventi (e io non udii né un
sospiro né un gemito), con un grave tonfo,
come una inerte massa, caddero giù l’un dopo
l’altro.
Le anime volaron via dai loro corpi —
volarono alla beatitudine o alla dannazione; ed
ogni anima mi passò d’accanto sibilando, come
il fischio della mia balestra.
PARTE QUARTA
«Tu mi spaventi, vecchio Marinaro! La tua
scarna mano mi fa pura! Tu sei lungo, magro,
bruno come la ruvida sabbia del mare.
Ho paura di te, e del tuo occhio brillante, e
della tua bruna mano di scheletro…»— «Non
temere, non temere, o Convitato! Questo mio
corpo non cadde fra i morti.
Solo, solo, affatto solo — solo in un immenso
mare! E nessun santo ebbe compassione di me,
della mia anima agonizzante.
Tutti quegli uomini così belli, tutti ora
giacevano morti! e migliaia e migliaia di
creature brulicanti e viscose continuavano a
vivere, e anch’io vivevo.
Guardavo quel putrido mare, e torcevo subito
gli occhi dall’orribile vista; guardavo sul ponte
marcito, e là erano distesi i morti.
Alzai gli occhi al cielo, e tentai di pregare; ma
appena mormoravo una prece, udivo quel
maledetto sibilo, e il mio cuore diventava arido
come la polvere.
Chiusi le palpebre, e le mantenni chiuse; e le
pupille battevano come polsi; perché il mare ed
il cielo, il cielo ed il mare, pesavano opprimenti
sui miei stanchi occhi; e ai miei piedi stavano i
morti.
Un sudore freddo stillava dalle loro membra,
ma non imputridivano, né puzzavano: mi
guardavano sempre fissi, col medesimo
sguardo con cui mi guardaron da vivi.
La maledizione di un orfano avrebbe la forza di
tirar giù un’anima dal cielo all’inferno; ma oh!
più orribile ancora è la maledizione negli occhi
di un morto! Per sette giorni e sette notti io vidi
quella maledizione… eppure non potevo
morire.
La vagante luna ascendeva in cielo e non si
fermava mai: dolcemente saliva , saliva in
compagnia di una o due stelle.
I suoi raggi illusori davano aspetto di una
distesa bianca brina d’aprile a quel mare
putrido e ribollente; ma dove si rifletteva la
grande ombra della nave, l’acqua incantata
ardeva in un monotono e orribile color rosso.
Al di là di quell’ombra, io vedevo i serpi di
mare muoversi a gruppi di un lucente candore;
e quando si alzavano a fior d’acqua, la magica
luce si rifrangeva in candidi fiocchi spioventi.
Nell’ombra della nave, guardavo ammirando la
ricchezza dei loro colori; blu, verde-lucidi,
nero-vellutati, si attorcigliavano e nuotavano; e
ovunque movessero, era uno scintillio di fuochi
d’oro.
O felici creature viventi! Nessuna lingua può
esprimere la loro bellezza: e una sorgente
d’amore scaturì dal mio cuore, e istintivamente
li benedissi. Certo il mio buon Santo ebbe
allora pietà di me, e io inconsciamente li
benedissi.
Nel momento stesso potei pregare; e allora
l’Albatro si staccò dal mio collo, e cadde, e
affondò come piombo nel mare.
PARTE QUINTA
Oh, il sonno! esso è una cosa soave, amata da
un polo all’altro. Sia lodata la Vergine Maria!
Essa dal cielo mi mandò il dolce sonno che
penetrò nella mia anima.
Sognai che le secchie rimaste inutili per tanto
tempo sul ponte, erano piene di rugiada; e
quando mi destai, pioveva.
Le mie labbra eran bagnate, la mia gola
rinfrescata, tutti i miei vestiti inzuppati
d’acqua: certo io avevo bevuto durante il
sogno, e ancora bevevo.
Mi mossi, e non sentivo più le mie membra: ero
così leggero, che quasi credetti di essere morto
dormendo, e diventato uno spirito benedetto.
A un tratto sentii un muggito di vento: non
pareva che si avvicinasse, — ma col solo
rumore scoteva le vele che erano così sottili e
riarse!
L’aria in alto si animò a un tratto, e cento
banderuole di fuoco abbagliante si agitarono di
qui, di là, per ogni verso: e da ogni parte le
pallide stelle parevano danzare in quel turbinio.
Il vento si avvicinava e ruggiva più forte, e le
vele sospiravano col mormorio della saggina; e
la pioggia si rovesciò giù da una sola nuvola
nera, al cui estremo lembo appariva la luna.
Il fitto nugolo nero si squarciò; ma la luna gli
restò accanto: come acque lanciate da qualche
alta rupe, i lampi si succedevano senza
interruzione, in largo e precipitoso torrente.
Il gagliardo vento non arrivava fino alla nave;
eppure la nave cominciò a muoversi! Al misto
bagliore dei lampi e della luna, gli uomini morti
a un tratto mandarono un gemito.
Mandarono un gemito, si smossero, si levarono
tutti in piedi — ma senza parlare, e senza girare
gli occhi. Sarebbe stato strano anche in un
sogno, aver visto quei morti alzarsi da terra!…
Guidato dal timoniere, il bastimento cominciò a
muoversi; eppure nessun soffio lo spingeva
dall’alto. I marinari cominciarono tutti a
manovrare ai cordami secondo il solito,
muovendo le membra meccanicamente come
inanimati strumenti… Oh, noi eravamo uno
spaventoso equipaggio!
Il corpo di un mio nipote mi stava accanto,
ginocchio a ginocchio: quel corpo ed io si
manovrava ad un medesimo canapo, ma egli
non mi diceva una parola…»
«Tu mi fai terrore, vecchio Marinaro!»
«Rassicùrati, o Convitato! non eran le anime
dei morti nell’angoscia, tornati a vivificare i
cadaveri,; ma una schiera di beati spiriti.
E quando albeggiò, essi piegaron le braccia e si
affollarono intorno all’albero maestro. Dolci
suoni uscirono lentamente dalle loro bocche, ed
esalarono dai loro corpi.
Intorno intorno volava ognuno di quei dolci
suoni; e ascendeva rapido al sole; poi lenti e
soavi tornavano indietro, ora in coro, ora ad
uno ad uno.
Talvolta mi pareva di udir cantare l’allodola
scendente dal cielo; talvolta era come se
cantassero insieme tutti gli uccellini, ed
empissero l’aria ed il mare coi loro dolci
gorgheggi.
Ed ora pareva un pieno di strumenti, ora come
un flauto solitario; —ed era il canto di un
angelo che i cieli ascoltano muti.
Cessò; ma le vele continuarono il loro lieto
mormorio fino a mezzogiorno, il mormorio di
un nascosto ruscello nel fiorito mese di giugno,
che canta tutta la notte una tranquilla melodia
ai boschi dormienti.
Navigammo placidamente fino a mezzogiorno,
ma senza un soffio di brezza; lentamente,
pianamente, il bastimento procedeva come
spinto da un impulso sottomarino.
A nove tese di profondità sotto la chiglia,
venuto dalla regione della nebbia e della neve,
scorreva uno spirito — era esso che metteva in
moto la nave: ma a mezzodì le vele cessarono il
loro mormorIo, e la nave si arrestò.
Il sole alto sull’albero maestro la vide
immobilizzata sull’acque; ma dopo un minuto
cominciò ad agitarsi con un breve e difficile
movimento: andando avanti e indietro metà
della sua lunghezza, con un corto e penoso
movimento.
Poi, come uno scalpitante cavallo lasciato
andare ad un tratto, essa fece un subito
sbalzo… Mi andò tutto il sangue alla testa, e
caddi svenuto.
Non saprei dire quanto durasse lo svenimento:
ma prima di riprendere i sensi, io udii e
intimamente distinsi due voci nell’aria.
«È lui? — diceva una — è questo l’uomo? Per
Colui che spirò sulla croce; è lui che con la
crudele balestra abbattè l’Albatro innocente!
Lo spirito che abita solitario nella regione della
nebbia e della neve amava l’uccello amante
dell’uomo, che l’uomo ingrato uccise con la
sua balestra.»
L’altra era una voce più bassa, dolce come
stille di miele, e diceva: «L’uomo ne ha già
fatto penitenza, e altra penitenza ha da fare.»
PARTE SESTA
PRIMA VOCE
«Ma dimmi, dimmi, parla di nuovo, rinnovando
le tue dolci note. — Che cos’è che spinge così
veloce la nave? e che va facendo l’Oceano?»
SECONDA VOCE
«Immobile come uno schiavo dinanzi al mio
signore, l’Oceano non ha più un soffio; guarda
in silenzio col suo grande e scintillante occhio
la Luna, come per domandare in che direzione
ha da muoversi — perchè è lei che lo guida,
calmo o agitato. Vedi, fratello, vedi con che
soave grazia essa guarda in giù sopra di lui!»
PRIMA VOCE
«Ma come mai quella nave, senza onda e senza
vento, scorre così veloce?»
SECONDA VOCE
«L’aria le è rotta dinanzi, e si richiude subito
dietro il suo passaggio.
Vola, fratello, vola! più alto! più alto! o noi
saremo in ritardo; poiché la nave si muoverà
lenta lenta, appena ritorni in sé il marinaro.»
Mi destai; e si navigava come in propizia
stagione. Era notte, una notte tranquilla, la luna
era alta — gli uomini morti giacevano uno
accanto all’altro.
Giacevano tutti insieme sul ponte, che pareva
diventato un carnaio: tutti fissavan su di me i
loro occhi impietriti che brillavano al lume
della luna.
L’angoscia, la maledizione con la quale
morirono, non era sparita mai: io non potevo
staccare i miei occhi dai loro, nè sollevarli per
pregare.
Ma finalmente questo incanto fu rotto: ancora
una volta rivedevo l’oceano verde; e benchè
spingessi lontano lo sguardo, non scorgevo
quasi più nulla dei passati prodigi.
Ero come un uomo che in una via solitaria si
avanza con timore e terrore, ed essendosi
voltato un momento, ricammina senza più
volger la testa; perché sente che un orribil
demonio è dietro i suoi passi.
Ma presto alitò una brezza su me, senza
produrre suono né moto; il suo passaggio non
era sul mare, nell’onda, o nell’ombra.
Mi sollevava i capelli, mi sventolava su le
gote, soave come uno zeffiro sui prati di
primavera — si mescolava stranamente
anch’essa con le mie paure, eppure la sentivo
come un fausto saluto.
Rapida, rapida, filava la nave, eppur veleggiava
soavemente; dolcemente spirava la brezza — e
spirava sopra me solo.
Oh sogno di gioia! Quella ch’io vedo è davvero
la punta del fanale? È quella la collina? quella
la chiesa? è proprio questo il mio paese?
Si entrò in porto, e io pregai singhiozzando:
Mio Dio fa che ora mi desti — o se questo è un
sogno, fammi dormire per sempre!
L’acqua nel porto era limpida come cristallo, e
sì placidamente stendevasi! la baia era tutta
illuminata dal chiarore lunare.
La rupe risplendeva, e non meno la chiesa che è
su la rupe; la luna illuminava in perfetto
silenzio l’immobile banderuola.
La baia era tutta bianca nella tacita luce,
quand’ecco sorgenti da essa varie forme, che
erano ombre, apparvero in vermigli colori.
Quelle ombre vermiglie erano a poca distanza
dalla prora. Io girai gli occhi sul ponte…
O Cristo, che cosa vi vidi!
Ogni cadavere giaceva inanime e irrigidito, e,
per la santa Croce! un uomo tutto luce, un
uomo-angelo, stava presso ogni morto.
Ciascuno di quella serafica schiera accennava
con la mano: era una celeste visione! Essi
stavano come segnali alla terra, ognuno un
soave splendore.
Ognuno dell’angelica schiera stendeva la mano
accennando, e non emisero voce — nessuna
voce ; ma oh! quel silenzio scese come una
musica nel mio cuore!
A un tratto udii un tuffo di remi; udii il grido
del pilota; ignota forza mi fece volger la testa,
ed ecco apparire un battello.
Sentii avvicinarsi rapidamente il pilota e il suo
ragazzo. Gran Dio del cielo, fu tale la gioia, che
i morti stessi non potevan turbarla.
Vidi una terza persona, e sentii la sua voce.
Egli è il buon eremita! Canta a voce alta i santi
inni che compone nel bosco. Egli mi confesserà
— egli laverà la mia anima dal sangue dell’
Albatro.
PARTE SETTIMA
Il buon eremita dimora in un bosco che
costeggia il mare. Ha una forte e simpatica
voce, e ama conversare coi marinari che
vengono da lontane regioni.
S’inginocchia la mattina, a mezzogiorno, e la
sera: e ha per morbido cuscino il muschio che
riveste un vecchio tronco di quercia.
Il battello si avvicinava. Io li sentivo parlare:
«È strano davvero! e dove son ora quei tanti e
belli splendori che dianzi ci facevano cenno?»
«Strana cosa davvero in fede mia! (soggiunse
l’eremita) non è stato nemmeno risposto al
nostro saluto! L’intavolato della nave è tutto
sconnesso, e vedete le vele, come sono sottili e
consunte!
Io non ho mai visto nulla di simile, se non fosse
per quei bruni scheletri di foglie che
galleggiano nel ruscello del mio bosco; quando
i rami d’ellera son coperti di neve, e il gufo
ulula al lupo che divora i lupicini.»
«Signore Iddio! ha proprio un aspetto diabolico
(aggiunse il pilota) e io sono stordito dallo
spavento.» — «Coraggio e avanti!» rispose
allegramente l’eremita.
Il battello si appressò alla nave; ma io non dissi
parola, nè feci motto; il battello venne proprio
accosto alla nave, e immediatamente fu udito
un rumore.
Un rumore che dapprima brontolava sott’acqua,
poi si fece più forte e più spaventoso… arrivò
alla nave, sconvolse tutta la baia… e la nave
affondò come piombo.
Stordito da quell’orribil fracasso che scosse
mare e cielo, il mio corpo galleggiava come
quello di un annegato da sette giorni — quando
a un tratto, come in un sogno, mi ritrovai nel
battello del pilota.
Sulla voragine dove affondò il bastimento il
battello si aggirava vorticoso. Tutto era tornato
tranquillo; solo la collina echeggiava ancora del
gran rimbombo.
Quando io mossi le labbra per parlare, il pilota
mandò un grido, e cadde svenuto, Il buon
eremita levò gli occhi al cielo, e si mise a
pregare.
Io afferrai i remi. Il ragazzo del pilota, che ora
è diventato pazzo, rideva forte e a lungo,
girando gli occhi di qua e di là. «Ah! ah!
(diceva) mi accorgo ora che il Diavolo ha
imparato a remare.»
Ed ecco io misi piede sulla terra ferma, nel mio
paese nativo. L’eremita uscì con me dal
battello, ma poteva reggersi appena.
«Oh confessami, sant’uomo, confessami!» —
L’eremita aggrottò il sopracciglio. «Dimmi
subito, t’impongo di dirlo, che razza d’uomo
sei tu?»
E immediatamente questa mia persona fu
torturata in una tremenda agonia che mi
obbligò a raccontar la mia storia; e solamente
dopo averla narrata, mi sentii sollevato.
Fin d’allora, a un’epoca indeterminata, riprovo
quell’agonia; e finché non ho rifatto lo
spaventoso racconto, il cuore mi brucia nel
petto.
Io passo, come la notte, di terra in terra, e ho
una strana facoltà di parola. Appena lo vedo in
viso, riconosco subito l’uomo destinato ad
udirmi; e gli comincio a dire l’edificante mia
storia.
Che alto strepito esce da quella porta! I
Convitati sono tutti là: la sposa e le sue
damigelle son nel giardino e si odon cantare…
Ma ecco la campanella del vespro che invita
me alla preghiera.
O Convitato! Quest’anima si è trovata sola
sull’ampio, ampio mare: tanto sola, che Dio
stesso pareva appena esser là.
Oh, più dolce del nuziale festino, molto più
dolce per me, è l’avviarmi alla chiesa, in devota
compagnia.
Incamminarmi alla chiesa, e là pregar tutti
insieme, mentre ognun s’inchina al gran Padre,
vecchi, bambini, teneri amici, e giovani, e
allegre fanciulle.
Addio, addio! Ma questo io dico a te, o
Convitato: prega bene sol chi ben ama e gli
uomini e gli uccelli e le bestie.
Prega bene colui che meglio ama tutte le
creature, piccole e grandi; poichè il buon Dio
che ci ama, ha fatto e ama tutti.
Il marinaro dall’occhio brillante, dalla barba
brinata dagli anni, è sparito — e ora il
Convitato non si dirige più alla porta dello
sposo.
Egli se ne venne, come stordito, e fuori dai
sensi. E quando si levò la mattina dopo, era un
uomo più triste e più savio.
Samuel Taylor Coleridge, “La ballata del vecchio marinaio”, 1798
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Nell’immagine: Incisione di Gustave Doré per “La ballata del vecchio marinaio”