Riflessioni

Il chiacchiericcio sommesso dei colori

30.04.2020
Vasilij Kandinskij, “Giallo, rosso, blu”,  1925

Sentivo a volte il chiacchiericcio sommesso dei colori che si mescolavano: era un’esperienza misteriosa; sorpresa nella misteriosa cucina di un alchimista.” (Vasilij Kandinskij, “Giallo, rosso, blu”).

In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente un’anima. Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. E’ chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore.” (Vasilij Kandinskij, “Lo spirituale nell’arte”).

…E tutto ciò accade perché in fondo anche i colori hanno un’anima, una storia e una voce con la quale parlano, comunicano emozioni, immagini, messaggi, perfino odori e suoni. Un esempio? Pensate al verde: c’è una notevole differenza tra il verde del semaforo, quello della Lega Nord, il verde che sventola in tante bandiere (compresa la nostra) e il verde che per l’Islam diventa un colore sacro, simbolo del paradiso e della tribù a cui apparteneva Maometto. Ogni colore è un piccolo scrigno di significati diversi. Per questo, in qualunque ambito della nostra vita (dall’arte alla scienza, dal marketing alla pubblicità, dalla religione alla filosofia, dalla politica all’economia ecc.), il colore è sempre un segno che individua e che distingue. Ben lo sapevano i Romani, che, già intorno al II sec. a. C., contrassegnavano le corporazioni artigianali della “fullonica” (l’arte della tintoria) proprio in base ai colori con i quali venivano tinti i tessuti: così c’erano i “flammarii”,  per il giallo-arancio estratto da una pianta, il cartamo o zafferanone; i “crocotarii” per un diverso tipo di giallo, quello del croco; gli “spadicarii”  per il blu del tannino;  i “carinarii” per il tipico colore cereo della loro tintura, che veniva estratta dalle cosiddette conchiglie “turbinate”; i “purpurii” per la raffinata porpora ricavata dalla ghiandola di  alcune specie di molluschi (i murici), una varietà dei quali  veniva impiegata dai “violarii”  per ottenere una tinta violacea.

E adesso sono in lotta con i colori: l’urto è formidabile, uno di noi deve trionfare! Mi sembra quasi di sentirti dire: «E il disegno, Kahlil?» E Kahlil, con la sete nella voce, ecco che risponde: «Lasciami, oh lasciami immergere l’anima nei colori; lasciami ingoiare il tramonto e bere l’arcobaleno”.

(Khalil Gibran, “Mio amato profeta. Lettere d’amore di  Kahlil Gibran e Mary Haskell”).

A saperli ascoltare, sono proprio i colori a raccontare la loro storia. Prendiamo il rosso, forse il più antico di tutti, tanto da comparire già nelle caverne del Paleolitico e da trovare impiego, come colore cerimoniale, nei riti funerari del Neolitico. Insieme al bianco ed al nero, il rosso è il colore alchemico per eccellenza, poiché  l’”opus alchemicum”, necessario per ottenere la pietra filosofale, prevedeva il passaggio attraverso tre stadi: la “Nigredo”, in cui la materia si destruttura, putrefacendosi; l’“Albedo”, durante la quale la sostanza si ricompone, rinnovandosi, e la “Rubedo”, che conclude l’intero processo. In realtà, secondo altre teorie alchemiche, le fasi sarebbero quattro ed includerebbero anche l’”Opera al giallo”, o “Xantosi”; né manca chi antepone alla “Rubedo” la “Viriditas” (l“Opera al verde”), essendo quest’ultimo il colore della vegetazione rifiorita e quindi della resurrezione. Ottenuto dall’ematite, dal cinabro, dalle ocre ricche di ferro e dalla lacca di robbia, il rosso è il colore più esibizionista che ci sia, ma in fondo affetto da una forma di bipolarismo che lo porta dall’estremo positivo all’estremo negativo: ora “bello”, che in diverse lingue è il suo sinonimo (la parola russa “krosuoi”, ad esempio, significa sia “rosso” che “bello”), nonché simbolo, come scriveva Goethe, “tanto di gravità e dignità che di clemenza e grazia”; o, ancora, legato all’Eros, alla passione. All’estremo opposto, però, eccolo scivolare nella più demoniaca perfidia, giù giù tra le fiamme dell’inferno, o nel più bieco dei tradimenti: pare che i più noti traditori della storia (Caino, Giuda, Gano, Dalila, Mordret) avessero i capelli rossi. Sarà stato un caso?

“(…) E desidero solo colori. I colori non piangono, sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. Ciascuno uscirà per la strada,
ogni corpo un colore-perfino i bambini.
Questo corpo vestito di rosso leggero
dopo tanto pallore riavrà la sua vita.
Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d’esser io: gettando un’occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.(…)

(Cesare Pavese, da “Agonia”)

Anche il viola non scherza, quanto a bipolarismo: da un lato, simbolo del potere e del prestigio, tanto da essere impiegato dalla Chiesa in varie liturgie…Ma attenzione: si tratta prevalentemente di funzioni penitenziali (il colore dei paramenti quaresimali ne è un classico esempio), quasi il viola fosse capace di evocare soltanto tristezza e contrizione. In effetti è proprio così: il latino medievale lo definiva infatti subniger (“semi-nero”); lo associava al lutto, alla vecchiaia e, col tempo, perfino al malocchio. E forse tutto questo ci aiuta a capire perché, ancora oggi, sia un colore esecrato dalla gente di spettacolo, che lo considera di malaugurio, complici anche l’antica consuetudine di chiudere i teatri durante la Quaresima e il fatto che nel Medioevo la Chiesa ce l’avesse a morte con il teatro, considerato uno strumento del demonio. Nel tempo, la fama di questo colore non è migliorata di molto: “Quando il rosso si ritira nel blu nasce il viola, che tende ad allontanarsi da chi guarda.– Scrive Vasilij Kandinsky in “Lo spirituale nell’arte” – É un rosso spento che ha qualcosa di malato e triste”. Per non parlare poi di Andy Warhol, che lo scelse come una delle nuances per colorare una sedia elettrica.

(Andy Warhol, “Big electric chair”1967)

Nella terra buia riposa il santo straniero.
Un dio gli colse il lamento dalla bocca soave
Quando cadde nel fiorire degli anni.
Fiore azzurro
Vive ancora il suo canto nella casa nella casa notturna dei dolori”. (Novalis, da “I discepoli di Sais”)

Ben diversa la storia del blu e dell’azzurro, considerati colori “nobili” a causa del costo dei materiali necessari per ricavarli, tutti difficilissimi da reperire.  Per tingere i tessuti si adoperavano infatti l’indigofera, che però cresceva solo in India (di qui, il nome “indaco”) ed in Africa, oppure una pianta che i romani chiamavano “glastum”, “vitrum”, o “isatix” e con la quale, stando a Plinio il Vecchio, i Britanni dipingevano i loro corpi per terrorizzare i nemici. Non parliamo poi dei pittori, che, per ottenere questi colori nelle loro diverse sfumature, dovevano impiegare pietre preziose opportunamente triturate, come l’azzurrite e il lapislazzulo così amato da Giotto. La “nobiltà” del blu e dell’azzurro spiega la crescente sacralizzazione di questi colori, che nell’iconografia religiosa furono sempre più legati alla Madonna (il cui manto è del colore del cielo) e alla rappresentazione del Paradiso.  Last but not least, da loro deriverebbero anche l’espressione “sangue blu”, per indicare le persone nobili, il manto e i capelli di molte fate (come non ricordare la fata turchina, amica di Pinocchio?) e il principe, rigorosamente azzurro, si intende! Apprezzato anche dalla riforma protestante per la sua sobrietà (mai come il nero, comunque!), il blu conobbe il suo apogeo nel 1871, a Reno, in Nevada, quando un certo Jacob Davis, un sarto venuto dalla Lettonia, si mise in società con la Levi Strauss & Co. per produrre  i “blue jeans”. Il loro nome, invece, ci riporta in Italia e precisamente a Genova: “bleu de Genes”, “blu di Genova”, perché la città della Lanterna ne era il circuito fondamentale: il fustagno con cui erano realizzati, infatti, veniva usato per confezionare i sacchi per le merci, i pantaloni dei “camalli” (gli scaricatori del porto) e, secondo alcuni, anche le divise dei marinai genovesi. Che poi questo particolare tipo di fustagno fosse prodotto a Chieri, nel torinese, o a Nimes, in Francia (“de Nimes” avrebbe poi dato origine alla parola “denim”), resta ancora da chiarire. Ma c’è di più…o forse di meno? Giudicate voi. Secondo Luigi Cibrario, uno studioso della monarchia sabauda, proprio “quel colore di cielo consacrato a Maria è l’origine del nostro colore nazionale” (Luigi Cibrario, cit. in Gerbaix De Sonnaz C. A., “Bandiere, stendardi e vessilli di Casa Savoia, dai Conti di Moriana ai Re d’Italia1200-1861”).La storia comincia nel lontano 1366, quando Amedeo VI di Savoia, in partenza da Venezia per la crociata voluta da papa Urbano V, accanto allo stendardo della sua casata innalzò, sulla nave ammiraglia, un vessillo azzurro con una corona di stelle che circondava l’immagine della Madonna, di cui voleva impetrare l’aiuto. A partire da questo momento, l’azzurro fu sempre più legato all’Italia, nelle onorificenze come pure nella sciarpa indossata dagli ufficiali e codificata, nel 1572, da Emanuele Filiberto I di Savoia. Facciamo un salto lungo la linea del tempo e arriviamo al 6 gennaio 1911: all’Arena di Milano la nazionale di calcio italiana incontra l’Ungheria. Per la prima volta i nostri calciatori (che, fino all’anno prima, avevano indossato una maglia bianca con una coccarda tricolore) ne esibiscono ora una azzurra, proprio in omaggio ai Savoia. Ricordate poi quello stendardo azzurro con la Madonna circondata da una corona di stelle? Sì, proprio quello sbandierato da Amedeo VI di Savoia! E avete presente la bandiera dell’Europa?  Ci assomiglia, vero? Ebbene, nel 1955 l’alsaziano Arsène Heitz, presentò proprio questo disegno al concorso bandito a Strasburgo per scegliere la bandiera che sarebbe poi diventata il simbolo dell’Europa. A quanto disse, l’immagine gli fu rivelata in sogno: “Nel cielo apparve poi un segno grandioso: – raccontò Heitz – una Donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle”… Sarà, ma resta comunque il fatto che quel “sogno grandioso” sembrava stranamente imparentato con i Savoia.

Lei si sentiva azzurra.
Era il suo colore preferito, quello che indossava di più, aveva pure i pensieri azzurri.
Azzurro di tutte le sfumature.
Nel mare si fondeva come una goccia d’acqua nella tempera (azzurra).
Nel cielo di primavera si perdeva e lo guardava, lo guardava e poi lo teneva negli occhi, dietro a quelle pupille nere.
Il cielo negli occhi, il mare nel cuore, l’azzurro.
Lui invece era blu.
Secondo lei era ambra, come i suoi occhi, come il suo miglior lato: quello ambrato.
Ma lui si sentiva blu.
Il blu della notte, un colore scuro ma rassicurante.
Il blu, così inquietante e ruvido, eppure così dolce e sensibile.
Il blu, lui.
E insieme erano sempre il blu. Perchè un blu scuro, più un azzurro chiaro, fa sempre blu.
Un’altra sfumatura, ma sempre blu.
E loro erano la notte, erano il mare, erano tempesta ed erano sole.
Loro erano il blu.

(Anonimo)

Pablo Picasso, “Nudo blu”, 1902

L’inchiostro verde crea giardini, selve, prati,
fogliami dove cantano le lettere,
parole che son alberi,
frasi che son verdi costellazioni.

Lascia che le parole mie scendano e ti ricoprano
come una pioggia di foglie su un campo di neve,
come la statua l’edera,
come l’inchiostro questo foglio.
Braccia, cintura, collo, seno,
la fronte pura come il mare,
la nuca di bosco in autunno,
i denti che mordono un filo d’erba.

Segni verdi costellano il tuo corpo
come il corpo dell’albero le gemme.
Non t’importi di tante piccole cicatrici luminose:
guarda il cielo e il suo verde tatuaggio di stelle.

(Octavio Paz,  “Scritto con inchiostro verde”)

Chi di verde si veste, di sua beltà troppo si fida” – era solita ripetere mia nonna. Da dove nasca questo proverbio, francamente non lo so. Però forse sarà proprio il verde a spiegarcelo. Se ci guardiamo intorno, noteremo che la natura si presenta dominata dal duopolio verde- azzurro. Eppure questo colore così “naturale” da diventare il simbolo stesso dei movimenti ecologisti, risulta, se prodotto chimicamente, non solo molto difficile da sintetizzare, ma perfino velenoso, perché ottenuto spesso con l’impiego dell’arsenico o di sostanze inquinanti e pericolose, come il cloro, il bromuro, il cobalto ecc. Tale curioso paradosso lo accompagna fin dai tempi dell’”Apocalisse”, in cui Dio compare su di un “arcobaleno simile nell’aspetto a smeraldo” (“Apocalisse”, 4, 1-11), ma in cui anche la Morte, con tutto l’Inferno appresso, fa la sua apparizione sopra un cavallo “verdastro” (“Apocalisse”, 6, 1-8). E se è vero che sono i colori a richiamare immagini, emozioni, suggestioni, tutto ciò non ci deve sorprendere: il verde smeraldo evoca lo splendore ed il rigoglio della natura, ma il verdastro, non a caso definito spesso “verde marcio”, è legato alle acque stagnanti, alle paludi, alla putrefazione. Da un lato, c’è, in questo colore, un messaggio di speranza che, come scrive Dante, “ha fior del verde” (“Divina Commedia”, Purgatorio, III, 135); dall’altro c’è l’immagine della terribile “Fée Verte” (la “Fata verde”), l’assenzio, “le péril vert” (il “pericolo verde”), amato dai “poeti maledetti” e dai bohèmiens che solevano bazzicare il “Café Momus” descritto da Henry Murger ne “La vie de Bohème”. Il verde è il colore legato ai soldi (la cartamoneta adottata nel 1862 negli Stati Uniti fu, appunto, la “greenback”, meglio nota come il “verdone”); ma è anche quello che ci avvisa di non averne, dell’essere, appunto, “al verde”, probabilmente perché nelle aste pubbliche tenute a Firenze dal Magistrato del sale, venivano impiegate come segnatempo delle candele di sego che avevano la base verde:  quando la candela si consumava  arrivando, appunto, “al verde“, l’asta si doveva considerare chiusa; almeno, ciò è quanto viene riportato, nel 1674, da Paolo Minucci, nelle sue  glosse al “Malmantile racquistato” (il poema eroicomico del pittore Lorenzo Lippi, pubblicato con lo pseudonimo di Perlone Zipoli). Ed ecco dunque spiegato il senso del nostro proverbio: mai fidarsi completamente del verde!

L’ultima, proprio l’ultima,
di un giallo così intenso, così
assolutamente giallo,
come una lacrima di sole quando cade
sopra una roccia bianca
così gialla, così gialla!
l’ultima,
volava in alto leggera,
aleggiava sicura
per baciare il suo ultimo mondo.
Tra qualche giorno
sarà già la mia settima settimana
di ghetto:
i miei mi hanno ritrovato qui
e qui mi chiamano i fiori di ruta
e il bianco candeliere di castagno
nel cortile.
Ma qui non ho rivisto nessuna farfalla.
Quella dell’altra volta fu l’ultima:
le farfalle non vivono nel ghetto.

(Pavel Friedman, “La farfalla”)

Pierre Auguste Renoir, “La raccolta dei fiori”, 1875

E forse non bisogna fidarsi molto neppure del giallo…Vero è che il giallo è il colore del sole, che “grida” al mondo tutta la sua luminosità, come sembrerebbe suggerito dalla radice indoeuropea della parola “giallo”: “–ghel” che significa “splendente”, ma curiosamente anche “urlare”. Eppure il giallo nasconde qualche cadavere nell’armadio, perfino più dei suoi “confratelli”. Non si tinge forse di questo colore la letteratura poliziesca, ossia il cosiddetto “romanzo giallo”? Ad onor del vero, c’è da dire che ciò accadde solo in Italia: nel 1929 Arnoldo Mondadori e lo scrittore Lorenzo Montano, volendo creare anche da noi una collana dedicata ai romanzi polizieschi, scelsero, per la copertina, un giallo sgargiante, con il duplice scopo di attirare l’attenzione dei lettori e di distinguere questa dalle altre collane della medesima casa editrice (i libri azzurri erano infatti riservati alla narrativa italiana, i verdi alla storia romanzata, i neri alle storie cupe e tristi).  Dopodiché ci mise la sua il poeta Leonardo Sinisgalli, che, in un articolo del dicembre 1929, recensì i primi quattro volumi definendoli appunto “romanzi gialli“, per indicare non solo la copertina, ma anche il loro particolare contenuto. Non diamo però tutte le colpe a Mondadori e a Montano: ben prima di loro il giallo aveva già dato prova di un certo bipolarismo (come vedete, la lotta bene/male, che perseguita da secoli l’immaginario collettivo, coinvolge anche i colori), tanto che, nel Medioevo, gli abiti dei traditori erano proprio di questo colore. Lo stesso Giotto, nel dipingere il “Bacio di Giuda” (o “Cattura di Cristo”), che fa parte delle “Storie della Passione di Cristo”, nella Cappella degli Scrovegni (Padova), tinse di giallo la veste di Giuda. E, ad ulteriore conferma di questa triste fama, interviene il fatto che di questo colore fosse la stella di David, che gli ebrei erano costretti a portare cucita addosso, proprio perché accusati di “deicidio”.

Sai tu la terra ove i cedri fioriscono? Splendon tra le brune foglie arance d’oro, pel cielo azzurro spira un dolce zeffiro, umil germoglia il mirto, alto l’alloro…

(Johann Wolfgang von Goethe, “Evocazione”)

 

Spicca l’arancia all’alba

e bevi il succo:

io guardo il cielo, dove la ramaglia

si slancia, a frusto a frusto.

E avremo un’altra infanzia

che si smaglia

da quell’azzurro, lenta;

precipita l’arancia

dal sole alle tue mani,

e dai lontani

giardini, ove un inverno

caldo sorveglia i mari.

(Carlo Betocchi, “Alba e aranci”)

L’arancione luccica all’insegna del camaleontismo: è il colore nazionale dei Paesi Bassi, del Protestantesimo nell’Irlanda del Nord, dell’Induismo e soprattutto del Buddhismo, poiché secondo il “Bardo Tödöl Chenmo”, il libro tibetano dei morti, derivando dalla fusione di giallo e di rosso, entrambi considerati simboli della purificazione interiore, rappresenta l’elevazione dell’anima verso quello stato di piena consapevolezza, che potrà un giorno liberarla dal “samsara“ (ossia dalla condanna alla reincarnazione). Nell’antica Roma era il colore del “flammeum”, il velo nuziale delle donne, identico a quello indossato dalla sposa del “Flamen Dialis”, il sacerdote di Giove Capitolino che presenziava all’antico rito nuziale della “confarreatio”, durante il quale gli sposi si scambiavano una focaccia di farro. Dal momento che al  “Flamen Dialis” era tassativamente precluso il divorzio, pena la perdita della carica, l’arancione era diventato il simbolo stesso dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale. Eppure, a dispetto del suo turgore, neppure l’arancione riesce a sottrarsi al consueto destino dualistico: la sua anima, infatti, è avvelenata da un pericoloso arsenico sulfureo, il “realgar”: “polvere di caverna”, secondo la lingua araba da cui deriva il suo nome, ma anche “sandaraca” o “sandracca“, come lo definisce Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis Historia”, mentre gli alchimisti lo chiamavano “risigallo“.

Un Rospo uscì dar fosso

e se la prese cor Camaleonte:

– Tu – ciai le tinte sempre pronte:

quanti colori che t’ho visto addosso!

L’hai ripassati tutti! Er bianco, er nero,

er giallo, er verde, er rosso…

Ma che diavolo ciai drent’ar pensiero?

Pari l’arcobbaleno! Nun c’è giorno

che nun cambi d’idea,

e dài la tintarella a la livrea

adatta a le cose che ciai intorno.

Io, invece, èccheme qua! So’ sempre griggio

perchè so’ nato e vivo in mezzo ar fango,

ma nun perdo er prestiggio.

Forse farò ribrezzo,

ma so’ tutto d’un pezzo e ce rimango!

– Ognuno crede a le raggioni sue:

– disse er Camaleonte – come fai?

Io cambio sempre e tu nun cambi mai:

credo che se sbajamo tutt’e due”

(Trilussa, “Er carattere”)

Solenne cosa – io dissi –
essere Donna nella Veste Bianca:
e indossare – se Dio mi trova degna –
il suo immacolato Mistero.

(Emily Dickinson)

Oggi ho scoperto cinquecentosedici tipi di bianco, ciascuno assolutamente unico, ciascuno con una singola emozione. Ho scoperto il bianco del denti da latte di mio figlio, il bianco di una margherita, il bianco di una pagina dopo l’ultimo capitolo, il bianco di una nuvola, il bianco di una briciola di pane, il bianco di un sorriso sconosciuto intravisto per strada, il bianco di un mio capello allo specchio, il bianco di un tasto di pianoforte, il bianco della luna, il bianco di un frammento di luce nel buio della stanza… Quanti bianchi ci sono nel mondo… E chissà quanti bianchi scoprirò domani…
(Fabrizio Caramagna)

Il bianco è il profumo dei colori. (…) I vetri, il bianco sono materia, colore, carne, vita.– Scrive Roberto Peregalli in “I luoghi e la polvere”, tentando di riscattarlo dalla pessima fama di “non-colore”, attribuitagli dalla fisica newtoniana. Eppure la sua etimologia è di ben altra specie: il germanico “blanc” significava “brillante“, “scintillante” e probabilmente proprio da questa sua radice deriva l’espressione “combattere all’arma bianca”, perché le armi da taglio risplendono al sole. Sia i Germani che i Romani, inoltre, sembravano ipnotizzati dalla luce che questo colore sprigiona: le lingue germaniche distinguevano infatti il bianco brillante, individuandolo come “blanck” e i Romani definivano “albus” il bianco opaco e “candidus” quello brillante. Per entrambi questi popoli, la luce era decisamente più importante del colore in sé: non a caso il termine germanico “blanck”, sempre usato in riferimento al bianco, era stranamente simile alla parola “black”, che invece indicava il nero, perché ad imparentare questi due opposti era proprio la loro brillantezza. A dispetto della sua fama di “non-colore”, il bianco sembra possedere quasi una sorta di linguaggio universale: ovunque è simbolo purezza, di rettitudine, di nascita, di rigenerazione. E perfino nei Paesi in cui il bianco è legato al lutto (come in molti Stati Africani, in Cina, in Giappone ecc.), sembra che questo avvenga non tanto per l’associazione tra questo colore e il pallore della morte, quanto per il suo significato di rinascita ad una nuova vita. Prova ne sia il fatto che, durante il Medioevo, il nero diventò colore del lutto solo quando, nel XII secolo, il cardinale Lotario, che sarebbe diventato papa Innocenzo III, redasse il trattato “De sacrosanti altaris mysterio”, in cui stabiliva i colori della liturgia, riservando, appunto, il nero al lutto, alla penitenza e alle Messe per i defunti. Per diventare “di moda” nelle cerimonie funebri, però, il nero dovrà attendere il 1419-1420, quando il duca di Borgogna, Filippo III Il Buono, lo indosserà per commemorare suo padre, Giovanni Senza Paura (assassinato dagli Armagnac nel 1419). La singolare uniformità e positività del bianco è rintracciabile alla base di molte simbologie; ne è un classico esempio il bianco della bandiera che indica la resa e la pace, riconosciuta come tale dalla Convenzione dell’Aia nel 1899, ma la cui origine sembrerebbe risalire addirittura alla guerra civile romana del 68-69 d.C., quando, come racconta Tacito, i sostenitori dell’imperatore Vitellio, assediati a Cremona dalle legioni flaviane di Marco Antonio Primo, in segno di resa sollevarono rami d’ulivo e bende bianche (Tacito, Historiae, L. III, XXXI). Molto più recente, invece, l’adozione del bianco come colore degli abiti da sposa, che diventò di moda verso la fine del XIX secolo e più precisamente dopo il matrimonio della regina Vittoria con Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha. Per l’occasione, infatti, Sua Maestà indossò un abito bianco impreziosito da merletti, che fu presto entusiasticamente imitato da molte spose. A consolidare questa moda facendone una tradizione, intervenne la bolla “Ineffabilis Deus”, con la quale Pio IX, l’8 dicembre del 1854, proclamò il dogma dell’Immacolata Concezione: da allora, infatti, la Chiesa cominciò a indicare in questo colore il simbolo stesso della purezza. Ad ulteriore riprova di quanto il linguaggio del bianco abbia un carattere universale, interviene il fatto che in moltissime religioni il bianco diventa il “il colore stesso delle divinità”, come scrive Claudio Widmann (C. Widmann, “Il simbolismo dei colori”). Così Sarasvatī,  dea della conoscenza e delle arti, venerata anche come śakti (emanazione) di Brahma; Byelobog che, nella mitologia slava, è il “dio bianco” della luce, epiteto, questo, attribuito anche al dio Heimdallr della mitologia norrena (ossia quella legata alla tradizione pre-cristiana delle popolazioni scandinave, arrivata fino a noi grazie a  testi medievali come l’”Edda”, del XIII secolo); e, ancora, Bumba, solitaria divinità africana che avrebbe vomitato il sole, la luna e le stelle e “Oxalà”, venerato dal “Candomblè” (una religione sincretica nata dalla fusione dei culti africani portati dagli schiavi di etnia Yoruba e basata sul culto degli “Orishas”, o “Orixà”, entità divine identificate con altrettanti elementi naturali e successivamente fuse con i santi della religione cristiana), quest’ultimo considerato il  padre della vita e della fecondazione. Anche nella tradizione cattolica, Dio compare sempre ammantato da un candore abbacinante e, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, questo colore viene spesso abbinato alla divinità: i profeti lo vedono circonfuso di bianco (Daniele, 7 e 10) e Salomone scrive che la saggezza è lo specchio puro ed incontaminato della bontà divina (Salomone, Libro della Sapienza,7, 25). Nei Vangeli, Cristo risorto appare vestito di bianco (Mc., 16, 5; Lc., 24, 4; Giov., 20, 12) e nella trasfigurazione che avviene sul Monte Tabor, il viso di Gesù risplende come il Sole e la sua veste è bianca come la neve (Mt.,17, 2). Bianco è l’Agnello, annunciato dalla sposa del “Cantico dei Cantici” come «dilectus meus candidus et rubicundus» (“Cantico dei cantici”, 5, 10. Da notare che il termine “rubicundus” si riferisce qui solo al colore rosso dell’abito). Insomma, a parte qualche piccola accusa di evanescenza, il bianco sembrerebbe quasi perfetto, così universale, luminoso, rasserenante… Non è così. Bianco è infatti anche il colore della luna, di cui condivide  l’aspetto incantatore, stregato, spettrale. Eccolo quindi impegnato ad evocare l’apparizione di spettri, lemuri, fantasmi, terrificanti inquilini dei nostri incubi peggiori, sempre pronti a violare i confini che separano i vivi dai morti. Questa declinazione del bianco verso il perturbante e lo spettrale finirà per contagiare anche certa letteratura “nera” dell’Ottocento, come la balena bianca del romanzo “Moby Dick” di Herman Melville.

Era la bianchezza della balena che soprattutto mi sconvolgeva. È forse che essa adombra con la sua indefinitezza i vuoti e le immensità spietate dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero del nulla, quando contempliamo le bianche profondità della Via Lattea? O è forse perché, nella sua essenza, il bianco non è tanto un colore quanto l’assenza visibile del colore e, al tempo stesso, la fusione di tutti i colori; è forse per questi motivi che c’è una così muta vacuità, piena di significato, in un vasto paesaggio nevoso – un incolore onnicolore d’ateismo dal quale rifuggiamo?…”

(Herman Melville, “Moby Dick”)

Sebbene sia bianco il signore degli elefanti bianchi
Che i barbari Pegu pongono sopra a ogni cosa
E bianche le pietre che i pagani antichi donavano
in segno di gioia, per un giorno felice
Bianche cose nobili e commoventi,
Come i veli di sposa
L’innocenza, la purezza, la benignità dell’età
Sebbene abiti bianchi vengano dati ai redenti
Davanti a un trono bianco,
Dove il santissimo siede, bianco come la lana
Sebbene sia associato a quanto di più dolce,
Onorevole e sublime
La bianchezza della balena
Niente è più terribile di questo colore,
Una volta separato dal bene,
Una volta accompagnato al terrore
La bianchezza dello squalo bianco,
L’orrida fissità del suo sguardo
che demolisce il coraggio
La fioccosa bianchezza dell’albatro,
nelle sue nubi di spirito
La bianchezza dell’albino bianco
E cosa atterrisce dell’aspetto dei morti
se non il pallore
Bianco sudario colore?
Spettri e fantasmi immersi in nebbie di latte
Il re del terrore avanza nell’apocalisse
Su un cavallo pallido
E pallidi i cappucci della pentecoste
E il mare nel suo richiamo abbissale
Nell’antartico, bianco sconfinato cimitero,
il bianco sogghigna nei suoi monumenti di ghiaccio
Il pensiero del nulla si spalanca nella profondità lattea del cielo
Bianco l’inverno bianco, la neve bianca,
bianca la notte
Bianca l’insonnia bianca, la morte bianca
e bianca la paura è bianca
L’universo vacuo e senza colore
Ci sta davanti come un lebbroso
Anche questo è la bianchezza della balena
La bianchezza della balena
Capite ora la caccia feroce? Il male abominevole,
l’assenza di colore”

(Vinicio Capossela, “La bianchezza della balena“,in “Marinai, Profeti e Balene, 2011, liberamente ispirato a Moby Dick

Lattiginosa d’alba
nasce sulle colline,
balbettanti parole ancora
infantili, la prima luce.

La terra, con la sua faccia
madida di sudore,
apre assonnati occhi d’acqua
alla notte che sbianca.

(Gli uccelli sono sempre i primi
pensieri del mondo).

(Giorgio Caproni, “Prima luce”, da “Come un’allegoria,”)

Alberto Burri, “Il Cretto di Gibellina“, realizzato tra il 1984 ed il 1989 nel luogo in cui un tempo sorgeva la città vecchia di Gibellina (Trapani), completamente distrutta dal terremoto del Belice (1968)

Il nero è qualche cosa di spento, come un rogo combusto fino in fondo, qualche cosa di inerte come un cadavere, che è insensibile a tutto ciò che gli accade intorno e che lascia che tutto vada per il suo verso.
È come il silenzio del corpo dopo la morte, dopo la conclusione della vita.
È questo, esteriormente, il colore meno dotato di suono, sul quale perciò ogni altro colore, anche quello che ha il suono più debole, acquista un suono più forte e più preciso, a differenza di quanto avviene su un fondo bianco, su cui quasi tutti i colori perdono in intensità di suono e molti si dissolvono completamente, lasciandosi dietro un suono fioco, indebolito.


(Wassily Kandinsky, “Lo spirituale nell’arte”)

Anche il nero è un “non-colore”, ma in senso diametralmente opposto rispetto al bianco: qui la luce si spenge, inghiottita dal buco nero del “nigrum”, della tenebra, della morte. «Negras tormentas agitan los aires, nubes oscuras nos impiden ver», recita la canzone spagnola “A las barricadas”, forse il più celebre canto anarchico che accompagnò la rivoluzione spagnola contro i generali golpisti di Francisco Franco (1936).

«Io sono una parte della parte, che però è l’inizio del tutto. Quella parte della tenebra che generò la luce, la superba luce che adesso contende alla madre notte il primato e lo spazio. Eppure, questo non le riuscirà perché, per quanto provi, essa rimane attaccata ai corpi», dice Mefistofele nel “Faust” di Goethe. 

Probabilmente fu proprio questo atavico terrore del buio a spingere gli uomini del Paleolitico, 17.000 anni prima di Cristo, a decorare le pareti delle loro caverne riempiendole di colori, quasi per esorcizzare l’ombra che li invadeva: ne è un esempio il complesso di pitture rupestri di Lascaux, scoperte nel 1940 nei pressi del villaggio di Montignac, nel Dipartimento francese della Dordogna.

Particolare delle pitture rupestri di Lascaux

Quando però venne il momento di “creare” il nero, di riprodurlo, ci si accorse che l’impresa era più ardua del previsto: l’ossido di manganese e il carbone rendevano le tinture volatili e difficili da distribuire in maniera omogenea sul tessuto, anche quando venivano impastate con gomma o con glutine per tentare di stabilizzarle. Inoltre il risultato finale, più che un vero e proprio nero, era una sorta di bruno, un grigiastro o un blu molto scuri, che conferivano alle stoffe un aspetto rozzo, relegandole quindi alla fetta di mercato costituita dai ceti più umili. Si ricorse così alla noce di galla (o cecidio), una piccola escrescenza che si forma su foglie, tronco, rami e radici della quercia ed è dovuta ad un minuscolo insetto (un cipinide, dell’ordine degli imenotteri), simile ad una vespetta scura, che deposita le uova nel tessuto vegetale. La noce di galla, ricca di tannini, cresce poi attorno alla larva e la nutre finché l’insetto vola via. Si trattava, però, di un prodotto estremamente costoso, sia per l’enorme quantità di noci necessarie alla lavorazione, sia perché doveva essere importato dall’Europa orientale, dal Vicino Oriente o dall’Africa del nord, dal momento che le querce occidentali ne producevano una qualità decisamente scadente. Nonostante tutto, la produzione continuò in misura direttamente proporzionale alle richieste del mercato, stimolando così la ricerca chimica. Già partendo da queste considerazioni, è intuibile la sostanziale ambivalenza del nero, “enfant terrible dei colori” (come lo definisce Marco Avvisati in “Storia del colore nero. Tra miti e leggende, dall’antichità ad oggi”), che, a dispetto del suo legame con l’ombra, con il mistero e con le tenebre, ha sempre continuato ad esercitare sull’uomo un’attrazione magnetica, a cui sembrava impossibile sottrarsi. Esattamente come il bianco, evoca la morte, il lutto, forse perché con il suo opposto ha in comune il carattere di “non-colore”, di vuoto, di assenza, che però, a differenza del bianco, inghiotte e neutralizza la luce. Ma è anche possibile che questo legame sia imputabile al fatto che è il colore della terra, il che aggiungerebbe un altro tratto alla sua ambivalenza, connettendolo a figure demoniache, minacciose e distruttive (il perfido Kaliya, il re serpente della mitologia induista; Seth, il dio egiziano del deserto, l’assassino di Osiride; Lilith, inquietante figura notturna dell’immaginario popolare ebraico), nonché alle creature tenebrose che popolano il regno dei morti (Ade, il dio degli Inferi della mitologia greca; l’egiziano Anubi , il dio dalla testa di cane che vigilava sul regno dei morti;  il nero Yama, o Dharma dell’induismo, “colui che irrimediabilmente trattiene con sé” e che presiede al trapasso delle anime; Ereškigal, la “Signora della grande terra“, dea degli inferi della mitologia sumera; o, ancora, la dea Feralis (“dea feroce“) della mitologa romana, cui spettava il triste compito di stabilire l’ultimo istante di vita dell’uomo.

Oh Tum! Che luogo è mai questo
nel quale sono appena giunto?
Ahimè! Io non trovo punto aria da respirare!
L’acqua vi manca!
Dappertutto io sento, né altro intuisco,
nelle tenebre profonde che mi circondano,
che precipizi e abissi!
Quale opaca oscurità!

(“Libro dei Morti”, Cap. CLXXV)

Così la via delle selve è incerta sotto la luna
scarsa di luce quando nell’ombra
il cielo è scomparso, quando la notte
distesa di nero ha tolto i colori dall’aria”.

(Virgilio, “Eneide”, Libro VI )

Nel contempo, però, proprio in quanto colore della terra per antonomasia, il nero mostra un inscindibile legame con la fertilità, con la germinazione e con la rinascita. Nell’antico Egitto, per esempio, il nero era il colore del “kemet”, il fertile limo lasciato dal Nilo dopo le inondazioni, prezioso per l’agricoltura. Altrettanto indicativo è il mito della dea sumera Ereškigal, dea “nera” per eccellenza, ma nel contempo sorella di Inanna, dea della fecondità e dell’amore e, in quanto tale, considerata la più importante divinità femminile mesopotamica, successivamente assimilata ad Ištar, dea accadica, babilonese e poi assira.   Che il nero rappresenti, come vuole Jung, «il colore delle origini, degli inizi, degli occultamenti, nella loro fase germinale, precedente all’esplosione luminosa della nascita» (Carl Gustav Jung, “L’uomo e i suoi simboli”), sarebbe ulteriormente attestato dal mistero, mai pienamente risolto, delle “Madonne nere“. La loro origine può forse essere spiegata come un’appropriazione sincretica, da parte del cristianesimo, delle antiche “dee madri”, divinità primigenie della nascita e della fertilità il cui culto sembra risalire al Neolitico. Molte di queste “matres” erano nere: Iside, la vergine nera paritura; Demetra, la madre nera; Artemide “Scotia” (la “scura”), Venere “Melaenis” (la “nera”) ecc. Spesso raffigurate con un bimbo in braccio, proprio come Iside viene rappresentata con il piccolo Horus, alcune di esse presentavano sul basamento la medesima iscrizione votiva di Iside: “Virgini pariturae” (“alla Vergine che sta per partorire“). Tutto ciò sta a dimostrare che il nero, pur nel suo carattere di “privatio lucis”, rappresenta, oltre alla morte, anche l’inizio, l’origine, il caos primordiale che genera il mondo.

Così recita il libro biblico del Genesi: «La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu»

(“Genesi”, 1-3)

Non a caso, il nero, in netto contrasto con il carattere atemporale del bianco, simboleggia il tempo o, meglio ancora, il tempo della notte come madre di tutte le cose, quella stessa che compare nell’”Arca di Kypselos”,  realizzata in legno di cedro con fregi in avorio da un artista sconosciuto, intorno al VI sec. a. C. e che Pausania, l’unico a fornirne una descrizione dettagliata (in “Periegesi della Grecia”, L. V, 17, 5 – 19) considerava un dono votivo fatto dalla famiglia dei Cipselidi al tempio di Olimpia. L’arca in questione rappresenta appunto la notte, che stringe tra le braccia due bambini, uno bianco ed uno nero, indicati rispettivamente come “Hypnos”, “Sonno”, e “Thanatos”, “Morte”. Ma forse il segno più tangibile di questo suo trasmutarsi è costituito dallo “yin” (nero) e dallo “yang” (bianco), i due principi descritti dall’antica filosofia cinese; il primo, lo “yin”, legato alla luna, alla notte, all’oscurità, ai demoni, al caos, alla terra, all’acqua, al nord (e quindi al freddo), alla negatività  e – guarda caso! – al femminile; il secondo, lo “yang”, connesso invece al sole, al giorno, alla luce, agli dei, alla chiarezza, al cielo, al fuoco, al sud (e quindi al caldo), alla positività e pertanto – ma come ti sbagli? – al maschile. Sono due opposti, è vero, ma permangono in un rapporto dialettico di interdipendenza e ognuno di essi contiene “in nuce” il germe dell’altro. Se dovessimo ricostruire nel dettaglio la storia di questo colore (ma ve lo risparmio!), troveremmo però un particolare davvero molto sconcertante: questo “non-colore” così tenebroso e nullificante è, in fondo, quello che contiene la più ricca gamma di significati: è il nero della morte e della rinascita, ma anche della vita e della fecondità; luttuoso e tetro, eppure così terribilmente glamour: come non rammentare il famoso tubino nero creato da Coco Chanel nel 1926 e destinato a diventare un’icona della moda, “il vestito che tutte le donne porteranno”, e alla cui fama contribuì non poco una elegantissima e sofisticata Audrey Hepburn, che lo indossò nel cult movie “Colazione da Tiffany”, nel  1961? Troppo lezioso, questo nero?  Forse no, se il famoso dolcevita nero, indossato dagli esistenzialisti, Sartre prima di tutti, li avrebbe portati a dar vita ad uno stile che si potrebbe definire “protopunk” e che diventò il simbolo stesso dell’intellettuale “engagé” (“impegnato”), stile al quale la cantante Juliette Greco, inguainata in un abito rigorosamente nero, contribuì con il suo fascino e con la seducente pastosità della sua voce. Nero servile, rozzo colore di tanti abiti da lavoro, nonché delle mezze maniche del “travet” (l’umile impiegatuccio al quale lo scrittore piemontese Vittorio Bersezio aveva dato fama con la commedia “Le miserie ‘d Monsù Travet”, rappresentata per la prima volta a Torino nel 1863). Ma anche nero autoritario, quello delle divise: nero che comanda, che impone, che intimidisce. E’ un colore incredibilmente poliglotta, il nero: parla molte lingue, proprio come il suo animale-metafora, il corvo e come lui carico di attributi magici e talvolta perfino apotropaico. Nella mitologia scandinava, il corvo è onniscente: Odino o Wotan, la principale divinità degli Asi, si accompagna infatti a due corvi, Huginn (il “pensiero“) e Muninn (la “memoria“) che percorrono il mondo riferendogli ciò che hanno visto e sentito. Per poi raccontarlo anche a noi…

 “A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
io dirò un giorno i vostri ascosi nascimenti:
A, nero vello al corpo delle mosche lucenti
che ronzano al di sopra dei crudeli fetori,

golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende,
lance di ghiaccio, bianchi re, brividi di umbelle;
I, porpore, rigurgito di sangue, labbra belle
Che ridono di collera, di ebbrezze penitenti;

U, cicli, vibrazioni sacre dei mari verdi,
quiete di bestie ai campi, e quiete di ampie rughe
che l’alchimia imprime alle fronti studiose.

O, la suprema Tromba piena di stridi strani,
silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi:
– O, l’Omega, ed il raggio violetto dei Suoi Occhi!

(Arthur Rimbaud, “Le vocali”)

(Pierre Soulages “Peinture“, 1970)

 

Articolo di Maddalena Vaiani

Immagine in evidenza: André Derain, “L’Estaque“, 1905

 

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