Riflessioni

La politica spiegata ai bambini

30.04.2020

Ovvero, i “tormentoni”non finiscono mai

Cominciamo dal primo tormentone, quello che in genere viene ammannito a noi docenti, nella migliore delle ipotesi con tono di rimprovero, nella peggiore, con un piglio da Torquemada (che, nel ‘400, era un inquisitore tristemente famoso per essere cattivello assai).
Il tormentone è sempre lo stesso: “A scuola non si fa politica”!
Proviamo a fare il punto della situazione.
“Politica” viene da “polis”, termine generalmente tradotto come “città-stato”. Vero è che tuttora molti storici gridano allo scandalo, sostenendo che si trattasse semplicemente di comunità autonome…
Ma lasciamo queste sottigliezze agli addetti ai lavori. A me interessa invece il concetto di “comunità”, di uomini che, insieme, discutevano, si organizzavano, prendevano decisioni collettive, cercavano  di risolvere i problemi interni e, ovviamente, anche le questioni pendenti con le altre “poleis”. Ad onor del vero, va detto che dalle decisioni comunitarie  erano esclusi gli schiavi (che, come ci spiega Aristotele, non erano da considerarsi uomini!), le donne (per buona pace dei maschilisti) e gli stranieri (il che farebbe la gioia di Salvini). Però noi non dobbiamo guardare al passato per imitarne il peggio, altrimenti rischieremmo di tornare nelle caverne a far compagnia alle scimmie, che dovrebbero essere le nostre antenate (purtroppo per loro).
Dunque, a parte questi “vizietti” di fondo, la politica era l’essenza stessa della vita comunitaria, là dove si cominciavano ad imparare insieme le regole del vivere civile.
E allora perché non si dovrebbe fare politica a scuola? Anzi, direi che sia proprio doveroso farlo, perché se noi genitori e docenti non insegniamo ai giovani il senso civico e le regole del vivere insieme, rischiamo di consegnarli in mano al primo politicante da strapazzo (un genere oggi molto di moda), che ne farà altrettanti schiavi del suo potere, dei suoi interessi, delle sue ambizioni personali.
Le “poleis” ci hanno insegnato ad essere liberi nel rispetto della legge. Non lo dimentichiamo.

Secondo tormentone: “Qui si fa troppa politica!” (il “qui” è un concetto lato, che può andare dal bar sotto casa all’ufficio). Ma cosa significa “troppa politica”? Sarebbe come dire che in un tribunale si fa troppa giustizia, che in un museo c’è troppa arte, che in uno stadio si gioca troppo calcio ecc. Perché, vedete, la politica è il grande contenitore in cui siamo presenti tutti e grazie al quale possiamo avere dei tribunali, visitare un museo, andare allo stadio ecc.
“Che c’entra”?, mi chiedete? C’entra, perché noi siamo e viviamo  in quel grande contenitore che è la legge, l’organizzazione, l’insieme delle regole, il senso civico. Gli stessi che al mattino ci permettono perfino di leggere un giornale (magari senza buttare la carta per terra) e di entrare in un bar a bere un caffè… possibilmente augurando il buongiorno.

Terzo tormentone: “La politica è una cosa sporca”.
Il termine “cosa” (che  deriva dal tardo latino “causa” sostituendo quindi “res”, proprio invece del latino classico) è il più onnicomprensivo a cui si possa pensare, perché riferito praticamente a tutto ciò che esiste, concreto o astratto che sia. Anche la parola “politica”, però, non scherza quanto a genericità: oltre ad essere il grande contenitore di cui si parlava prima, associato a “cosa” finisce per abbracciare anche le persone che la praticano. A questo punto, però, saremmo costretti a concludere che tutti i politici del presente e del passato abbiano fatto una “cosa sporca”, per cui cadrebbero sotto questa mannaia tutte le persone che abbiamo qualificate come “grandi”: gli artefici del Risorgimento, tanto per fare un esempio, o i nostri padri costituzionalisti. Tutte persone “sporche”? Che non avevano niente da fare che darsi alla politica e che magari in queste loro “malefatte” hanno finito col perdere anche la vita?
Oppure ci resta un’alternativa: forse è arrivato il momento di prendere atto delle distorsioni del nostro linguaggio e del pericoloso qualunquismo dei nostri luoghi comuni.
Stiamo attenti all’uso che facciamo delle parole, altrimenti un giorno o l’altro la nostra ghigliottina linguistica ci priverà di tutti quegli uomini e quelle donne che ci hanno permesso di vivere in uno Stato democratico e di poter liberamente esprimere le nostre idee.

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