“Se noi siamo il futuro e stiamo morendo, allora non c’è futuro”
[Mary Phiri, Zambia]
Non passa giorno in cui qualcuno di noi non si lamenti perché “ciò che stiamo vivendo è una guerra, anzi, è peggio di una guerra”.
Ma nessuno di noi sa cosa sia veramente una guerra, se non per averlo letto sui libri, o per averlo ascoltato dagli ormai pochi superstiti che possono raccontarlo, unici preziosi testimoni di un passato che sta scomparendo.
Poi però ci sono quelli che la guerra la stanno vivendo sulla loro pelle e sono soprattutto bambini, senza presente e probabilmente senza un domani.
“I miei genitori, cinque fratelli e sorelle furono uccisi e i loro corpi furono divorati dai cani. Due sorelle sopravvissero nascondendosi sotto i loro cadaveri. Io venni violentata e ne nacque un bambino. Ora devo curarmi di lui, di due sorelle minori e di un fratello.”
[Un bambino del Ruanda]
“Avevo 12 anni quando sono stato reclutato dai gruppi armati in Sudan. Ero nel campo a piantare le patate, quando all’improvviso sono arrivati i militari. Mi hanno portato in prigione e mi hanno lasciato lì dentro per un mese. Mi hanno detto che mi avrebbero rilasciato solo se mi fossi arruolato. Dopo due anni sono riuscito a scappare. Uno dei soldati con cui combattevo era originario della mia tribù e mi ha aiutato a fuggire, sono salito su un veicolo e ho raggiunto il campo rifugiati qui in Uganda. Non so cosa farò in futuro, Intanto vorrei riprendere ad andare a scuola”.
[Un bambino-soldato ugandese di 14 anni]
“Mi addestrarono. Mi dettero un fucile. Mi drogai. Uccisi dei civili. Tanti. Era solo guerra quella che facevo allora. Obbedivo solo a degli ordini. Sapevo che era male. Non era ciò che volevo fare”.
[Un bambino-soldato in Sierra Leone]
“Da sei anni la mia scuola è un vagone ferroviario. È difficile imparare. In estate è impossibile rimanere freschi e in inverno è impossibile riscaldarsi. Durante l’inverno indosso tutti i miei vestiti: due paia di pantaloni, una camicia, una giacca e un cappello. Dopo una o due lezioni al gelo gli insegnanti generalmente ci lasciano andare via”.
[Uno studente diciassettenne in Azerbaijan]
“La vita è: un’aula di scuola con compagni amici e sorridenti. Il sole. Una strada senza mitragliatrici e un campo senza mine. Quiete. Una casa con una madre e un padre e fratelli e sorelle”
[Una bambina afghana]
“Mio papà e mio fratello sono morti subito. Io e mio fratello Rumi eravamo sotto le macerie. Lui era ferito a un occhio e piangeva. Rimanemmo lì tanto tempo, pensavamo che non ci avrebbero più salvati. Quando ci tirarono fuori eravamo soli. Mia mamma era stata portata in ospedale, in Libano. Pensava fossimo tutti morti. Quando seppe che io e mio fratello eravamo ancora vivi tornò a prenderci. Il viaggio è stato lungo e faticoso. Ora è in ospedale. Le hanno tolto un rene ma è viva. Siamo ancora insieme”.
[Liliane, una bambina siriana di 10 anni]
“Viviamo in una gabbia di metallo in 20. Ci sono adolescenti e neonati. Ognuno ha una piccola coperta ma non basta per riscaldarsi. Ho fame (…). A volte mi sveglio nel bel mezzo della notte affamato ma non c’è abbastanza cibo qui“.
[Testimonianza di un bambino trattenuto in un centro di polizia doganale degli Usa]
“Aveva 50 anni, una ex moglie e altri figli. Io ho detto di no, mi sono arrabbiata e mia mamma ha capito. La partenza è stata improvvisa, ho ricevuto una chiamata un pomeriggio che mi diceva di andare a Benin City e da lì siamo partiti. La persona che mi aveva comprata in Benin era d’accordo con un libico che mi ha portato nel ghetto di Saba dove sono rimasta sei mesi perché non avevo mai abbastanza soldi per andare via. Nel ghetto ognuno pensa a sé stesso e fuori è ancora più pericoloso. Io una volta sono uscita per prendere dell’acqua, ero con un’altra ragazza, gli Asma boys ci hanno rapito, ci hanno portato in un edificio abbandonato e hanno fatto quello che volevano.”
[Louise, adolescente nigeriana]
“Non ho potuto studiare perché era troppo pericoloso, per farlo sono stato costretto a lasciare il mio paese”. (…) Penso che giorno dopo giorno gli altri ragazzi abbiano perso la testa. Per questo, a volte, si feriscono con tagli sulle braccia. Io non voglio arrivare a questo”.
[Murtaza, sedicenne afghano nel campo di Moria, Lesbo]
“Abbiamo lasciato la nostra casa per sfuggire agli attacchi, siamo partiti in macchina e siamo venuti qui. Non siamo riusciti a trovare un posto dove stabilirci. Siamo stati prima in una moschea, poi ci hanno portato qui. Tutti i miei amici se ne sono andati e non è rimasto nessuno nella mia città. Hanno ucciso tutti lì”
[Othman, 9 anni, in fuga da Idlib, Siria, ora in un campo profughi]
“Gli attacchi sono stati molto violenti. Siamo fuggiti senza poter portare niente con noi, se non materassi, coperte e alcuni vestiti. Quando ho perso il braccio, mi sentivo come se fossi morto. Ora, con mio fratello, trasporto mattoni con un solo braccio pur di aiutare economicamente la mia famiglia”
[Fadi, 15 anni, in fuga da Idlib, Siria, ora in un campo profughi]
“Il mondo è una grande scatola. Il potente la apre e la chiude quando vuole.
Dentro ci sono tantissime cose: le terre, il mare, il sole, le stelle, la pace, la guerra, gli uomini…
Il potente quando ne ha voglia, apre la scatola, prende questi elementi e gioca con loro.
Quando è stanco, rimette tutto a posto e chiude la scatola”.
[III media, Scuola “Lilli” di Perugia]