Riflessioni

Perché a Roma si dice così?

05.05.2020

Il proverbio è un avanzo dell’antica filosofia, conservatosi fra molte rovine per la sua brevità ed opportunità.”                                                                                                                                              L’affermazione risalirebbe ad Aristotele, almeno stando a quanto ci assicura Sinesio di Cirene, un filosofo vissuto nel IV secolo d. C., il quale sostiene di averla letta in uno scritto aristotelico ormai perduto.
Che sia vero o no, resta il fatto che nessuno è mai riuscito a sottrarsi alla magia di proverbi e modi di dire: sarà perché parlano “di pancia”, come sosteneva Gorkij (“I proverbi sono la maniera di pensare dello stomaco; con i proverbi lo stomaco fabbrica delle briglie per l’anima, per poterla governare più facilmente”: Maksim Gorkij, “La madre”); sarà per il loro carattere “democratico”, evidenziato da Erasmo da Rotterdam: “Due cose si richiedono principalmente per formare un proverbio: che sia riconosciuto da ogni classe come proprietà comune; che si presenti come una forma particolare in modo da distinguersi dal parlare comune” (Erasmo da Rotterdam, “Elogio della follia”).                                      E direi che quest’ultima caratteristica sia altrettanto importante, per evitare che scada nella banalità. Democratici lo sono anche nelle origini, proverbi e motti: dagli oracoli ai filosofi, dai poeti agli storici, dalle antiche tradizioni alle usanze popolari perdute, c’è di tutto un po’.

Ma perché si dice così?

“A ciccio de sellero” (al punto giusto, al momento opportuno).

Il “sellero”è il sedano, una pianta sicuramente nota fin dall’antichità, tanto che Ippocrate la considerava un ottimo rimedio per i nervi e nella Roma antica era uno degli ingredienti principali del “moretum”, una focaccia a base di formaggio fresco, erbe, olio d’oliva, aceto (pressoché immancabile, nella cucina romana!) e a volte anche noci (se poi ne volete la ricetta, la potrete trovare nel “De Re Rustica” di Columella, L. XII; oppure nell’”Appendix Vergiliana” e più precisamente nel “Moretum”, un poemetto in esametri in cui si parla di un contadino che, prima di recarsi nei campi, si preparava la colazione). Il “moretum” veniva offerto nelle “invitationes” che, la sera, chiudevano i “Megalesia”, ossia i festeggiamenti che, dal 4 al 10 aprile, venivano tributati in onore della Grande Madre Cibele, dea della natura e delle messi.
Ma torniamo al nostro “ciccio de sellero”, che anche nel Medioevo continuò ad essere apprezzato per le sue virtù terapeutiche, tanto che Santa Ildegarda di Bingen, talentuosa personalità di teologa, naturalista, guaritrice, musicista, poetessa (e chi più ne ha, più ne metta) consigliava, per combattere la “tetraggine” (ossia la depressione), di triturarne i semi e di mescolarli con la noce moscata. Sembra, però, che il sedano possedesse anche proprietà afrodisiache, tanto che Michele Savonarola metteva in guardia le donne dal consumo di questa pianta, se volevano restare caste.
Nel Cinquecento, poi, il cardinale Luigi Cornaro cominciò a coltivarlo nel giardino del suo palazzo, nei pressi della fontana di Trevi, diffondendo così l’usanza di piantarlo nei giardini e negli orti della città, dove il sedano diventò di casa.

Quelo che mme và a cciccio lo sò bbene,
vôjo campà ccosì, sereno e in pace,
magara usà pe’ ccucinà la bbrace,
èsse contento de quelo che vviene,

senza cercà chissà che mmarchingegno.
Sai che mme frega de lascià ‘r mio segno
pe’ le generazzioni che vveranno,
si la tranquillità subbisce danno.

Pe’ ccampà bbene, ‘n serve la moneta,
nimmanco devi fà ‘r conquistatore,
er musicista, oppuro fà ‘r poveta,

o t’addannà, p’avecce dei rimpianti.
T’abbasta avecce solo ‘n po’ dd’amore,
pe ‘rigalallo a chi tte vive accanto.
(Valerio Sampieri, “Sonetti”)

“Arzà er gommito” (alzare il gomito, ossia ubriacarsi)

Secondo alcune teorie, deriverebbe dalla consuetudine romana di mangiare stando sdraiati sul triclinio, sul quale veniva appoggiato il gomito sinistro, che sorreggeva la testa, mentre l’altra mano portava il cibo alla bocca: in tal modo entrambi i gomiti erano rivolti verso terra. Quando però, con l’aumentare delle libagioni, l’atmosfera si surriscaldava, i commensali cominciavano a gesticolare, il gomito destro si alzava e, alla fine, si sollevava pure il sinistro di rinforzo, segno evidente che il vino… aveva prodotto il suo effetto.

Impium
lenite clamorem, sodales,
et cubito remanete presso

La raccomandazione è del poeta Orazio (“Odi”, XXVII, versi 5-8). In traduzione un po’ libera, significa: “non alzate la voce, amici, e evitate di fare troppo chiasso!

“Auffa”!

Ma chi non la conosce, questa espressione? Che, però, ha due significati diversi: da un lato, è un’esclamazione di impazienza, dall’altro significa “gratis”. In realtà, in origine “auffa” era ciò che oggi si definirebbe un acronimo: “Ad Usum Fabricae Apostolicae” (il raddoppiamento della “effe” essendo un tratto tipico del dialetto romano). In sostanza si trovava in regime di “aufa” chi forniva il materiale da costruzione destinato alla basilica e, pertanto, non era costretto a pagare la tassa daziaria.
Nun se frega er santaro”! (Insomma: se ci sono cascato una volta, puoi star certo che non ci casco più!)
E qui entra in gioco il nostro “aufa”, perché si racconta che, molto tempo fa, un povero diavolo sbarcasse il lunario andando in giro a vendere immagini sacre e, arrivando davanti alle chiese, urlasse: “Un baiocco cinque santi, er papa auffa!” Il che significava che le immaginette che riproducevano i santi costavano cinque baiocchi, mentre quella del papa veniva fornita gratis. Per un po’, tutto filò liscio, finché un giorno gli sbirri lo presero e lo sbatterono in galera: il papa non si tocca! Tornato in libertà, il poveretto tornò a fare il “santaro”, ma con una variante: questa volta si limitava a strillare: “Un baiocco cinque santi!” Un giorno, un tizio (in odore di spia) gli chiese: “E ‘er papa auffa’?” Ma il venditore, che scemo non era, gli rispose: “Nun se frega er santaro! Un baiocco cinque santi!

“Quanno ce vò, ce vò”, nonché “Mannaggia li pescetti”.

Si dice che un cardinale avesse un servo che aveva la brutta abitudine di bestemmiare come un turco e, per quanto continuamente richiamato all’ordine dal suo padrone, proprio non riusciva, zuccone com’era, a trattenersi. Un giorno il cardinale, più spazientito che mai, gli suggerì di imprecare contro qualcosa che non fosse sacro, per esempio, i pescetti. Il servo ci pensò sopra e alla fine decise di accettare il suo consiglio. Il rimedio funzionò: quel “mannaggia li pescetti”, a quanto pare, gli permetteva di sfogare la sua rabbia senza bestemmiare e senza incorrere nelle ire del cardinale. Un brutto giorno, però, spolverando i mobili, il servo mandò in mille pezzi un preziosissimo servizio di porcellana. L’incidente gli strappò una giaculatoria di quei “pescetti”, ma questa volta fu il cardinale a perdere le staffe: “Mannaggia li pescetti un caxxo!” E giù bestemmie a non finire, tanto che questa volta toccò proprio al servitore richiamarlo all’ordine: “Eminenza, nu’ sta bene a dì certe cose! Me fa spece! Nun v’aricordate che me l’avete imparato voi?” E il cardinale, sempre più furibondo: “Nu’ sta bene un caxxo, ma quanno ce vò, ce vò!

Pijà a schiaffi la moje è da villano:
è ‘na vijaccheria che fa vergogna!
Ma se vedi la mia, quant’è carogna!
Credi che te li leva da le mano.
Nemmanco a fallo apposta, cerca rogna
propio ne li momenti che sto strano…
E allora je l’appiccico: ma piano
e mai de più de quello ch’abbisogna.
È un vizziaccio, capisco: tant’è vero
che me ne pento prima de fa’ l’atto,
ma l’azzione è più sverta der pensiero!
Vôr di’ che doppo, pe’ riavé la stima,
je chiedo tante scuse e, appena ho fatto,
ritorno gentilomo come prima.
(Trilussa, “Quanno ce vò, ce vò”)

“Restà come don Farcuccio”

Secondo Ettore Veo, un giornalista che la sapeva lunga sulle tradizioni romane, questo don Falcuccio, vissuto nell’Ottocento, sarebbe stato un buon diavolo, tranquillo e pacioso, fino al giorno in cui, per ragioni non precisate, uscì di testa diventando una specie di rodomonte. Da quel momento in poi, non ci fu più avventura rocambolesca che non lo avesse come protagonista: scalò il Colosseo, fermò un cavallo in corsa, si buttò giù dalla cordonata del Campidoglio con una pertica. Non contento di queste imprese, un giorno si vantò che perfino volare con un pallone aerostatico per lui sarebbe stata una bazzecola e, trascinato dalla foga, scommise con gli amici che avrebbe accompagnato François Arban nell’impresa di lanciarsi in pallone dal Pincio. Ma “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”: arrivato il momento di salire a bordo, don Falcuccio, che aveva perso tutta la sua baldanza, tremava come una foglia. Ormai, però, non poteva più tirarsi indietro: Arban era già pronto al suo posto, don Falcuccio alzò una gamba per entrare nella navicella e…trac! Si sentì uno strappo violento: la corda che tratteneva il pallone a terra era stata strappata e il poveraccio si trovò con un piede rivolto al cielo e l’altro che salutava la terra…Appunto: “Restà come don Farcuccio”.

“Troppa grazzia Sant’Antonio!” (con la variante: “Credevo che piovesse, ma no che diluviasse”)

Di questa esclamazione esistono in realtà spiegazioni diverse, vuoi perché è presente in molte regioni d’Italia, vuoi perché Sant’ Antonio viene comunemente definito “il santo dei miracoli”. C’è quindi chi la spiega con la storia del contadino (o del mercante, a seconda delle varianti regionali) che riuscì finalmente a comprarsi un asino (oppure un cavallo), ma, non riuscendo a salire in groppa a causa della sua bassa statura, invocato Sant’Antonio, spiccò un gran balzo, volò sopra l’animale e franò rovinosamente a terra dall’altra parte.
C’è chi, invece, la riconduce ai due coniugi che, non riuscendo ad avere figli, si raccomandarono al Santo che, sollecitato in quel modo, ne avrebbe mandati tre tutti insieme.
Né manca chi racconta che Sant’Antonio venisse invocato soprattutto nei periodi di siccità, per ottenere che la pioggia tornasse ad irrorare i campi; solo che qualche volta, evidentemente, esagerava!
Di questa esclamazione esiste però anche una variante “più colta”, riportata da Antonio Sicari ne “Il grande libro dei ritratti dei santi”: nel 1232 papa Gregorio IX lo proclamò santo a un anno dalla sua morte, snocciolando una serie infinita di miracoli presentati per ottenerne la canonizzazione e peraltro ben documentati dalle due prestigiose commissioni appositamente nominate. E sembra che qualcuno dei presenti, gente del popolo e alti prelati, ascoltandone “commossi e un po’ divertiti” il lunghissimo elenco, abbia esclamato: “Troppa grazia Sant’Antonio!

Maddalena Vaiani
Foto di Sonia Simbolo

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