Riflessioni

Le madri della nostra Costituzione

19.05.2020

Le schede che ci arrivano a casa e ci invitano a compiere il nostro dovere hanno un’autorità silenziosa e perentoria. Le rigiriamo tra le mani e ci sembrano più preziose della tessera del pane. Stringiamo le schede come biglietti d’amore.

Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio di donne timorose di stancarsi nelle lunghe file davanti ai seggi. E molte tasche gonfie per il pacchetto della colazione.

Le conversazioni che nascono tra uomo e donna hanno un tono diverso, alla pari”. (Anna Garofalo)

Arrivano ai seggi con il vestito buono della festa, con i bambini in braccio, con il fazzoletto sui capelli. Un’emozione che percorre donne di ogni strato sociale.” (Graziella Falcone)

Avevo il cuore in gola e avevo paura di sbagliarmi fra il segno della Repubblica e quello della Monarchia. Forse solo le donne possono capirmi e gli analfabeti…quando i sentimenti neri mi opprimono penso a quel giorno e spero“. (Anna Banti)

 

E’ il 2 giugno del 1946: si svolgono, in contemporanea, il referendum istituzionale per la scelta tra monarchia e repubblica e le elezioni per l’Assemblea Costituente. E questa volta a votare sono anche le donne. Ce ne sono volute tante di battaglie, ma alla fine ce l’hanno fatta: ora hanno finalmente il diritto di eleggere e di essere elette.

E’ una fiumana quella che si presenta alle urne: oltre dodici milioni di donne, quasi un milione in più degli uomini.

 

E’ il 25 giugno: l’Assemblea neo-eletta si riunisce nel palazzo Montecitorio. 556 deputati. Tra loro, 21 donne.

 

Ventuno, sono soltanto ventuno. Ma è una svolta storica.

21 donne. Poche, pochissime, una cifra ridicola, ma strappata coi denti, con dignità, con fierezza, combattendo contro la dittatura al fianco degli uomini, lottando contro l’imperante mentalità patriarcale che le considera troppo “emotive” per essere in grado di gestire affari di Stato.

Misconosciute, nella lotta e in politica. Destinate in molti casi a rimanere tali.

 

Ma la nostra Costituzione, non dimentichiamolo, ha avuto anche ventuno madri.

 

Teresa Mattei. Noi salutiamo quindi con speranza e con fiducia la figura di donna che nasce dalla solenne carta costituzionale nazionale. Nasce e viene finalmente riconosciuta nella sua nuova dignità, nella conquistata pienezza dei suoi diritti, questa figura di donna italiana finalmente cittadina della nostra Repubblica. Ancora poche Costituzioni nel mondo riconoscono così esplicitamente alla donna la raggiunta affermazione dei suoi pieni diritti. Le donne italiane lo sanno e sono fiere di questo passo sulla via dell’emancipazione e insieme dell’intero progresso civile e sociale. E’, questa conquista, il risultato di una lunga e faticosa lotta di interi decenni. […] In una società che da lungo tempo ormai ha imposto alla donna la parità dei doveri, che non le ha risparmiato nessuna durezza nella lotta per il pane, nella lotta per la vita e per il lavoro, in una società che ha fatto conoscere alla donna tutti quei pesi di responsabilità e di sofferenza prima riservati normalmente solo agli uomini, che non ha risparmiato alla donna nemmeno l’atroce prova della guerra guerreggiata nella sua casa, contro i suoi stessi piccoli e l’ha spinta a partecipare non più inerme alla lotta, salutiamo finalmente come un riconoscimento meritato e giusto l’affermazione della completa parità dei nostri diritti. […] La nostra esigenza di entrare nella vita nazionale, di entrare in ogni campo di attività che sia fattivo di bene per il nostro paese, non è l’esigenza di affermare la nostra personalità e qui contrapponendola alla personalità maschile. […] Noi non vogliamo che le nostre donne si mascolinizzino, non vogliamo che le donne italiane aspirino ad una assurda identità con l’uomo; vogliamo semplicemente che esse abbiano la possibilità di espandere le proprie forze, tutte le loro energie, tutta la loro volontà di bene nella ricostruzione democratica del nostro Paese. Perciò riteniamo che il concetto informatore della lotta che abbiamo condotta debba stare alla base della nostra nuova Costituzione, rafforzarla, darle un orientamento sempre più sicuro. E’ nostro convincimento che nessun sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile. (Dai Discorsi alla Costituente)

Teresa ha soltanto 25 anni quando viene eletta: è la più giovane delle costituenti. Ne aveva appena 16 quando era stata espulsa da tutte le scuole di Firenze per essersi rifiutata di presenziare alla lezione sulla superiorità della razza ariana: “Io esco, perché non posso assistere a queste vergogne!” Riuscirà ugualmente a studiare, ma da privatista, come le aveva suggerito di fare il suo professore, Piero Calamandrei.

Quanto alla sua seduta di laurea, è un piccolo romanzo: i tedeschi le stanno alle calcagna perché ha appena fatto saltare in aria un convoglio carico di esplosivo. Teresa si rifugia all’Università, dove Eugenio Garin, amico di famiglia e suo relatore, in fretta e furia mette insieme una commissione di laurea. Quando i tedeschi arrivano, Teresa sta tranquillamente discutendo la sua tesi in Filosofia. “Io non credo agli eroismi senza paura. Credo che l’unico eroismo sia di vincere la paura e di fare lo stesso quello che abbiamo deciso di fare”. (Da un’intervista del 1997 a Gianni Minà)

Poi, la Resistenza: il suo nome di battaglia è “Chicchi”. Comincia come semplice staffetta, nei Gap (Gruppi di Azione Patriottica) che operano tra Firenze e la capitale; arriverà alla fine della guerra con il grado di Comandante di Compagnia, lo stesso con cui parteciperà all’insurrezione di Firenze. “L’unica volta che ho messo il rossetto in vita mia è stato per mettere una bomba”: la bomba è quella vicino all’albergo “Arno”, da dove sarebbe uscito un ufficiale tedesco. “Noi cercavamo sempre di fare attentati senza vittime, ma una guerra è una cosa terribile. E’ per questo che mi occupo di pace”.

Del suo arresto, a Firenze, non riuscirà a parlare per moltissimi anni. Una pattuglia la sorprende mentre sta tentando di raggiungere Roma, accucciata dietro le casse di un camion in cui l’avevano nascosta due soldati austriaci incaricati di recapitare un messaggio nel campo di Kesserling. Portata al posto di polizia, viene seviziata per ore, violentata, un rene spaccato dal calcio di un fucile. Riesce rocambolescamente a fuggire arrampicandosi su per il muro di cinta e trova rifugio in un convento vicino, dove viene soccorsa da un’amica della madre. Poi sarà un carbonaio a portarla in salvo, nascondendola nel suo furgone.

Partecipa ai lavori della Costituente tra le file del Pci, dal quale peraltro verrà radiata nel 1955 per essersi opposta alla linea stalinista assunta dal gruppo dirigente. Segretaria dell’ufficio di Presidenza, farà parte del “Comitato dei 18” che, il 27 dicembre 1947, consegnerà al Capo dello Stato, Enrico De Nicola, il testo della Carta Costituzionale.

Nell’Aula, lavora soprattutto all’articolo 3, quello sull’uguaglianza dei cittadini, e non transige sul fatto che le donne possano e debbano accedere alle cariche pubbliche e alla magistratura: “Noi non possiamo ammettere che alle donne rimangano chiuse porte che sono invece aperte agli uomini. Sia tolto ogni senso di limitazione e sia anzi affermato, in forma esplicita e piena, il diritto alle donne ad accedere ad ogni grado della Magistratura come di ogni altra carriera”.

La sua convinzione, che spiegherà nel corso di un’intervista del 2006 a Giulia Pezzella, è che “Le donne hanno, rispetto agli uomini, un atteggiamento e un modo di agire differente. Hanno una mentalità che definirei ‘orizzontale’, guardano quello che le circonda e si rimboccano le maniche per fare. Gli uomini guardano al potere e questo li porta ad avere un atteggiamento verticistico. Le donne, invece, preferiscono la conoscenza, il sapere; non vogliono comandare, ma condividere le scelte e i progetti. Vogliono costruire un mondo migliore per i loro figli, per i futuri cittadini. Per questo dovrebbero essere di più in Parlamento. Per questo dovrebbero essere ascoltate maggiormente e con più attenzione”.

Sarà lei, insieme a Teresa Noce e a Rita Montagnana, a suggerire a Luigi Longo la mimosa come simbolo per la festa delle donne: “Scegliamo un fiore povero, facile da trovare nelle campagne”.

Altrettanto grande è l’amore che nutre per i bambini, promuovendo in tutto il mondo una serie di campagne per la non violenza. “Vorrei davvero che nessun ragazzo dovesse mai imbracciare delle armi, mettere delle bombe, fare dei piani di distruzione”. (Dall’intervista del ’97 a Gianni Minà)

E ai giovani lascia una raccomandazione: “Voi dovete essere meglio di noi, voi siete il futuro. Difendete la nostra costituzione, battetevi per un’Italia fondata sulla giustizia e sulla libertà” (Dal video-messaggio ai giovani di un circolo Arci).

 

Ottavia Penna Buscemi. Ottavia proviene da una nobile famiglia siciliana, è cattolica ed è di fede monarchica, ma è anche una donna capace di pensare con la sua testa.

E non ha paura di nessuno. Così, di notte, eccola aggirarsi furtiva nelle campagne e tagliare con un coltello i sacchi di grano che i nobili della zona tengono ben nascosti per poterli vendere al mercato nero, oppure eccola rubare la carne appena macellata dalle fattorie, anche da quelle di proprietà della sua stessa famiglia, per poi andare a distribuirla ai più bisognosi.

Ottavia è un’anticonformista e anche se ha ricevuto l’educazione di un’aristocratica e ne ha i modi, è una che rivendica l’emancipazione delle donne e la piena parità dei diritti con gli uomini, una che contesta duramente i poteri forti, quelli che non sanno farsi carico delle esigenze reali dei cittadini, soprattutto di quelli più in difficoltà. Forse per questo decide di entrare nelle file del”Fronte dell’Uomo Qualunque” (fondato da Guglielmo Giannini nel 1944), che in quel momento le appare il più vicino ai bisogni dell’uomo della strada e che rappresenterà all’interno della Costituente. E al termine dei lavori, proprio nel momento in cui l’Assemblea si accinge ad eleggere il primo Presidente della Repubblica italiana, l’attende un colpo di scena: Giannini candida proprio lei, Ottavia, presentandola come “Una donna colta, intelligente, una sposa, una madre”. Risulterà terza, con 32 voti: un incredibile record, se si pensa che ancora venticinque anni dopo, il voto dato ad una donna, Ines Boffardi, nell’elezione del Capo dello Stato, provocherà risate e battute beffarde, tanto da costringere Sandro Pertini ad esclamare: “C’è poco da ridere, onorevoli colleghi: anche una donna può diventare presidente!”

Intanto, però, l’adesione al movimento di Giannini le è costata un prezzo molto alto: emarginata dalle altre deputate, viene esclusa dai ricevimenti pubblici come “qualunquista”. Ma d’altronde anche lei è una persona schiva e riservata: anni dopo, Angela Gotelli l’avrebbe descritta come una “signora distinta con cui c’erano rapporti cortesi ma che non fece mai gruppo con noi” (Patrizia Gabrielli, “Il 1946, le donne, la politica”)

Giannini e il suo movimento si rivelano presto una delusione, che la spinge, alla fine dell’esperienza costituente, ad abbandonare sia il movimento dell’Uomo Qualunque che la politica. Lo fa con amarezza, più che altro perché disgustata dai compromessi e dalle regole spesso asfittiche dei partiti e soltanto nel 1953 si presenta alle elezioni amministrative di Caltagirone, la sua città natale, risultando eletta nelle fila del Partito Monarchico, al quale nel frattempo è tornata. Questo però sarà destinato a rimanere solo un breve capitolo nel “libro chiuso della politica”.

Preferisce piuttosto dedicare il suo tempo ed il suo impegno ai più bisognosi. Già nel 1948 Alcide De Gasperi l’aveva consultata a proposito dei provvedimenti da prendere per portare sollievo alla sua terra martoriata. E lei, di rimando, aveva sottolineato l’urgenza di un piano organico capace di “combattere l’ignoranza tremenda del nostro popolo”, di ricostruire le case, le strade, le scuole distrutte dalla guerra, di creare delle strutture per accogliere i bambini abbandonati, che sulla strada “apprendono la delinquenza, sin dalla tenera età”.

E’ lei stessa a passare all’azione, fondando nella sua Caltagirone “La città del ragazzo”, una comunità di assistenza al disagio giovanile.

Donne, da voi non poco la Patria aspetta […]. Alla già grande responsabilità della famiglia e dei figli si aggiunge oggi quella del voto per la costituente, responsabilità tanto più grande perché si tratta di rifare le leggi che dovranno governarci per anni e forse per secoli (…)» (Cettina Alario, “Ottavia Penna madre costituente. Storia di una singolare esperienza di vita”).

 

Leonilde Iotti. È un’insegnante, Nilde; suo padre, ferroviere e convinto socialista, ha fatto di tutto per convincerla a studiare, perché sa che soltanto la cultura e il sapere possono liberare dall’oppressione. E Nilde ce la mette tutta. Così, quando suo padre perde il lavoro a causa del suo impegno nel sindacato, lei, grazie ad una borsa di studio, riesce ad iscriversi all’Università Cattolica di Milano: “Meglio preta che fascista”, le ripeteva suo papà. Si laurea in Lettere e comincia ad insegnare in un istituto tecnico della sua città natale, Reggio Emilia.

Ma poi la “voce gracchiante di Ercoli (Palmito Togliatti)”, quella voce che invita alla riscossa, all’unità antifascista, la spinge verso la politica, verso il Pci, verso la Resistenza. Diventa staffetta partigiana: inforca la sua bicicletta e via, a portare volantini, viveri e medicine a chi ne ha bisogno. Intanto entra a far parte dei Gruppi di difesa della donna e poi dell’UDI (Unione Donne Italiane), che le affida un’indagine conoscitiva sulle condizioni delle famiglie più bisognose.

Nilde è sempre stata una tosta, a dispetto dell’aria curata ed elegante che la caratterizzerà negli anni di Presidenza della Camera. Crede fermamente nelle capacità e nella determinazione delle donne e proprio per questo non vuole sconti né aiuti paternalistici. Lo dimostra quando entra a far parte della “Commissione dei 75” (incaricata di predisporre la bozza della Carta Costituzionale) e, nel pieno della discussione su un passaggio dell’art. 106 relativo all’accesso in magistratura “anche delle donne”, tronca perentoriamente ogni discussione: “Se una donna ha la capacità di arrivarci, e sono convinta che ce l’abbia, essa deve poter conquistare, al pari dell’uomo, i più alti gradi della magistratura, senza alcun discrimine”.

La Costituente, per lei, sarà una grande scuola di politica: “L’Assemblea Costituente è stata il luogo in cui si sono incontrati momenti diversi della storia d’Italia: gli esponenti della vecchia classe liberale, coloro che da antifascisti avevano conosciuto l’esilio ed il carcere, quelli che avevano combattuto nelle file della Resistenza e che erano soprattutto giovani, come me, che trovarono in quella esperienza la più grande scuola politica a cui si potesse partecipare”. (Francesca Russo, “Nilde Iotti”)

In Aula continua a lavorare ai problemi che l’appassionano: il diritto di famiglia, la parità tra i sessi, il sostegno alla donna lavoratrice e madre, la pensione per le casalinghe, il divorzio, l’equiparazione giuridica dei figli nati nel matrimonio e di quelli nati al di fuori di esso, perché a tutti i bambini devono essere garantiti pari dignità e diritti.

Anche la sua, quella che Nilde aveva formato, è stata stigmatizzata come una “strana famiglia”, sempre, fin da quando aveva deciso di sfidare le convenzioni sociali di una società ancora più bacchettona di quella attuale mettendosi con un uomo più grande di lei di ben 27 anni, sposato con la collega Rita Montagnana e per giunta con un figlio. “Lui” è Palmiro Togliatti.  Quel primo incontro Nilde lo vive con “sgomento per questo immenso mistero d’amore che mi dà le vertigini”. Per lui non sarà da meno: “una vertigine davanti a un abisso” (Luisa Lama “Nilde Iotti. Una storia politica al femminile”). E una vertigine sarà, per entrambi: nessuno può accettare un amore “adultero” e per giunta tutti si chiedono cosa sia venuto in mente, a quei due, di adottare la sorella di un operaio rimasto ucciso a Modena durante uno sciopero.

Lui: “Quanto ho fatto verso di te e con te non è mai stata un’intenzione frivola […] Ho seguito un impulso più forte della mia volontà […] Mi pare che possiamo e dobbiamo solo andare avanti, come in certi passi difficili di montagna. Questa è la lettera più seria che ti ho scritto, cara, stracciala, bruciala, rendimela. Ma voglimi bene!

Lei: “Oggi ho avuto una discussione col segretario della nostra federazione. È stato quasi un processo e sono venuta via così profondamente umiliata […] Eppure oggi mi sento animata da uno spirito di ribellione. Mi sento di lottare con le unghie e con i denti per difendere un sentimento che è mio e solo mio.

I loro stessi compagni di partito storcono il naso. Pietro Secchia arriva a mettere in discussione l’affidabilità di quella donna, perché ha sempre studiato dai preti e Stalin sospetta che sia una spia del Vaticano.

La carriera politica di Nilde fu pesantemente condizionata dal legame con Palmiro Togliatti.  E anche la sua vita privata. Quando Togliatti, nel ’48, rimane vittima di un attentato, al primo sopraggiungere dei soccorsi viene ignorata. Quando Togliatti viene portato in ospedale, lei viene tenuta lontana perché non è sua moglie. Eppure, quando erano stati sparati quei colpi di pistola, era stata lei a gettarsi sul suo corpo cercando di proteggerlo, di fare da scudo.

Potrà andare a trovarlo soltanto quando sarà lui a mandarla a chiamare al suo capezzale e sarà riconosciuta come la sua compagna solo alla morte di lui, nel 1964.

In tutti questi anni Nilde è diventata un punto di riferimento costante nella vita politica italiana: è la prima donna a ricoprire la carica di Presidente della Commissione Affari Costituzionali nel 1976; la prima ad ottenere un mandato esplorativo, che le verrà affidato da Francesco Cossiga; la prima che, nel 1979, viene eletta Presidente della Camera.

E sceglierà una donna, la sua amica Tina Anselmi, per presiedere la Commissione che indaga sulla P2 di Licio Gelli.

Sarà sempre un Presidente super partes, che difenderà con tenacia le istituzioni democratiche contro la violenza, gli attentati, la corruzione dilagante.

Io stessa – non ve lo nascondo – vivo quasi in modo emblematico questo momento, avvertendo in esso un significato profondo, che supera la mia persona e investe milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci si sono aperte la strada verso la loro emancipazione. Essere stata una di loro e aver speso tanta parte del mio impegno di lavoro per il loro riscatto, per l’affermazione di una loro pari responsabilità sociale e umana, costituisce e costituirà sempre un motivo di orgoglio della mia vita.” (Dal “Discorso di insediamento alla Presidenza della Camera, VIII legislatura, 20 giugno 1979”)

 

Nadia Gallico Spano.  Era mia nonna. – scrive Vasco De Cet – E’ stata la mia “più giovane amica”, quella con la mente più aperta. E’ stata la mia maestra di vita e di politica, anche perché condiva la sua apertura mentale con un’esperienza unica ed irripetibile. […] Era curiosa, e mi ha insegnato anche questo. Era “un’inguaribile ottimista” come sceglie di scrivere nel sottotitolo della sua autobiografia. Se non lo fosse stata non avrebbe amato e sposato mio nonno nel 1939, nella Tunisia soggetta al regime collaborazionista di Vichy che li perseguitava entrambi per il loro impegno antifascista.” (Vasco De Cet, “Nadia Gallico Spano”)

Nadia era nata in Tunisia da una famiglia di emigrati. Diventata una militante del Partito comunista, insieme ai fratelli, partecipa alla Resistenza. Nella Francia collaborazionista di Pétain, lei e il marito Velio, ricercato in tutta Europa per il suo feroce antifascismo, arriveranno a collezionare tre condanne a morte, alle quali riusciranno fortunosamente a scampare fuggendo in Italia. Qui, come disse Carlo Azeglio Ciampi, Nadia diventa “protagonista e testimone del processo di rifondazione dello Stato e della nascita della Repubblica“.

Anche lei “madre della Costituente”, anche lei in prima linea nelle battaglie a favore delle donne: tra le fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane), del settimanale Noi Donne, membro attivo dell’ANPPIA (Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti), Presidente dell’”Unione Donne Sarde”. Perché della Sardegna Nadia aveva fatto la sua terra adottiva, lottando per liberarla dallo stato di arretratezza in cui versava.

Il voto alle donne in Italia da parte dei partiti fu un riconoscimento unanime in forza dei meriti acquisiti durante la guerra, cioè l’aver retto l’intelaiatura della società in anni in cui gli uomini erano assenti. Noi donne abbiamo accettato questa impostazione, anche se avremmo dovuto affermare invece il principio del diritto naturale. Tutta la propaganda elettorale per l’assemblea costituente e per il referendum si rivolgeva alle donne che dovevano votare per il prigioniero o per il bambino, per la saggezza amministrativa, cioè sempre per gli altri. Nessun richiamo, mai, era al diritto per sé. Per le donne andare a votare fu comunque importante anche se a sinistra si diceva ‘mia moglie vota come dico io’ e nelle parrocchie il prete ammoniva ‘Dio ti vede, tuo marito no’. Ma nella cabina elettorale le donne per la prima volta hanno scelto di dare la fiducia o magari anche da chi farsi influenzare, ma hanno scelto. Sono state libere” (Dall’intervista rilasciata al giornale “Noi donne”).

 

Angiola Minella.Lola” ha appena 12 anni quando suo padre viene ucciso sul pianerottolo di casa, in circostanze tutt’oggi poco chiare.

La sua è una famiglia dell’alta borghesia torinese, che, nonostante la morte prematura del padre, le permette comunque di studiare in un liceo prestigioso (“il mio compagno di banco si chiama Gianni Agnelli”, annota sul suo diario) e poi di frequentare l’Università, dove si iscrive alla facoltà di Lettere, ma in realtà unicamente per assecondare la madre, che vede nell’insegnamento un’attività decisamente più adatta ad una donna. Lei, invece, avrebbe volentieri optato per la medicina, una passione, questa, ereditata da suo nonno che era stato medico condotto.

La guerra la vede impegnata nella Croce Rossa, dopodiché, nel ’44, entra nella Resistenza. Inizialmente è solo una giovane staffetta, che contribuisce a mantenere i contatti tra i partigiani garibaldini che operano sulle montagne, con i Gap cittadini. Poi però, nel ’45, Lola entra nella SAP (Squadre di Azione Patriottica) “Antonio Gramsci“, brigata “Vincenzo Pes“: ormai è una comunista a tutti gli effetti e ha assunto come nome di battaglia “Zoo”. Partigiani come lei sono anche la sorella, “Esperia“, e “Vela”, il comandante partigiano Piero Molinari, quello che sarebbe diventato suo marito.

Nelle stanze del Parlamento comincia ben presto ad essere definita il “deputato delle donne”, un appellativo di cui va fiera e che sa di meritare, perché le donne e i bambini sono le cause alle quali si è sempre dedicata con passione: al suo attivo ha l’impegno a sostegno dell’emancipazione femminile e nell’organizzazione dell’UDI, così come nella battaglia parlamentare per il riconoscimento della previdenza sociale a favore delle ostetriche.

In un‘Italia crivellata dalla guerra, Lola contribuisce alla nascita della campagna “Salviamo l’infanzia”, il cui obiettivo è quello di mettere al sicuro i bambini trasferendoli dal Centro-Sud verso il Nord, nelle città meno colpite dai bombardamenti, presso famiglie in grado di accoglierli, ma che non avranno la possibilità di sceglierli, perché “nessun bambino doveva essere umiliato”.

L’iniziativa parte dal PCI e dall’UDI: tra il ’45 e il ’51 vengono approntati i cosiddetti “treni della felicità” che portano in salvo migliaia di ragazzini, i più bisognosi, i quali, prima della partenza, vengono sottoposti a rigorosi controlli medici per evitare contagi e rivestiti a nuovo…Ma poi verrà fuori che quei cappottini nuovi venivano lanciati, dai finestrini, ai familiari che li avevano accompagnati alla stazione, perché serviranno ai fratelli rimasti a casa. E si scoprirà più tardi che i bambini, prima di salire sui convogli, “non volevano dire il loro nome e cognome. Erano vittime di un racket che ‘affittava’ orfani di padre o illegittimi per utilizzarli come mendicanti o per piccoli traffici illeciti, dando una modesta “paga” alle madri”.

Prende vita così, come osserva Miriam Mafai, che partecipa attivamente all’operazione, “un entrare in contatto di mondi diversi: il mezzadro emiliano e il sottoproletario meridionale”.

Eravamo ai primi di ottobre del 1945. Alla sezione femminile venne a trovarci Daria Banfi per chiederci se era possibile che, attraverso il partito, venissero ospitati per l’inverno in Emilia, donde lei era originaria, sette o otto bambini orfani, del suo quartiere, in stato di estremo bisogno”. (Le citazioni sono tratte da “Cari bambini, vi aspettiamo con gioia… Il movimento di solidarietà popolare per la salvezza dell’infanzia negli anni del dopoguerra”, il libro nato da questa esperienza e che porta, insieme alla firma di Angiola Minella, quelle di Nadia Spano e di Ferdinando Terranova, edito da Teti nel 1980).

Serve però un’organizzazione capillare, praticamente perfetta, che comincia a darsi una struttura con il “gruppo della stufa rossa”, intorno alla quale Teresa Noce riunisce un piccolo drappello di donne, in una stanza senza mobili, praticamente vuota, se non fosse stato per quella grande stufa di cotto rossastro. Vengono coinvolte anche le donne degli altri partiti e si contattano parroci, sindaci, insegnanti, persino le dame di carità. Il primo treno della felicità parte da Roma Termini il 19 gennaio 1946, poi sarà la volta di 3500 ragazzini che provengono da Cassino e dalla Ciociaria; quindi toccherà ai figli dei minatori sardi in lotta per evitare la chiusura dei pozzi minerari. Serve però molto denaro per sostenere l’intera operazione e così Nadia Spano va al Quirinale da Einaudi a chiedere la somma necessaria.

Lola continuerà sempre ad occuparsi dei bambini. Nel ’62, sarà la prima firmataria di una proposta di legge che chiedeva l’istituzione del servizio nazionale dei nidi-asilo e la prevenzione igienico-sanitaria dei bambini fino a 3 anni.

Lola è convinta che in qualunque ambito della vita civile (maternità, infanzia, disoccupazione, pace, istruzione, ambiente e sicurezza sul lavoro) sia indispensabile superare la logica della beneficenza e della generica solidarietà: “La Costituzione sostituisce in modo definitivo ogni residuo concetto dell’assistenza come fatto caritativo, limitato all’ambito dei più poveri, con il moderno concetto dell’assistenza come servizio sociale dello Stato, fondato sul riconoscimento del diritto del cittadino al mantenimento e ad una serie di prestazioni che la società deve fornirgli quando si trovi in determinate condizioni, quali l’indigenza, la malattia, la vecchiaia, la maternità, l’infanzia. […]Ma, soprattutto, una vera riforma dell’assistenza non può – a nostro avviso – non basarsi, come punto essenziale di partenza, se non su di un metodo nuovo di definizione e di accertamento del bisogno, metodo realistico di ricerca e di valutazione che metta al centro di tutto il sistema l’assistito, con le sue sofferenze, le sue necessità, la sua reale condizione umana, la sua dignità personale, proporzionando gli aiuti all’entità reale dei bisogni, cosicché l’assistenza possa essere liberata da tutto quello che di arbitrario, di discriminatorio, di umiliante, di fiscale persino, la caratterizza ancora oggi, per trasformarsi in un effettivo pieno diritto umano e sociale.” (Dall’intervento tenuto durante la seduta del 25 Maggio 1958 alla Camera dei Deputati)

Il carattere battagliero non le manca: così un giorno, indignata dalle continue cariche della polizia contro i lavoratori romani in sciopero, entra nell’Aula di Montecitorio puntando l’indice contro Andreotti, allora sottosegretario alla Presidenza, per chiedergli perentoriamente di mettere fine a questi episodi di violenza (Da un articolo di Mario Pallavicini su “L’Unità” del 9 aprile 1948,).

Per lei l’esperienza della Costituente ha significato soltanto un trampolino di lancio; per il resto Lola è stata, come si suol dire, un “parlamentare di lungo corso”, più volte eletta sia alla Camera dei Deputati che al Senato. Probabilmente a favorirla è anche il prestigio acquisito sul piano internazionale, negli anni fra il 1953 e il 1957, quando viene inviata a rappresentare l’Italia nella Federazione democratica internazionale delle donne (Fdif), che ha sede a Berlino Est, organizzazione di cui diventa segretaria generale nel 1955.

 

Rita Montagnana. La “sartina”, non perché questo fosse il suo nome di battaglia. Rita era davvero una sarta. Era nata a Mondovì, da una famiglia di origine ebraica e di fede socialista; a soli 13 anni aveva cominciato a lavorare in fabbrica e a lottare per i diritti del lavoratori, partecipando agli scioperi delle sarte torinesi ed iscrivendosi alla Camera del Lavoro ed al Partito Socialista.

Nel 1921 contribuisce alla nascita del Partito Comunista, che la invia a Mosca come delegata al Komintern. Al suo rientro in Italia, viene chiamata a Roma, alla Direzione del partito, che le affida il bisettimanale “Compagna”.

In un PCI falcidiato da un’ondata di arresti e di condanne, Rita comincia a svolgere un importante lavoro di collegamento. E’ ormai entrata in clandestinità, per cui ha dovuto cambiare nome assumendo quello di Marisa ed è diventata un “fenicottero”, come vengono chiamate le militanti comuniste che trasportano materiale sovversivo.

Tre anni dopo sposa Palmiro Togliatti, che seguirà in un lungo esilio tra Svizzera, Francia e Unione Sovietica.

Poi è la volta della guerra civile spagnola, delle trasmissioni da Radio Mosca rivolte alle donne, di quelle da Radio Milano Libertà, in nome dell’unità antifascista.

Rientrata in Italia nel ’44, ottiene l’incarico di dirigere la commissione centrale femminile del Partito comunista, ma il suo vero, grande obiettivo è quello di dar vita ad un’organizzazione femminile unitaria: nasce così l’UDI, di cui è una delle fondatrici e di cui diventa presidente.

Quando approda alla Costituente, Rita ha quasi cinquant’anni e ha ormai alle spalle un curriculum politico di tutto rispetto, senza contare il prestigio accumulato durante gli anni delle lotte politiche e sindacali, della clandestinità, del lungo esilio in Urss al fianco di Togliatti.

Entra a Montecitorio, dirà la sua collega Bianca Bianchi “con disinvoltura come se si aggirasse nel salotto buono di casa sua”.

Più che mai adesso, Rita è convinta che il contributo offerto dalle donne alla guerra e alla Resistenza renda “ineluttabile” la loro emancipazione e la conquista del voto: “Le donne si presentano oggi davanti al Paese sotto un aspetto nuovo, non più come mute spettatrici degli avvenimenti, ma come collaboratrici sicure, intelligenti, preziose”.

E quando il suffragio universale diventa un dato di fatto, eccola pronta a rivendicare entusiasticamente altre e maggiori conquiste: “Largo dunque fin da oggi alle donne nei posti di Governo, largo alle donne nell’Assemblea Costituente, largo alle donne nelle Amministrazioni comunali; giusta retribuzione del lavoro femminile; tutte le vie del lavoro e del sapere aperte alle giovani”.

Anche per questo l’esito della campagna elettorale del 1948 è, ai suoi occhi, deludente quanto pericoloso: quella sotto-rappresentazione delle donne è un grave un errore, che lancia all’elettorato un messaggio distorto e che pesa anche sul Partito: “Vi è stato anche da parte dei compagni dirigenti, salvo eccezioni, una enorme incomprensione verso il lavoro femminileSi sono tagliate le ali, si sono demoralizzate, umiliate anche le compagne migliori, più qualificate, con un ottimo passato di partito” (Dalla lettera inviata da Rita Montagnana alla segreteria del Partito, marzo 1951).

Rita, però, si vedrà presto costretta ad abbandonare le sue battaglie: dopo la non facile separazione da Togliatti, si ritira dalla vita politica per potersi dedicare al figlio Aldo, affetto da una grave malattia nervosa.

 

Adele Bei. E’ una casalinga quando improvvisamente decide di entrare nel Partito Comunista. Vai a capire perché. Sarà stato per quella disperata voglia di cambiamento, di libertà, che ha respirato nella sua numerosa famiglia; sarà per la passione politica che è nel suo DNA; sarà stato l’incontro con il “suo” Domenico Ciufoli, che quel Partito aveva contribuito a fondarlo insieme a Gramsci, Bordiga e Terracini. Con lui, che intanto è diventato suo marito, si dedica all’attività clandestina in Francia, in Belgio, in Lussemburgo.

Ha 29 anni quando viene arrestata perché “socialmente pericolosissima“; ma non cede, non ci pensa proprio a denunciare i suoi compagni, anche se i giudici fascisti cercano subdolamente di far leva sul suo dolore e sulla preoccupazione per i figli rimasti in Francia. “Non pensate alla mia famiglia, qualcuno provvederà; pensate invece ai milioni di bambini che, per colpa vostra stanno soffrendo la fame in Italia”. Viene condannata a 18 anni. Ne sconterà dieci di galera, più due di confino a Ventotene.

Una volta uscita dal carcere, riprende la sua attività nella Resistenza, come se non fosse successo niente e, dopo la liberazione di Roma, decide di andare a piedi fino al rifugio dei combattenti del monte Tancia: “Sono venuta soltanto per vedere se state bene. Non eravamo tranquille, noi donne di Roma. Sono qui per assicurarmi che nulla vi manca quassù del necessario“.

E poi…poi partecipa all’organizzazione delle donne romane, alla nascita dei Gruppi di difesa della donna e poi ancora, prende parte all’occupazione delle terre in Lucania e Calabria e diventa responsabile della Commissione femminile nazionale della CGIL. Infaticabile, indomita.

Finalmente, la Costituente, dove si batte per l’approvazione degli articoli che puntano sulla parità di diritti, sulla tutela della donna e del bambino, così come più tardi, da parlamentare, dedicherà tutta se stessa al miglioramento del lavoro in fabbrica, soprattutto di quello delle lavoratrici del tabacco, di cui denuncia le condizioni bestiali, i salari da fame, lo “schiavistico sfruttamento padronale”.

Dove è possibile entrare nelle fabbriche si entra, dove non è possibile si tenta diversamente. In tutti gli stabilimenti esistono vecchie dirigenti sindacali iscritte ai partiti di sinistra. Uno dei compiti è proprio quello di ricercare queste donne, avvicinarle al di fuori delle fabbriche dove esse lavorano, istruirle e creare l’organizzazione dentro la fabbrica (…). Il lavoro sarà certamente più difficile ma darà buoni risultati“.

Proseguirà la sua attività politica all’interno della Camera dei deputati, sempre nelle liste del PCI e in rappresentanza della sua regione: le Marche.

 

Angelina Livia Merlin. “…Le generazioni non sono peggiori, sono sempre uguali, gli uomini non cambiano, sono sempre uguali. E i giovani li ho sempre amati, non dimentichi che sono stata un’insegnante assai coscienziosa. Ho cercato di essere materna con loro, buona con loro, il fatto è che la loro cattiveria non è diretta verso i vecchi ma soprattutto verso se stessi: non comprendono, i pazzi, che la politica non è un mestiere, è una missione.” (Dall’intervista a “L’Europeo: settimanale politico di attualità”, 28 luglio 1963).

E lei, “Lina”, alla politica arriva presto, seguendo il filo conduttore dei valori trasmessi dalla sua famiglia. Nel 1919 si iscrive al Psi, vuoi per quel forte senso di giustizia che si porta dentro, vuoi perché è una “pacefondaia”, come la chiamano scherzosamente in famiglia per il suo intransigente antimilitarismo. Comincia quindi a collaborare al periodico “La difesa delle lavoratrici”, di cui in seguito sarebbe diventata direttrice, e al settimanale socialista padovano “L’Eco dei lavoratori”.

Immagini, tante tantissime immagini di una vita trascorsa all’insegna di moltissime battaglie: l’espulsione dall’insegnamento per aver rifiutato il giuramento al duce, gli arresti, i cinque anni di confino scontati in Sardegna (a Nuoro, a Dorgali e a Orune, senza neppure la misera “indennità” prevista per i confinati), il dossier sulle violenze compiute dagli squadristi, che Giacomo Matteotti userà per il suo atto di accusa contro il fascismo ormai al potere.

Lina in un Polesine sconvolto dall’alluvione, Lina immersa nel fango, con gli stivaloni ai piedi, che parla con la gente, che cerca di rincuorarla. Siamo già nel 1951. E di lotte e di obiettivi, Lina ne ha già messi a segno tanti: il divieto di licenziamento per le donne sposate, la cancellazione della sigla N.N. (“Nomen Nescio”, nome sconosciuto) dai documenti d’identità, o di quella riga lasciata in bianco, che poi vuol dire la stessa cosa: bastardo; il trasferimento delle carcerate negli ospedali per il parto, l’inizio della pena solo dopo che i loro figli hanno compiuti i due anni, l’assistenza sanitaria per le partorienti bisognose, la funzione di giudice popolare anche per le donne.

Io sono una donna, venuta alle cure politiche più che per altro con la pretesa forse ingenua, ma sincera di lenire le angosce umane rese più aspre dalla guerra e ho percorso il cammino segnato da un partito che tra le pagine della sua storia di lotte e dolori, ne ha una gloriosa quella di aver strappato la maschera idealistica alla prima guerra mondiale e di averne denunciato il carattere imperialistico. Le donne che nel passato avevano potuto elevare la loro protesta solo con il pianto e le imprecazioni, oggi tramite nuovi ordinamenti hanno la possibilità di manifestare il pensiero dove si decide la sorte dei popoli” (Dai Discorsi parlamentari di Angelina Livia Merlin).

La legge più famosa, quella indissolubilmente legata al suo nome: la “legge Merlin”, approvata dopo un’estenuante battaglia parlamentare, nella quale sono volati improperi ed insulti al suo indirizzo e per la quale sarà oggetto di un vero e proprio massacro giornalistico: la legge contro lo sfruttamento legalizzato della prostituzione e contro le cosiddette “case chiuse”.

Peccato signora che abbia proposto quella legge! – l’apostrofa un bagnante in spiaggia, mentre Lina è in vacanza – L’Italia finora era rimasta il solo Paese dove si potessero comprare le donne a buon mercato.” “Ma Signori, – racconterà lei – io non mi lascio facilmente offendere né lascio offendere il mio Paese e ho detto: Forse nel suo Paese usano vendersi gli uomini?” (Dai Discorsi parlamentari).

La “legge Merlin” entra in vigore il 20 settembre del 1958, seguita da uno strascico di polemiche la cui eco non si è mai spenta.

Nel 1948 viene eletta al Senato, insieme con altre tre colleghe, mentre nella seconda legislatura rimarrà l’unica donna: “Si diceva che il Senato avesse una donna sola, ma una di troppo” – è il suo ironico commento. Nel 1958, passerà alla Camera, dove entrerà a far parte della Commissione antimafia.

E’ in questi anni che si consuma la sua rottura con il Psi, da cui esce definitivamente nel 1961, per entrare a far parte del gruppo misto: non ne può proprio più di “fascisti rilegittimati, analfabeti politici e servitorelli dello stalinismo”– dice nel suo messaggio di commiato

Ai giovani lascia un appello pieno di speranza: “Ai giovani noi dobbiamo molto. Dobbiamo quel che noi non avemmo. Perché nella nostra età più bella noi abbiamo visto ergersi davanti a noi i volti della tirannia e della guerra, che devono sparire per sempre dal loro orizzonte. Ai giovani dobbiamo dare tutto ciò che favorisce lo sviluppo armonico delle loro energie fisiche, la forza del carattere, lo slancio di tutto l’essere verso la bellezza, la libertà, la giustizia, la bontà. Solamente così si prepara l’avvenire” (Dai Discorsi parlamentari).

Soltanto così “Il passato vive nel presente, il presente s’infutura.”

 

Angela Maria Cingolani Guidi. E’ un curriculum tutto cattolico, quello di Angela Maria Guidi: cattolica è la sua famiglia, che appartiene alla borghesia romana; cattolico l’Istituto in cui si diploma, quello delle Suore Dorotee al Gianicolo (ci tengo a dirlo, perché anche noi di Yunus proveniamo da lì). E’ qui che incontra la fondatrice e presidente dell’Udaci (Unione tra le Donne Cattoliche d’Italia), la principessa Maria Cristina Giustiniani Bandini. “Credo di essere diventata femminista con l’uso della ragione – dirà in seguito Angela – ma chi mi ha spinto su questa strada è stata donna Cristina Giustiniani Bandini”,- che la porta non solo ad iscriversi immediatamente all’Udaci, ma soprattutto a partecipare alle iniziative organizzate per la mobilitazione del fronte interno durante il conflitto.

Si iscrive alla Gioventù Femminile cattolica italiana dopo essersi guadagnata una medaglia di bronzo del Comune di Roma per l’opera di assistenza offerta durante il primo conflitto mondiale e Don Luigi Sturzo la vuole con sé all’Opera nazionale per gli orfani di guerra, ancor prima di aver fondato il Partito Popolare (1919), al quale Angela Maria si iscrive immediatamente, tanto che la sua è la prima tessera femminile.

L’altro suo polo di attrazione è costituito dalla cooperazione femminile, alla quale si dedica infaticabilmente, riuscendo a mettere in piedi più di cinquecento scuole di avviamento al lavoro, di laboratori e di cooperative.

Durante il fascismo, lei e il marito, Mario Cingolani, un ex parlamentare del PPI, fanno della loro casa romana un punto di incontro e di riferimento per gli antifascisti cattolici, ospitando anche il Comitato di Liberazione Nazionale.

Il ’44 la vede alla direzione di Azione Femminile, il giornale nato come supplemento de Il Popolo, in cui, già nell’editoriale del primo numero, Angela Maria sottolinea che “la donna è la casa”, che “la casa è il mondo”, e “tanto più essa sarà riformatrice ed elevatrice, quanto più sarà serena, competente, responsabile, con la visione limpida delle proprie possibilità”.

Colleghi Consultori – dirà in occasione del suo primo intervento alla Consulta – nel vostro applauso ravviso un saluto per la donna che per la prima volta parla in quest’aula. Non un applauso dunque per la mia persona, ma per me quale rappresentante delle donne italiane che ora, per la prima volta, partecipano alla vita politica del Paese.

Ardisco pensare di poter esprimere il sentimento, i propositi e le speranze di tanta parte di donne italiane. Credo proprio di interpretare il pensiero di tutte noi Consultrici invitandovi a considerarci non come rappresentanti del solito sesso debole e gentile, oggetto di formali galanterie e di cavalleria di altri tempi, ma pregandovi di valutarci come espressione rappresentativa di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha lavorato con voi, con voi ha sofferto, ha resistito, ha combattuto, con voi ha vinto e ora con voi lotta per una democrazia che sia libertà politica, giustizia sociale, elevazione morale. (…)

Noi donne che siamo temprate a superare il dolore e il male con la nostra operosità e con la nostra pietà, siamo fiere di essere in prima linea nell’opera di resurrezione a favore del popolo nostro.

Non si tema, per questo nostro intervento quasi un ritorno a un rinnovato matriarcato, seppure mai esistito! Abbiamo troppo fiuto politico per aspirare a ciò; comunque peggio di quel che nel passato hanno saputo fare gli uomini noi certo non riusciremo mai a fare!

Il fascismo ha tentato di abbrutirci con la cosiddetta politica demografica considerandoci unicamente come fattrici di servi e di sgherri, sicché un nauseante sentore di stalla avrebbe dovuto dominare la vita familiare italiana. (…)

Per la stessa dignità di donne noi siamo contro la tirannide di ieri come contro qualunque possibile ritorno ad una tirannide di domani. Non so se risponda a verità la definizione che della donna militante è stata data: “la donna è un istinto in marcia”. Ma anche così fosse, è l’istinto che ci fa essere tutrici della pace. È anzitutto pace serena delle coscienze [da cui] deriva la pace feconda delle famiglie, infine, pace operosa del lavoro. Questa triplice finalità della pace l’Italia di domani la raggiungerà se noi sapremo essere l’anima, la poesia, la sorgente della vita nuova del risorto popolo italiano.” (Dai Discorsi parlamentari di Angela Maria Cingolani Guidi).

 

Filomena Delli Castelli. “Sono nata che piovevano le bombe della grande guerra, il secondo conflitto mondiale l’ho vissuto in un’età da ricordarlo bene, ora non voglio vivere un altro orrore simile o peggiore. E allora guardo a questa povera Europa che non mette radici, che non trova identità e crede che la democrazia sia acquisita e forte, invece va tutelata.

Nasce infatti nel pieno della prima guerra mondiale, a Città Sant’Angelo, in un Abruzzo “forte e gentile” proprio come lei, ma in cui da fare c’è ancora molto, moltissimo: se in Italia una donna su quattro non sa nemmeno leggere o scrivere il proprio nome, nel Sud il tasso di analfabetismo sale a livelli vertiginosi coinvolgendo più della metà delle donne, alle quali, peraltro, non è concessa altra attività che quella di accudire i figli e la casa.

Nonostante la sua famiglia non nuoti certo nell’oro, con un padre che è stato costretto ad emigrare in America per cercare lavoro, “Memena”, come la chiamano affettuosamente gli amici, riesce comunque a studiare. Con l’aiuto del parroco, si trasferisce con la madre a Milano, dove si iscrive all’Università Cattolica e intanto lavora come insegnante per potersi mantenere agli studi.

Memena è una cattolica D.O.C. e questa sua fede, che è religiosa ma anche politica, la porta con sé nella sua terra, nella scuola dove insegna e dove sta nascendo, per sua iniziativa, una sezione della DC (Democrazia Cristiana), il suo partito.  Le donne vanno volentieri ad ascoltarla, non solo perché è un’ottima oratrice, ma soprattutto perché Memena è una di loro. Anzi, a quanto si racconta, le loro prime “uscite pubbliche” dopo la guerra, in un paese che “si presentava come un deserto, solo povertà e arretratezza, niente altro”, sono proprio quelle per andare ad ascoltare lei, per farle festa, adornando i balconi con le lenzuola e le coperte del corredo, quelle ricamate da loro con tanta pazienza, con i tappeti, con le tovaglie “buone”, le poche cose strappate alla furia dei bombardamenti che hanno distrutto tante delle loro case.

La sua attività attira l’attenzione dei dirigenti delle DC, in particolare di Mario Cingolani: per la futura Costituente, è la candidata ideale. Le preferenze espresse, infatti, sono numerosissime.

Nella Costituente, fa squadra con le altre donne: “La pattuglia femminile della Costituente serrava i ranghi quando erano in discussione e da risolvere i problemi inerenti il lavoro, la famiglia, la scuola”.

Ed è questa “pattuglia”, più compatta e combattiva che mai, che nella seduta plenaria del 22 maggio 1947, si schiera per chiedere che fosse accettata la formulazione: “Tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere agli uffici pubblici in condizione di eguaglianza”. Ed è una vittoria.

Federici, Cingolani, Noce, Jotti, Delli Castelli, Nicotra, Gotelli, Gallico Spano, Titomanlio, Mattei, Montagnana: l’articolo 51 è in gran parte vostro.

Nel 1948 viene eletta alla Camera dei Deputati, dove entra a far parte della Commissione speciale per l’esame e l’approvazione dei disegni di legge sul teatro e sulla cinematografia. Memena crede molto nella cultura: è lei a proporre l’introduzione della storia dell’arte nelle scuole medie, a chiedere l’insegnamento della cinematografia e anche a presentare un progetto di legge per istituire, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il “Comitato nazionale per la cinematografia per i ragazzi”.

Ma intanto non dimentica il suo Abruzzo e, in qualità di sindaco di Montesilvano, realizza interventi importanti come l’assestamento della rete idrica, necessaria per garantire l’accesso di tutti i cittadini all’acqua potabile.

Nel 1958 esce praticamente di scena: il suo rifiuto delle logiche correntizie la condanna a non essere rieletta e nonostante il suo impegno politico non sia mai venuto meno, “la sua visibilità sulla scena nazionale ne risulta fortemente ridimensionata, se non cancellata” (Patrizia Gabrielli, Il 1946, le donne la Repubblica”).

Una delle sue ultime interviste appare quasi come una sintesi lapidaria di una vita: Nel 1946 ero piena di entusiasmo e animata da una indicibile passione per la ricostruzione reale, materiale e morale del nostro Paese […]. Oggi il sistema politico è messo in un angolo, emarginato, disprezzato come una creatura molesta alla quale si butta ogni tanto un pezzo di carne, le tangenti appunto, per farla stare buona […]. E per questo mi rivolgo alle donne, perché diano insieme slancio nuovo: gli uomini, purtroppo, nel loro genere, spesso fanno tanta confusione anche nell’affrontare la vita pubblica. Ebbene noi donne dovremmo aiutarli, non contrapporci a loro, aiutarli a fare ordine, a riproporci dalle basi, dalle cose piccole”.

 

Teresa Noce. La sua famiglia è talmente povera, che Teresa si vede costretta a rinunciare al suo sogno di fare la maestra e ad abbandonare la scuola ancor prima di aver terminato le elementari. Sarà un’autodidatta, ma intanto è costretta a fare mille mestieri diversi: la sarta, l’operaia in un biscottificio, la tornitrice alla Fiat Brevetti. Ha soltanto undici anni quando partecipa al suo primo sciopero per ottenere migliori condizioni di lavoro in fabbrica.

Però è solo dopo la perdita della madre e del fratello, quest’ultimo caduto in guerra, quando è ormai sola al mondo, che Teresa decide di darsi anima e corpo alla politica. Così, nel 1919, fonda il circolo giovanile torinese del Partito socialista e due anni dopo entra nel neo-nato Partito comunista. E’ qui che incontra quello che diventerà suo marito, nonché uno dei massimi esponenti del Partito: Luigi Longo.

Nei giorni bui del fascismo, Teresa e Luigi si danno all’attività clandestina. Togliatti le dà il nome di “Estrella” e lei diventa tutta rossa: ma come? Lei si è sempre considerata soltanto “povera, brutta e comunista”.

Per vent’anni non farà che girare l’Europa in lungo e in largo, partecipando, insieme al marito, alla guerra civile spagnola e curando “Il volontario della libertà”, il giornale degli italiani che militano nelle Brigate internazionali.

Intanto però è nato anche il suo terzo figlio, Giuseppe, detto “Putisc”, troppo piccolo per capire cosa stiano facendo i suoi genitori: “Non aveva ancora sette anni. L’essere tornato a vivere con noi l’aveva maturato. Sapeva che io lavoravo al giornale, e che suo padre si trovava in Spagna, dove c’era la guerra, ma altre cose non le capiva. Per esempio, non capiva perché papà che era comunista e perciò contro la guerra, faceva la guerra in Spagna. Tentai di spiegarglielo, dicendogli nello stesso tempo che anch’io sarei dovuta andare a lavorare in Spagna. Non era facile e la stessa domanda che si poneva Putisc se l’erano posta molti lavoratori italiani, francesi, e di altri paesi.
Tuttavia fui convincente perché alla fine Putisc concluse: ‘Va bene. Parti pure per la Spagna. Io mi cercherò un’altra mamma’. Sapeva quanto me che qualcuno avrebbe dovuto prendersi cura di lui e, mentre io mi guardavo attorno per cercare a chi affidarlo, lui aveva già trovato. Mi annunciò tranquillamente che la sua nuova mamma sarebbe stata la compagna Olga Donini e il suo nuovo fratello, Pirka, il figlioletto dei Donini che aveva giusto la sua età. I nuovi genitori erano d’accordo: Pirka sentiva proprio il bisogno di un compagno e Putisc avrebbe completato la famiglia. Organizzammo il trasferimento del bambino presso i Donini e io potei partire per la Spagna con relativa tranquillità
. (Teresa Noce, “Rivoluzionaria professionale”)

Poi, nel 1943, l’arresto in Francia e la deportazione in Germania, prima nel campo di concentramento di Ravensbruck, poi a Holleischen, in Cecoslovacchia, dove viene impiegata nei lavori forzati in una fabbrica di munizioni.

La Costituente e la Commissione dei 75 sono per lei tappe importantissime, anche perché, dopo tanti anni di lontananza, riesce finalmente a riprendere i contatti con donne ed uomini del suo Paese e di tutti i partiti. “Fino ad allora, oltre ai compagni comunisti, avevo conosciuto solo alcuni socialisti e qualche esponente del partito d’azione“.

Nello stesso periodo, Teresa fa sua la questione dei lavoratori tessili, un settore in cui le maestranze sono per il 75% costituite da donne, che percepiscono un salario dal 20 al 40 % inferiore a quello dei colleghi maschi. E questi non sono gli unici problemi: c’è quello dei bambini e quello delle lavoratrici che non ne possono davvero più di sbocconcellare in fretta e furia un panino o di ingurgitare un piatto di zuppa fredda rimanendo inchiodate ai telai.

Così, nel ’48, scende in campo per la sua battaglia più grande: la proposta di legge per la “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri”, che prevede permessi di lavoro retribuiti a partire dall’accertamento della gestazione, il divieto di licenziamento delle donne incinte e la loro esclusione dai lavori usuranti. L’anno successivo sarà la volta, insieme a Maria Federici, della legge che vuole lo stesso salario per le donne e per gli uomini.

Anche un’altra causa, però, le sta particolarmente a cuore ed è quella dei reduci. Teresa conosce fin troppo bene il problema. L’ha provato sulla sua stessa pelle e lo conosce attraverso le voci dei milioni di reduci che alla fine della prima guerra mondiale si erano trovati alla fame. Per loro vuole l’equiparazione ai lavoratori disoccupati, la precedenza assoluta nelle assunzioni, una sovvenzione in termini di derrate alimentari e di vestiario, ma senza che si parli di “sussidi”, perché è la loro dignità che Teresa intende salvaguardare. “La costituzione democratica della Repubblica italiana non può limitarsi ad affermare dei diritti: deve indicare anche come intende garantire il godimento di questi diritti a tutti i cittadini italiani. (…). Uscire cioè dalla pura enunciazione e definire nella concretezza questi diritti, tanto più quando si tratta della maternità, la quale, è, oltre che una funzione naturale della donna, oltre una missione umana, anche una funzione sociale, perché su di essa si basa la famiglia, perno della società, perché essa crea le nuove generazioni, avvenire dell’Italia.(…) ..Il pupo roseo e paffuto o la creaturina pallida ed anemica, non sono soltanto la croce e la delizia della loro mamma: sono i lavoratori di domani sono l’avvenire della patria. (…), così come le ragazze che si prostituiscono e gli sciuscià che rubacchiano non sono la vergogna della famiglia, ma la vergogna del Paese che non sa aiutare i giovani.

La sua parabola discendente è un triste spaccato delle vicende all’italiana: nel 1948, amareggiata dalle continue avventure galanti del marito, si trasferisce a Milano, dove oltre tutto può occuparsi più da vicino della Fiot (Federazione italiana operai tessili), di cui è segretaria. Qui chiede la separazione consensuale. Ma nel 1953, leggendo il “Corriere della Sera”, apprende che “Luigi Longo e  Teresa Noce avevano ottenuto a San Marino l’annullamento del loro matrimonio”. All’epoca, non esistendo il divorzio, per separarsi esistevano due sole alternative: chiedere alla Sacra Rota l’annullamento del matrimonio, oppure andare all’estero e poi farselo trascrivere in Italia.

Ingenuamente, Teresa si convince che la notizia non possa che essere falsa: il partito non avrebbe mai tollerato un comportamento del genere, men che meno da suo marito che ne era vicesegretario. Si rivolge al giornale chiedendo una smentita, ma apprende che la notizia è vera: anzi, il marito ha addirittura falsificato la sua firma. Paradossalmente, il partito se la prende con lei: è lei ad essere messa sotto accusa e ad essere espulsa dal comitato centrale, per aver reso pubblica una vicenda privata e aver gettato discredito sul partito. Un trauma, questo, un tradimento da parte dei compagni di tante lotte, che per Teresa è “grave e doloroso più del carcere, più della deportazione”.

 

Bianca Bianchi.  Bianca è un’insegnante, una di quelle troppo libere, troppo anticonvenzionali per non destare sospetti e diffidenze. Quando poi tenta di inserire l’insegnamento della cultura ebraica nel programma didattico, viene buttata fuori. Per proseguire la sua attività, dovrà andare ad insegnare italiano in Bulgaria.

Anche lei staffetta partigiana, ma questa volta nel Psiup (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria), tra le cui file viene eletta all’Assemblea Costituente. Nel ’47, però, deciderà di seguire la minoranza di Saragat, suo grande amico, nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, poi diventato Psdi (Partito Socialista Democratico italiano).

Un successo dopo l’altro, il suo, già a cominciare dalle elezioni alla Costituente: 15 mila voti, più del doppio del capolista e futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Ma non c’è da illudersi: secondo un ormai troppo collaudato cliché, è il suo aspetto fisico che tutti ammirano, lei così giovane, bella, elegante. Quel faccino angelico, quei capelli biondi sono proprio ciò che serve per attirare i voti. “Servivo insomma ai fini della propaganda elettorale, ma in cuor loro speravano che non venissi eletta”.

Sono molto tesa quando entro per la prima volta nell’aula della Camera. Sento gli sguardi degli uomini su di me. Cerco di osservare gli altri per liberarmi dal senso di disagio. (…)

Poi, metto insieme il mosaico di parole e di sguardi e: Dio, ce l’hanno con me. Sono io l’accusata. Non vogliono che parli sulle dichiarazioni del Governo. Chi mi ha autorizzato? Ho avuto forse l’incarico dal partito? Non so che ogni intervento in aula deve essere discusso e approvato dagli organi direttivi? (…). Non si può parlare quando si vuole (…). Posso essere brava a fare un comizio ma, che diamine, parlare alla Camera è un’altra cosa (…). La più accanita contro di me è Lina Merlin: ma guarda, penso, una donna contro un’altra donna, dovrebbe sostenermi, aiutarmi. Sono ferita nell’amor proprio e decido di non permettere nessun boicottaggio su di me. (…) è diventata una sfida. Ingoio saliva amara, la pelle mi brucia addosso come fosse stata frustata, ma resto in silenzio. Non siamo i rappresentanti di coloro che ci hanno dato il voto? Per loro parlerò”. (Da “Alle origini della Repubblica. Donne e Costituente“, a cura di Marina Addis Saba, Mimma De Leo, Fiorenza Taricone, Presidenza del Consiglio dei ministri, Commissione Nazionale Parità, 1996).

Molti i suoi obiettivi: l’occupazione, la garanzia pensionistica per i lavoratori e la scuola, nemica giurata com’è delle sovvenzioni statali alla scuola privata, sospettata di “gestione mercantile” e di concedere diplomi con troppa disinvoltura.

Ma il tema che più le sta a cuore è quello dei “Figli di nessuno” (come titola un suo libro dedicato proprio a questo argomento), ossia i figli naturali, di cui si batte per ottenere il riconoscimento, così come farà di tutto per ottenere l’abolizione della discriminazione giuridica e sociale che colpisce i bambini nati fuori dal matrimonio. La sua proposta, però, viene bocciata: bisognerà aspettare il 1955 perché una legge cancelli dai documenti anagrafici tutte quelle diciture infamanti.

Dopo la partecipazione alla prima legislatura, Bianca non viene più rieletta e così riprende la sua attività di scrittrice e il suo impegno pedagogico, fondando a Montesenario la “Scuola d’Europa”, un centro educativo di sperimentazione didattica, che accoglie ragazzi delle scuole elementari e medie provenienti da tutta l’Italia centro-settentrionale.

 

Laura Bianchini. E’ forse la meno nota delle 21 madri costituenti. Eppure Laura ha una personalità piena di sfaccettature: insegnante, educatrice, politica, scrittrice.

Il suo antifascismo matura tra gli ambienti del cattolicesimo bresciano: studia presso i Padri Filippini, all’Università ricopre il ruolo di Presidente delle organizzazioni femminili della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) e dopo l’8 settembre ospita in casa sua le prime riunioni dell’antifascismo locale, arrivando ad installare perfino una rudimentale tipografia per redigere il giornale “Brescia libera”. E proprio in uno dei suoi articoli si rivolge agli insegnanti, ai quali non risparmia le sue critiche: “Voi avete la responsabilità gravissima di averci illusi, Voi che tacevate, che sopportavate, che non avete mai trovato il coraggio di dire a noi, giovani inesperti, la parola della verità”, invitandoli duramente a non prestare giuramento al governo della Repubblica Sociale Italiana: “Se giurate, non siete educatori di anime, siete dei corruttori del costume.

Nel ’44 si trasferisce a Milano ed entra a far parte delle “Fiamme Verdi” (le formazioni partigiane cattoliche): diventa una staffetta partigiana agli ordini di Enrico Mattei, organizza l’invio degli aiuti ai detenuti politici del carcere di S. Vittore, dirige l’ufficio di assistenza alle famiglie dei patrioti caduti, aiuta i perseguitati politici e gli ebrei a raggiungere la Svizzera, coordina il foglio clandestino “Il ribelle”.

Penelope, Don Chisciotte, Battista, sono i tanti nomi con i quali firma bollettini, articoli, volantini, in cui però non rinuncia mai al suo ruolo di educatrice e a proporre un messaggio spirituale, oltre che politico, perché sente che soltanto un’opera di rigenerazione profonda, che parta dall’uomo, riuscirà a sanare la crisi che ha investito la civiltà moderna.

Sono gli stessi valori che porta all’interno della Costituente, dove si trova catapultata nel pieno dello scontro ideologico tra clericali ed anticlericali e naturalmente uno dei principali campi di battaglia è la scuola. Ma lei, come d’altronde numerosi altri esponenti della DC (Moro, Dossetti, La Pira, lo stesso De Gasperi) sa che non si può, non si deve arrivare ad una lacerazione che, su una materia così delicata, avrebbe conseguenze incalcolabili. Il nodo concettuale per il quale Laura si caratterizza, l’unico in grado di scongiurare il conflitto fra scuola statale e privata è il valore dell’autonomia  del processo educativo:  la scuola non appartiene allo Stato così come non è della Chiesa, perché il suo scopo  non è quello di schierarsi, ma di liberare le menti.

L’insegnamento non è un servizio pubblico, ma un servizio di utilità pubblica, di pubblico interesse; non è un gioco di parole.  Un servizio pubblico può essere gestito direttamente e monopolisticamente dallo Stato.  Nulla vi si oppone.”

Nel frattempo, lei, Dossetti, Fanfani e La Pira hanno dato vita ad una piccola comunità che si riunisce regolarmente nei due appartamenti di proprietà delle sorelle Portoghesi, in Via della Chiesa Nuova: è un piccolo grande “crogiuolo di idee” (come l’avrebbe definito Ermanno Dossetti, fratello di Giuseppe), che vengono poi portate all’interno dell’Assemblea Costituente. Accade poi che una sera l’allora vicepresidente delle ACLI, Vittorino Veronese, si presenti in casa con un porcellino farcito: in tempi di guerra e di fame nera, è un’apparizione! Viene fuori, così, quello strano nome: la “comunità del porcellino”, il cui atto di fondazione viene ufficialmente proclamato l’11 giugno del 1947.

Dal suo progetto educativo, Laura non escluderà nessuno, né i lavoratori e neppure le prostitute e alla sua passione pedagogica si dedicherà fino alla fine, insegnando Storia e filosofia al “Liceo Virgilio” di Roma.  “Intensa” – ma anche, come dirà un suo ex alunno, Paolo Giuntella – “Piuttosto scorbutica e scostante, burbera, ma sprizzava vita e intelligenza, passione politica, civile e cristiana da ogni poro. (…) Una cristiana integerrima, la quale amava ripetere che un cristiano non può non essere anticlericale, perché il libro più anticlericale della storia non era certo il ‘Candide’ di Voltaire, ma piuttosto il ‘Vangelo di Gesù Cristo’”.

 

Elisabetta Conci, la “pasionaria bianca“. Elisabetta eredita dalla madre l’amore per il pianoforte, che la porta a diplomarsi al Conservatorio di Trento, la sua città natale. La passione politica le viene invece dal padre, deputato alla camera di Vienna, dove si batte a lungo per l’autonomia del Trentino. Sarà proprio questo suo acceso irredentismo il motivo di quei quattro anni di confino a Linz, dove anche lei e la sorella Amelia subiscono la stessa accusa, quando in casa viene trovato del materiale propagandistico. Solo l’amnistia concessa dall’imperatore Francesco Giuseppe le salva dalla sentenza.

Elisabetta vive praticamente in bilico tra queste due realtà, come la sua Trento, d’altronde: segue gli studi tra Innsbruck e Vienna, però si laurea a Roma e quando vince la cattedra per l’insegnamento del tedesco in un liceo di Pavia, ci rinuncia per non abbandonare la sua città natale e il suo impegno nelle nascenti organizzazioni femminili. Comincerà ad insegnare proprio qui, all’Istituto tecnico “Leonardo da Vinci”, dove dà vita al primo esperimento di doposcuola privato e totalmente gratuito.

Elisabetta è una fervente cattolica: lo è la sua educazione e lo sono i suoi principi. Così, pur essendo costretta ad iscriversi al Fascio femminile di Trento, adotta una posizione critica nei confronti del governo, dell’emanazione delle leggi razziali, dell’entrata in guerra dell’Italia.

2 settembre 1938. Tutti gli ebrei immigrati in Italia – anche quelli cui è stata concessa la cittadinanza italiana!! – devono lasciare il nostro paese entro sei mesi. È inumano, ingiusto, davvero degno della nostra tanto vantata civiltà!”.

25 ottobre. Discorso del Duce a Padova: il popolo italiano è pronto a qualsiasi evento, e tutti gridano come forsennati: ’Sì’ e anche ‘guerra, guerra! ’(Incoscienti!)

26 marzo 1939. […] bisogna armarsi: a qualunque costo… anche se dovessimo fare tabula rasa di tutto quello che si chiama vita civile. Basta!”. (Elisabetta Conci, dalle “Cronache 1938-1940”)

Da brava cattolica, aderisce alla Dc ed è nelle sue file che viene eletta alla Costituente, seconda dopo De Gasperi. In qualità di membro del “Comitato dei 18” (costituito dall’Ufficio di presidenza della “Commissione dei 75” con il compito di coordinare il lavoro prodotto dalle tre Sottocommissioni), Elisabetta si trova a dover affrontare la questione spinosa di quelle che sarebbero state le Regioni a statuto speciale. E si batte per la loro autonomia, tanto che perfino gli altoatesini di lingua tedesca la vedono come una paladina delle loro rivendicazioni.

Ma non dimentica mai la causa delle donne: “Il primo compito nostro, il più sacro e il più alto, è la famiglia […] per questo […] reclamiamo dalla nuova Costituzione quelle nuove disposizioni di legge, come il salario familiare, come i limiti al lavoro delle donne, che le permettano di svolgere in pieno la sua funzione familiare. Ma noi sentiamo oggi che una più vasta famiglia richiede il nostro sacrificio e la nostra dedizione: che tutto il popolo nostro è la nostra famiglia. Noi ci proponiamo di lavorare con quello spirito che è cemento di ogni vita familiare, spirito di volontà, di fermezza nella difesa di ciò che è equo, di serenità, di comprensione, ma più di tutto di fraternità […]. Con questi sentimenti noi donne ci proponiamo di lavorare alla ricostruzione sociale e politica del nostro Paese” (Da un discorso tenuto l’8 marzo 1947 in occasione della Giornata della donna).

E sono tante le leggi che portano anche la sua firma, leggi che spaziano in tutti gli ambiti della vita civile: dagli affari di culto alla sanità pubblica, dallo spettacolo alle attività sportive, dalla stampa all’emigrazione, alla previdenza sociale, alla cooperazione, ivi compresa quella per la formazione di un corpo di polizia femminile.

E’ una convinta europeista, Elisabetta e in quanto tale entra a far parte della delegazione italiana al Parlamento europeo di Strasburgo e, nel 1955, è tra le fondatrici dell’Unione femminile europea, di cui quattro anni dopo diventa Presidente.

 

Maria Jervolino De Unterrichter.  “Voi la vedete indifferentemente con la calzetta in
mano come le nostre nonne o attraversare in aeroplano mezza Europa, e si tratta di difendere ovunque la causa del cristianesimo” (L’Azione femminile).

Maria nasce in una valle del Trentino Alto Adige ancora soggetta alla dominazione austriaca e diventa cittadina italiana soltanto nel 1918.  A Roma, dove si laurea, entra nel gruppo di giovani studenti universitari che seguono monsignor Montini, il futuro papa Paolo VI, e diventa presidente della Fuci femminile.

E’ però Napoli la sua città di elezione: quella dove è nato suo marito, Angelo Raffaele Jervolino, e quella dove trascorre i giorni terribili della seconda guerra mondiale. Come Angelo, è una convinta antifascista, tanto che entrambi resteranno per anni dei “sorvegliati speciali”.

Entrata nella Costituente, si vede assegnare come collegio elettorale quello di Potenza e Matera, allora molto difficile da raggiungere. Maria, però, non si scoraggia, parte a bordo di una piccola Fiat 500, ben decisa a superare qualunque difficoltà logistica e la stessa cosa farà quando le assegneranno il collegio di Salerno – Avellino – Benevento. Ad entrambi rimarrà fortemente legata.

Per una serie di motivi diversi, viene impiegata soprattutto negli affari di politica estera, vuoi perché parla correttamente il tedesco, vuoi per la conoscenza diretta dei problemi relativi alla sua regione di origine, vuoi per la stima di cui gode negli ambienti diplomatici di Vienna.

Insomma, ha tutte le carte in regola per gestire le difficili trattative preliminari degli accordi Gruber-De Gasperi, così chiamati dai nomi del ministro degli Esteri italiano e del suo omologo austriaco, accordi che si rendono necessari per definire la questione della tutela della minoranza linguistica tedesca del Trentino Alto Adige e che vengono firmati a Parigi il 5 settembre 1946.

Maria è anche la prima donna ad accedere al Ministero della Pubblica Istruzione, in qualità di Sottosegretaria in ben tre governi (Scelba, primo governo Segni e Zoli). Sono tempi difficili questi: il tasso di analfabetismo è elevatissimo, soprattutto tra le donne, il sistema scolastico è tutto da riorganizzare, le metodologie didattiche da modernizzare.

In campo pedagogico, Maria è e resterà una convinta sostenitrice del metodo montessoriano: “Il Governo di un’Italia libera richiama oggi Maria Montessori nel suo Paese, perché aiuti nell’opera di rinnovamento della nostra gioventù e della nostra scuola […]. Ella è per noi donne italiane anche una geniale guida nei nostri nuovi compiti politici. Chi non avesse troppa fiducia nell’attiva collaborazione della donna alla vita sociale, guardi a questa donna. […] A lei, che costruendo l’uomo nel bimbo ha già attivamente concorso a creare una pietra angolare per la pace del mondo, va in questo momento anche il saluto della Costituente italiana, dove, ridando alla nostra Patria un volto di vera democrazia, si riedifica per il nostro popolo una vita più umana e più buona.” (Dal discorso di benvenuto pronunciato nel 1947, in occasione del ritorno di Maria Montessori dall’esilio)

Non a caso, dopo essere stata per circa trenta anni presidente nazionale dell’Ente Montessori, Maria dedica gli ultimi anni della sua vita a viaggiare per il mondo portandone ovunque il messaggio, fino a diventare Vice Presidente dell’Associazione Montessori Internazionale (AMI) e arrivando addirittura a ricoprire la carica di presidente dell’OMEP, l’organizzazione dell’UNESCO per l’educazione prescolastica.

 

Maria Federici Agamben. “Onorevoli colleghi, l’articolo 33 (ora 37) riguarda la donna lavoratrice e certi suoi particolari problemi. Questo articolo è un riflesso vivo delle gravi ingiustizie che ancora si registrano nella vita italiana. Da qui a pochi anni noi dovremo perfino meravigliarci di aver introdotto questo articolo nel testo costituzionale e per avere dovuto sancire nella Carta Costituzionale che a due lavoratori di sesso diverso, ma che compiono lo stesso lavoro, spetta un uguale retribuzione. Così pure ci dovremo meravigliare di aver dovuto stabilire come norma costituzionale che le condizioni di lavoro, per quanto riguarda la donna, debbono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e materna. Cioè dovremo meravigliarci di aver dovuto introdurre una norma tanto naturale ed umana“. (Da un discorso di Maria Agamben all’Assemblea Costituente, 10 maggio 1947). …No, purtroppo non ce ne meravigliamo ancora e forse sono tuttora lontani i tempi in cui ci potremo finalmente sorprendere di tutto questo.

Maria è aquilana, ma la sua famiglia è di origine armena. Sono due intellettuali, lei e il marito, entrambi nemici giurati del fascismo e fermamente decisi a voltare le spalle ad un regime che non riescono a sopportare. Lasciano l’Italia, viaggiano molto, sono in Bulgaria, in Egitto e poi si stabiliscono a Parigi, dove Maria continua ad insegnare e dove la coppia incontra molti esuli italiani, anche loro in fuga dalla dittatura.

Nel ’39, tornando a Roma, la città in cui si era laureata in lettere, Maria entra a far parte della Resistenza, anche lei da clandestina e si prodiga per chiunque abbia bisogno: perseguitati politici, sfollati, bambini, donne, disoccupati, organizzando anche un centro di accoglienza per i reduci e i profughi.

Da cattolica convinta, per fede e per formazione, è tra le fondatrici del CIF (Centro Italiano Femminile), del quale diventa la prima presidente nazionale.

Nella Costituente e poi nella Commissione dei 75, porta con sé i suoi valori cristiani, continuando nel suo impegno per la “Tutela fisica ed economica delle lavoratrici madri” (come recita la legge n. 860 del 1950) e per l’ammissione delle donne agli uffici pubblici alla magistratura.

Come tutte le donne, Maria ha provato sulla sua pelle “la disapprovazione, il divieto, l’intollerabilità dell’uomo”. Già durante la campagna elettorale ha dovuto fare i conti con quell’intransigente autoritarismo, incapace di accettare che la donna e ancor più la moglie possa esprimere un parere diverso, o magari, più semplicemente, formulare una propria opinione. Con la stessa intransigenza maschile continua a misurarsi praticamente tutti i giorni. “Evidentemente qui c’è l’idea di creare una barriera nei riguardi delle donne. (…) Se vogliamo approvare una Costituzione veramente democratica dobbiamo abolire, una volta per tutte, ogni barriera ed ogni privilegio che tenda a spingere le donne verso settori limitati, all’unico fine di tagliare ad esse la via di accesso ai pubblici uffici ed alle cariche elettive. La donna dovrà fare liberamente la sua scelta, seguendo il suo spontaneo desiderio, guidata dall’educazione e da valori spirituali, ma mai per ragione di una discriminazione che la offende profondamente“.

Insieme a Lina Merlin, Angela Guidi Cingolani e Maria De Unterrichter Jervolino, fonda il CIDD (Comitato italiano di difesa morale e sociale della donna), nato in appoggio alla proposta Merlin sulla chiusura delle case chiuse e successivamente esteso al reinserimento sociale delle donne intenzionate ad abbandonare la prostituzione.

Eletta, nel ’48, alla Camera dei Deputati, partecipa ai lavori di diverse commissioni, è relatrice del disegno di legge sulla tutela delle lavoratrici madri e prima firmataria di proposte di legge sulla vigilanza e sul controllo della stampa destinata all’infanzia e all’adolescenza (approvata nel 1952), nonché di quella sulla disciplina dell’apprendistato (approvata nel 1953).

Il problema dell’emigrazione, più che mai drammatico nel dopoguerra, incontra la sua sensibilità di esule volontaria: così nel 1947 dà vita all’Anfe (Associazione Nazionale Famiglie Emigrate), di cui diventa presidente, dedicandosi, fino all’ultimo dei suoi giorni, ai problemi delle donne italiane nei Paesi che le hanno accolte.

 

Angela Gotelli. Angela nasce a San Quirico, un paesino dell’Appennino parmense dove suo padre Domenico fa il medico condotto. Però è la Liguria la sua terra di elezione, terra in cui abitare, lavorare e muovere i primi passi in politica. Anche lei cattolica, entra subito nella FUCI, di cui diventa ben presto presidente e, come membro del Movimento laureati cattolici, parteciperà, nel 1943, alla stesura del “Codice di Camaldoli”, il documento programmatico che sarebbe stato di ispirazione per la futura Democrazia Cristiana.

La guerra la vede prestare servizio come crocerossina nell’ospedale di La Spezia e anche quando si trova ad essere sfollata in montagna, ad Albareto, continua a prestare la prima assistenza a malati e feriti, per poi accompagnarli verso i centri di soccorso. Intanto la casa dove è nata ospita il comando partigiano locale, oltre a tutti i rifugiati che provengono dai centri vicini, soprattutto dalle città martellate dai bombardamenti. Coraggiosissima, non esita a tener testa ai soldati della X MAS che, forse informati dalle loro spie sulle attività che si svolgono in quella casa, oppure semplicemente insospettiti dal continuo via vai, vengono a fare una perquisizione. Più tardi, non esiterà a raggiungere un reparto tedesco di stanza nel bosco di Montegroppo per trattare uno scambio di ostaggi, riuscendo in tal modo ad evitare rappresaglie sanguinose sull’intera popolazione.

All’interno della Costituente, è una delle 5 donne che vanno a formare la Commissione dei 75, (insieme a Maria Agamben Federici, Lina Merlin, Teresa Noce, Nilde Iotti e Ottavia Penna Buscemi) e, da cattolica moderata, anche lei entra a far parte del “gruppo del porcellino”.

La sua sensibilità, però, l’avvicina sempre più alle posizioni politiche di Aldo Moro, il che la porta ad aderire al gruppo moroteo, anche se la formazione delle prime giunte di centrosinistra le costerà non poche critiche da parte degli ambienti diocesani, soprattutto a La Spezia.

Naturalmente non intendiamo drammatizzare troppo la cosa: – disse Angela in occasione del suo primo intervento, ossia quello sulla possibilità da parte delle donne, di accedere alla magistratura – sappiamo bene che la vita moderna ha aperto a noi tali margini per riempire i quali tutto il nostro spirito di iniziativa, tutto il nostro senso di responsabilità e la nostra dedizione sono profondamente impegnati e non è davvero e non è davvero il caso di preoccuparsi eccessivamente se qualche altro piccolo margine è ancora da conquistare”. (Dagli Atti Parlamentari, “Discussioni”, seduta del 16 marzo 1951, I Legislatura).

 

Maria Nicotra Verzotto. Medaglia d’oro al valore per il servizio prestato come crocerossina durante la seconda guerra mondiale.

Maria discende da una nobile famiglia siciliana ed è una cattolica della prima ora, nella Gioventù femminile dell’Azione cattolica di Catania, la sua città natale, e poi nelle Acli, contribuendo alla realizzazione della casa dei lavoratori, della casa dello studente, di scuole artigiane e di laboratori, nonché alla fondazione della sezione catanese dell’Avis (Associazione volontari italiani del sangue).

E’ con questo curriculum che entra nella Costituente e successivamente in Parlamento, dove sarà l’unica donna a far parte della Commissione parlamentare di vigilanza sulle condizioni dei detenuti negli stabilimenti carcerari.

Da “lavoratrice instancabile” com’era (e come fu definita), si impegna in tutti gli ambiti: dalla tutela delle lavoratrici madri, al controllo sulla stampa destinata all’infanzia e all’adolescenza, ai problemi dei trasporti e delle comunicazioni, alla proposta di legge per la “Protezione degli scolari nei periodi della tubercolosi”.

Nel 1949 sposa Graziano Verzotto, più giovane di lei di dieci anni, ma che aveva già al suo attivo un curriculum di tutto rispetto. Negli anni della Resistenza aveva militato nelle Brigate bianche insieme a Enrico Mattei, dopodiché aveva lavorato con lui all’Eni per poi approdare alla presidenza dell’Ente minerario siciliano (Ems), acquistando in seguito la squadra del Siracusa. In contemporanea, l’escalation nella DC, con l’appoggio di Amintore Fanfani.

Fin qui tutto bene. Ma in quest’uomo c’è qualcosa di strano e di ambiguo.

Viene fuori che è vicino al mafioso Giuseppe Di Cristina, di cui è testimone di nozze e che è in qualche modo legato sia alla scomparsa di Enrico Mattei, che a quella del giornalista Mauro De Mauro. Viene fuori che è coinvolto nello scandalo finanziario dei “fondi neri” della banca di Michele Sindona, tutte circostanze che, unite ad un attentato alla sua persona e ad un tentato rapimento, lo spingono a fuggire prima a Beirut e poi a Parigi.

Maria, che in passato ha sempre seguito e favorito la sua ascesa politica, decide però di non partire con lui. Preferisce restare in Sicilia per occuparsi di tutto ciò che suo marito ha mandato alla sbando, compreso il Siracusa, diventando così il primo presidente donna di una squadra di calcio professionistica.

 

Elettra Pollastrini. Mezzo secolo nel PCI, dall’esilio al carcere alla Costituente” (“L’Unità”, 2 febbraio 1990): l’intera sua vita in dieci scheletriche parole.

La sua è una famiglia di antifascisti, che nel 1934, per sfuggire alle persecuzioni del regime, è costretta ad emigrare in Francia, dove Elettra trova lavoro alla Renault. E’ da qui che comincia il suo tirocinio di attivista, dall’organizzazione delle lotte operaie in fabbrica.

La sua carriera politica, invece, inizia con l’iscrizione al Partito Comunista francese (1933) e prosegue con l’adesione al Fronte Popolare, alla Lega Internazionale delle donne per la pace e la libertà e, ancora, con la partecipazione, in veste di delegata del partito, al Congresso mondiale femminile contro il fascismo e la guerra.

L’anno successivo si iscrive anche al Partito Comunista Italiano: adesso ha assunto lo pseudonimo di Myriam, con il quale svolge un’attività clandestina di propaganda contro il fascismo e contro la guerra in Abissinia. Anche lei, un “fenicottero”.

Al rientro in Francia dalla guerra civile spagnola, alla quale ha partecipato formalmente come inviata speciale della rivista “Noi donne”, ma in realtà offrendo un forte contributo personale, l’attende un tempo che sarà scandito da un’alternanza di arresti e di periodi di prigionia, prima nel carcere femminile della Roquette, poi nel campo di concentramento di Rieucros, dove incontra Teresa Noce, quindi al confino a Rieti, la sua città natale, dove, nonostante tutto, riesce a rimettere in piedi la sua attività politica clandestina. Altro arresto nel ’43, questa volta da parte della polizia tedesca: imprigionata nel carcere di Regina Coeli, viene deportata in Germania e condannata ai lavori forzati nella prigione di Aichach.

Infine, la Consulta e la Camera, dove rimarrà per due legislature. Ma per lei si tratta di un nuovo inizio. Nonostante i suoi impegni da parlamentare, Elettra non dimentica la sua Rieti, le devastazioni provocate dalla guerra e dalle alluvioni del ’52, certo non catastrofiche come quelle del Polesine, ma fin troppo gravi per un territorio classificato tra le aree più depresse, prive come sono di industrie e con un’agricoltura ancora arretrata.  Elettra avanza, quindi, delle proposte di legge che prevedono un piano organico di opere idraulico-forestali e montane, necessarie per scongiurare altre calamità, la realizzazione di opere stradali, l’ampliamento della scuola nazionale per allievi sottufficiali e guardie del Corpo Forestale dello Stato, la costruzione di un palazzo di giustizia in città.

Potrebbero sembrare tutti interventi “di parte”, ma in realtà Elettra non ha mai trascurato nessuna battaglia per la tutela della donna, della maternità, per l’assicurazione obbligatoria da estendersi alle lavoratrici agricole, per l’esclusione dai lavori nocivi alla salute, come il macero della canapa, la monda, il trapianto e l’essiccazione del riso. E, ancora, la tutela dei figli naturali, l’equiparazione dei figli illegittimi: questioni gravi, problemi urgenti e drammatici nel terribile sconquasso creato dalla guerra, con tutto il suo gravame di morti, di reduci, di uomini e donne “dispersi”, scomparsi nel nulla, dei nuovi nuclei familiari che si sono formati, ma che non sono stati ancora regolarizzati e da cui sono nati figli spesso non riconosciuti. E la realtà, più atroce di tutte, delle “marocchinate”, gli stupri e le violenze commesse su donne e perfino su adolescenti e bambine, violenze che in molti casi avevano avuto come conseguenza la nascita di figli non voluti.

Della Consulta, di questi primi anni della nostra Repubblica, rimane la donna meno nota. E ciò non le rende giustizia…

 

Maria Maddalena Rossi. Tra tante letterate, Maria spicca, perché è laureata in chimica, esattamente come suo marito Antonio Semproni, entrambi antifascisti, tutti e due iscritti al PCI clandestino ed al “Soccorso Rosso”, un’organizzazione internazionale Legata al Komintern, nata nel 1922 per sostenere la lotta clandestina e per fornire assistenza nelle zone e nelle situazioni di crisi.

Nel 1942, viene arrestata a Bergamo dalla polizia fascista e inviata al confino per circa un anno, dopodiché si trasferisce in Svizzera, dove si dà da fare per raccogliere i fondi necessari a sostenere l’attività clandestina del PCI e dove lavora prima nelle riviste “Fronte della gioventù per l’Indipendenza per la Libertà” eL’Italia Libera”, poi nella redazione clandestina dell”Unità”.

Saranno quanto mai spinose le questioni che dovrà affrontare come membro della Costituente: sul piatto c’è in primo luogo l’approvazione del Trattato di pace fra l’Italia e le potenze alleate, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, e Maria Maddalena è convinta che una pace vera e duratura si possa conquistare soltanto attraverso una politica di collaborazione con gli altri popoli. C’è in ballo la discussione sul Titolo II, quello relativo ai rapporti etico-sociali, in cui interviene sostenendo la centralità del ruolo che la famiglia adempie nella società e, di conseguenza, l’obbligo da parte dello Stato di sostenerla sul piano economico. Per altro verso, però, Maria Maddalena si oppone al principio della indissolubilità del matrimonio e soprattutto al suo inserimento del testo costituzionale.

Salvare la famiglia significa salvare la Nazione. Ma noi siamo contrari ad introdurre il principio della indissolubilità del matrimonio in Costituzione. Inserendo questo articolo nella Costituzione non si elimina alcuna delle cause che nell’ambito dei nostri attuali rapporti economici e sociali minacciano l’istituto famigliare. Le famiglie illegittime in Italia, onorevoli colleghi, sono molte. I casi sui quali è indispensabile intervenire sono: coniugi senza figli che hanno formato una nuova famiglia con figli; reduci, prigionieri, ex combattenti che al loro ritorno in patria trovano l’onore familiare distrutto, famiglie nelle quali uno dei coniugi è colpito da condanna infamante e molti altri ancora. Lo Stato non può non prendere in considerazione questi casi, specie nei riguardi degli ex combattenti e dei reduci: essi sono stati lontani dalla loro casa per servire il paese, hanno esposto la loto vita, hanno sacrificato anni interi della loro esistenza; non si può chiedere loro, oggi, di rinunciare a rifarsi una vita. Sarebbe chiedere troppo. (…) Non vorrei suscitare reazioni troppo clamorose da parte di qualche settore dell’Assemblea, ma, che il problema esista, lo ha dimostrato l’atteggiamento della Chiesa stessa, la quale, in questi ultimi anni, ha esteso i casi di annullamento del matrimonio, o facendo passare, talvolta, come annullamenti veri e propri casi di scioglimento, o facendo uso di quel “privilegio paolino” di cui si è fatto cenno in quest’ Aula. Noi non poniamo la questione del divorzio. Siamo contrari a che si ponga ora tale questione perché essa non è sentita dalla maggioranza della popolazione, perché vi sono oggi ben altri problemi dei quali urge trovare la soluzione”.

E ancora:” “Noi non condividiamo i dubbi e le riserve avanzati da alcuni colleghi preoccupati di conservare nell’ambito della famiglia una gerarchia che la realtà sociale e politica ha già superato. Si è detto che la famiglia deve avere un capo. L’ha detto anche l’on. Calamandrei che ha aggiunto: uomo o donna non importa. Egli l’ha detto, credo, senza fare dell’ironia, ma io ho colto i sorrisi dell’Aula. Ora, io vorrei domandare ai colleghi che hanno sorriso se essi sono ben convinti che su questo si possa fare dello spirito, che una donna a capo della famiglia sia davvero cosa tanto ridicola. Noi non intendiamo, badate, che la Patria Potestà debba essere esercitata dalla donna; noi sosteniamo che la diversità di compiti nell’ambito familiare non significa necessariamente disparità di potere. Finché la madre vive, l’unità della famiglia c’è, c’è la saldezza della famiglia. L’uomo può anche andarsene o morire, la famiglia resta ugualmente unita. Ma, anche nelle famiglie più salde, più unite dai vincoli affettivi, quando la madre scompare i legami si allentano a poco a poco e finiscono per spezzarsi”. (Da un intervento svolto in Aula il 21 aprile del 1947).

L’altra grande battaglia che la vede come protagonista, insieme a Maria Federici e a Teresa Mattei, è quella per l’accesso delle donne alla Magistratura: “Le qualità di sensibilità, di intuizione, di tenacia, di pazienza, di coscienza, il senso di umanità che spesso si riscontrano nella donna, uniti alla conoscenza profonda del diritto, troverebbero un impiego infinitamente utile nel campo della Magistratura. Lo comprende Guglielmo Shakespeare 350 anni orsono. Voi ricorderete certamente la singolare vicenda che portò difronte alla Corte di Giustizia di Venezia un usuraio, Shyloch, il quale avrebbe voluto, in nome della legge, commettere un delitto a danno di un mercante debitore. Un caso veramente particolare, a giudicare il quale, Shakespeare richiede un giudice dotato di finezza, di cuore, d’intelligenza ed onestà, un giudice che amministri la giustizia vera, onorevoli colleghi, la giustizia dello spirito della legge e non della lettera soltanto. Questo Magistrato è una donna, Porzia, la quale salva, insieme con la maestà della legge, la vita di un innocente e domina alla fine con la sua sottile ed umana misericordia, il malvagio usuraio. Rileggano gli onorevoli colleghi le parole che Porzia pronuncia nell’aula del Tribunale di Venezia, allorché Bassanio le chiede di violare, per una volta, la legge, perché non sia permesso commettere in suo nome un delitto. ‘Nessuna Autorità in Venezia – risponde Porzia – potrebbe modificare una legge in vigore. Ciò sarebbe invocato come precedente e, per quell’esempio, molti abusi si infiltrerebbero nello Stato. Non è possibile.’  Ricordate la sua saggia sentenza e le parole che essa rivolge a chi, dopo il giudizio, vorrebbe compensarla con il denaro. ‘E’ ben ricompensato chi è soddisfatto; ed io sono soddisfatta di avervi liberato, cioè di aver fatto trionfare la giustizia. Quindi ritengo di essere ben compensata. Il mio animo non è mai stato finora più mercenario di così.’ E infine la carità, la clemenza, ‘La clemenza –  dice Porzia –  è più del potere dello scettrato: essa ha il suo trono nel cuore dei Re ed è un attributo di Dio stesso.’ Così che il malvagio alla fine appare non domato soltanto, ma, forse, pentito, forse, umanamente, redento. Trecentocinquanta anni fa Shakespeare affermava nella sua opera immortale che una donna può possedere le qualità di un giudice. Trecentocinquanta anni dopo nella Assemblea Costituente Italiana si contesta alle donne il diritto di partecipare alla amministrazione della giustizia, negando loro le qualità per farlo”. (Da un intervento svolto in Aula il 26 novembre del 1947).

 

Vittoria Titomanlio. Per uno di quei curiosi paradossi tipici della nostra Italia, terra di mediterranee contraddizioni, Vittoria è rimasta famosa per un episodio di cronaca. Ma già, qui da noi le cose vanno così: il più delle volte si diventa celebri soltanto in virtù (o per il vizio?) dei gossip.

Siamo nel 1950: Oscar Luigi Scalfaro, futuro Presidente della Repubblica, è a pranzo in un ristorante insieme a lei e al collega Umberto Sampietro, quando il suo sguardo cade sull’abito di una donna che le lascia scoperte le spalle e ne rimane scandalizzato. Per lui, notoriamente bacchettone, quella è una vera e propria offesa al comune senso del pudore, per cui non ci pensa su due volte: si alza, attraversa l’intera sala fino ad arrivare al tavolo di lei e la invita a coprirsi. La donna, Edith Mingoni Toussan, gli risponde per le rime e, quando viene a sapere che l’uomo che l’ha così poco urbanamente redarguita e i suoi due commensali sono tutti membri della Dc, provocatoriamente si dichiara “missina” beccandosi della “fascista” da  parte di Vittoria Titomanlio. L’incidente avrà strascichi imprevisti: il padre della Toussan sfida Scalfaro a duello, ma l’onorevole declina l’invito a motivo della propria fede cristiana. In questa pochade nostrana interviene nientedimeno che il principe Antonio de Curtis, in arte Totò, con una lettera aperta sul quotidiano “Avanti!”, nella quale accusa Scalfaro di codardia. La vicenda rimbalza da un giornale all’altro, finisce in questura, diventa oggetto di un’interrogazione parlamentare alla Camera e poi alla fine si spenge, come tutte le questioni all’italiana, in questo caso per fortuna.

Parliamo di cose serie. Vittoria è una maestra elementare. E’ nata a Barletta, è entrata molto giovane nel mondo dell’associazionismo cattolico e prosegue nella sua attività anche quando, nel ’31, il fascismo comincia a chiudere le sedi dell’Azione Cattolica. Diventa segretaria provinciale delle ACLI, è la delegata nazionale del Movimento femminile per l’artigianato, entra a far parte del Consiglio nazionale del Movimento Femminile della DC.

L’ingresso nella Costituente è solo l’inizio di una lunga carriera politica, che la vedrà in Parlamento per quattro legislature.

In questi giorni è stato lungamente discusso di autonomia e di unità nazionale, come se l’autonomia dovesse distruggere l’unità nazionale. Comprendiamo benissimo — anche perché lo hanno dimostrato tanti onorevoli colleghi — che l’autonomia può esistere, rispettando l’unità nazionale. Anzi, l’autonomia è una conseguenza della libertà e della democrazia.” (Dal discorso pronunciato in Aula il 4 giugno del 1947) E’ uno dei suoi interventi più noti: quello nella discussione sul Titolo V, in cui difende l’autonomia delle regioni, in nome del doveroso rispetto delle tradizioni e delle esigenze locali, come garanzia di democrazia e di libertà.

Non meno memorabile la discussione del disegno di legge sulla stampa, in cui sostiene la necessità che i giornali rettifichino pubblicamente le notizie su persone la cui dignità sia stata lesa.

Un’attività parlamentare particolarmente intensa, quella di Vittoria, che l’ha vista partecipare ai lavori di diverse Commissioni permanenti: Lavoro, Emigrazione, Cooperazione, Previdenza e Assistenza sociale, Assistenza post-bellica, Igiene e Sanità pubblica; Istruzione e Belle Arti; Industria e Commercio, Artigianato, Commercio estero.

 

Si dovevano toccare gli abissi dell’orrore e della tragedia perché gli uomini si convincessero a chiedere l’aiuto delle donne nella società e nella politica”.

Sibilla Aleramo

 

Maddalena Vaiani

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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