Affabulazioni

I due doni

10.07.2020

Si erano incontrati in una via del vasto mondo, avevano sentito un’istintiva simpatia l’uno verso l’altro. Ambedue giovani, di bell’aspetto, diversi però di animo e di temperamento. Uno nasceva da una razza evoluta nel suo complesso e raffinata nei suoi costumi; I’altro da una razza ancora arretrata, vergine di idee e di cultura. Malgrado questo, fraternizzarono. Ailù, il primitivo, ascoltava con piacere e meraviglia le parole di Ramzi, I’egiziano. Quelle parole gli sembravano frutto di eccelso ingegno e gli aprivano la via alla conoscenza di fatti e cose ignorate. Passando per le vie della città cosmopolita, vedeva tutto con occhi nuovi. Non sapeva distinguere il bello dal brutto, ma ogni avvenimento svegliava un’eco nel suo semplice cervello. Passando un giorno da una piazza popolata da gente di ogni tipo e nazionalità, osservarono un uomo dall’aspetto strano, che sedeva all’ombra di un muro diroccato presso un’antica Moschea. Era una specie di “fakir” (mendicante), che se ne stava immobile, chissà da quante ore, fissando davanti a sé lo sguardo acuto ed un po’ maligno.

Carlo Ludovico Bompiani, “Il Mendicante”

Una folla di sfaccendati curiosi gli faceva cerchio intorno, mormorando parole di simpatia ed anche di compassione. “Come è magro! Gli si contano le ossa” – disse uno. La veste bianca, aperta sul davanti, mostrava infatti un torace scarno, in mezzo al quale stava un mazzo di amuleti fissato al collo per mezzo di uno spago annerito. “Deve essere un santone – disse un altro. – È da stamani che sgrana il suo “sebah” (rosario)”. Forse è uno “sciammans” (adoratore del sole), – aggiunse un terzo – ed attende che i fedeli gli portino un po’ di cibo.” “Non può essere uno sciammans… Non vedete che sta seduto all’ombra?” “Ma deve aver fame… ha sbadigliato tre volte di seguito.” Così ognuno diceva la sua e poi si allontanava. Il “fakir“, quasi non ascoltasse, restava con lo sguardo fisso,  muovendo impercettibilmente la mano destra per fare scorrere, ad uno ad uno, i grani d’ambra del “sebah“. “Forse ha fame…” – ripeté sotto voce Ailù. Aveva visto accanto al “fakir” una scodella di legno, vuota. Era ormai prossimo il tramonto e vicino al mendicante silenzioso non restavano più che loro due.

Ramzi fece l’atto di andarsene, mentre Ailù, presa la sua bisaccia piena di datteri freschi, si curvò verso il “fakir” e versò i datteri nella sua scodella. “Ecco fratello, – disse, – È una misera offerta, ma non ho altro.” L’ uomo lo fissò in silenzio, come se non avesse compreso. Ramzi fece un gesto di impazienza. “Vogliamo andare? Lo abbiamo ammirato abbastanza.” “E tu, tu che sei ricco, non gli dai nulla?– chiese Ailù, – Fai anche tu un’offerta.” “Per contentarti gli darò mezza piastra” disse Ramzi ridendo. Gettò una piccola moneta nel grembo del mendicante. Ma non sentiva alcuna pietà per lui; donò la moneta solo per non essere da meno del suo povero compagno di viaggio. Ripresero il cammino lasciando il “fakir” alle sue meditazioni. Non avevano ancora percorso mezzo miglio di strada quando, da un sentiero solitario che portava fuori della città, videro venire verso di loro un uomo simile in tutto al “fakir” che avevano lasciato seduto presso le rovine dell’antica Moschea. Anzi, era proprio il “fakir“. Lo riconobbero all’istante dall’espressione dello sguardo acuto ed un po’ maligno, dal “sebah“, che ora portava avvolto intorno al braccio sinistro, dalla scodella di legno che sorreggeva con la mano destra. Nella scodella c’erano ancora alcuni datteri freschi. “È lui” – mormorò Ailù meravigliato. “È strano, – rispose Kamzi.- Come può venirci incontro da questa parte?” Conosceva bene le vie della città e sapeva che era impossibile girare dietro al cammino percorso e arrivare davanti a loro da quel sentiero che veniva dal deserto. “È strano“, ripeté. Il “fakir” intanto era giunto a pochi passi da loro. Si fermò, li guardò fisso e si lasciò cadere a terra, assumendo la stessa posizione che aveva quando si erano fermati davanti a lui poco prima. La scodella con i datteri riprese il suo posto accanto a lui e la sua mano ricominciò il movimento quasi impercettibile intorno al rosario d’ambra. Soltanto che ora la mano sinistra, invece di restare abbandonata in grembo, frugava lentamente fra le pieghe della sua veste, dentro il petto, come se volesse estrarre qualcosa dalle costole. I due giovani, come affascinati dal suo sguardo, non si muovevano, attendendo qualcosa, non sapevano che…In quel mentre la voce del mendicante ruppe il silenzio. Aveva una voce stranamente bassa e stanca, ma che si udiva benissimo, penetrando nel cervello in modo quasi molesto. “Ho voluto rivedervi per compensarvi di ciò che mi avete dato, – disse, – tenendo conto però dell’intenzione che ha accompagnato l’offerta e sebbene il tuo dono non mi serva affatto, comincerò ad offrire un dono a te.” Nel dire così, guardò Ramzi e con un moto rapido del braccio lanciò lentamente un dischetto leggero e luccicante che cadde e si perse tra la sabbia. Era certo la moneta dell’egiziano. Poi tornò a frugare tra la veste e ne levò fuori una bellissima scimitarra, dal manico cesellato e la lama lucente come la luna quando compare nel cielo ed è di due giorni appena. “Ecco,– disse, – una spada che taglia bene, molto bene, che può dare offesa e difesa se manovrata da un braccio valido, tenuta da una mano forte e guidata da un cervello deciso. La dono a te che hai, sotto la tua civile apparenza, un’anima avida di dominio e di potenza…” “Come lo sai?” – chiese Ramzi incredulo. “I miei occhi vedono molte cose che al tuo sguardo restano nascoste” – rispose il “fakir” – Vedo che nel tuo ego molti germi sono in fermento. Questa bella spada li svilupperà… Fanne I’uso che meglio credi.” E consegnò a Ramzi la bellissima spada. La lama mandò un bagliore azzurrino sotto la luce fioca della luna, che sorgeva dietro le dune già in ombra. “Non mi ringraziare! – si affrettò a dire, quasi sapesse già di non meritare riconoscenza. – Forse non ti servirà, come non serviva a me la tua moneta. Ed ora un piccolo dono a te, giovane figlio della foresta, a te che puoi e devi evolverti ed ascendere nella scala della Vita. Cerca di servirti con profitto del mio dono.” E consegnò ad Ailù un piccolo oggetto lucente, assai pesante per il suo volume. Era una specie di tubo schiacciato, con un piccolo segno da una parte. Ailù lo prese macchinalmente, lo guardò con curiosità e cominciò a ringraziare il “fakir“, quando si accorse che egli era sparito. Avrebbe creduto ad un’allucinazione, se non avesse veduto accanto a sé Ramzi, tutto assorto nell’ammirazione della bellissima spada dall’impugnatura preziosa e dalla lama brillante. “È sparito! – esclamò Ailù con rammarico. – E non lo abbiamo nemmeno ringraziato!” “È sparito! – ripetè Ramzi guardandosi attorno, senza grande stupore. – Certo era uno stregone, costui! L’ho compreso subito dal suo sguardo. Fortuna che non sono spariti anche i suoi doni! Questa scimitarra è straordinariamente bella e leggera. La lama è flessibile e forte… Una spada da conquistatore! Ed a te che cosa ha dato?” “Non lo so… è un oggetto nuovo per me, – disse Ailù mostrandolo al compagno. – Sai tu a che cosa serve?” Ramzi lo prese, lo guardò distrattamente e lo restituì all’altro dicendo: “Oh, questo non ti servirà proprio a nulla! Il “fakır” maligno ha voluto prendersi gioco di te… È un “kalam”, un calamaio, con la sua spugnetta inzuppata di nerofumo e gomma arabica e la cannuccia bella appuntita… Ogni dotto, ogni ulema possiede un simile calamaio d’argento ed é segno di scienza e dignità… Ma a te che servirà? Non sai scrivere!” “Non importa, – disse Ailù lusingato.- Il “fakir” non sapeva che non so scrivere, o forse, facendomi questo prezioso dono, mi esorta ad imparare. Conserverò dunque gelosamente il mio kalam.” “Ed io la mia spada! Deve tagliar bene!” E, camminando, Ramzi si divertì a tagliare, di colpo, le cime degli arbusti che incontrava sul cammino. Sembrava eccitato ed assente al tempo stesso. II suo braccio aveva movimenti agili, elastici, e si cimentava contro tutto ciò che gli si parava dinanzi. Ailù, seguendolo, riguardava il bel calamaio d’argento, ne ammirava i piccoli rosoni geometrici che lo adornavano, tirava fuori dal fodero la cannuccia liscia, sottile, appuntita ad un’estremità. Avrebbe voluto che fosse giorno, per tuffarla nella spugnetta umida di liquido nero e provare a tracciare dei segni, magari sopra la tela del suo mantello. “Attento! – gridò ad un tratto Ramzi strappandolo alla sua contemplazione. – Guarda come taglia la mia spada.” E levò il braccio. Davanti a loro, ai piedi di due alte palme, un palmizio bambino alzava il suo tenero ventaglio di foglie nuove, ondulando dolcemente al lieve vento della sera. “No! – gridò Ailù, cercando di fermare il braccio del compagno di viaggio. – Cosa vuoi fare!? È una palma da datteri!” Ma Ramzi aveva dato tutto lo slancio al suo braccio, la lama della spada aveva urtato il giovane tronco della palma e il fresco ventaglio di foglie era saltato via, di colpo. La giovane pianta sorgeva accanto agli alti fusti, decapitata. “Oh! Cosa mai hai fatto! – mormorò Ailù, con un brivido doloroso. – Una palma da datteri!” “Come taglia bene! – rispose Ramzı, senza badare al tono di rimprovero del compagno.- Come taglia bene!” ll giorno successivo si separarono.

Ormai qualche cosa era caduta tra di loro, che li divideva, li rendeva estranei l’uno all’altro. La strana eccitazione di Kamzi dava noia ad Ailù, che aveva un intimo desiderio di isolarsi, di restare solo, per provare a scrivere con la punta del suo “kalam“, di farsi insegnare la scrittura da qualche “fegbi” (maestro elementare) per poi istruirsi e apprendere le scienze sotto la guida di un vero “ulema”. Il possesso del calamaio prezioso, che forse era appartenuto ad un dotto, aveva aperto nel cervello del primitivo Ailù una sorgente di nuove aspirazioni: il desiderio di elevarsi, di essere qualcuno nel mondo. E ogni istante che passava gli sembrava perduto. Si separarono. Forse non si sarebbero veduti più e ci fu una latente tristezza nel loro saluto. Ma ognuno aveva da seguire la sua strada, nel vasto mondo, ed erano arrivati al punto nel quale le due strade divergevano. “La salute su te, amico mio.” “La salute su te.

Passarono alcuni anni. Nei dintorni della grande città cosmopolita sorgevano dei villaggi popolati di operosi “fellabin” (contadini), di carovanieri reduci dai lunghi viaggi attraverso il deserto, di berberi che formavano la colonia mobile dei paesi. E tutti, restando o viaggiando, parlavano di Ailù il Saggio, che aveva preso dimora in un’oasi presso un sacro marabutto e che, seduto all’ombra di un gruppo di palme, dava consigli a chi andava a visitarlo, leggeva i libri sacri e diffondeva la scienza. Una luce di bontà e di dolcezza aleggiava intorno all’uomo, che un tempo era stato un giovane ignorante e primitivo, e tutti volevano vederlo, parlargli ed ottenere un suo scritto, che chiudeva, nella breve frase, un insegnamento, un consiglio, una profezia. Era in virtù del dono che, in un giorno lontano, il “fakir” gli aveva fatto, -il “kalam” degno di un “ulema“, – che Ailù era divenuto un saggio, un dotto. Sempre, nelle pieghe della fascia che gli stringeva la vita, egli teneva il fedele “kalam“, e in ogni istante di solitudine si esercitava nella scrittura, tanto che il suo modo di disegnare le lettere era diventato noto in tutta la regione e perfino nei dintorni, tanto da meritargli tutti i nomi di lode. Tutti volevano possedere una sentenza scritta da Ailù-el-Fahmi, tutti donavano viveri ed offerte per i poveri che affluivano in pellegrinaggio fino al remoto marabutto dove il saggio abitava. Da quel marabutto irradiava una corrente di luce spirituale, una sorgente di parole buone, un’aura di bontà e di generosità da cui tutti si sentivano elevati. Ognuno, dopo aver  trascorso qualche ora in compagnia dell’asceta, si sentiva migliore ed i pellegrini accorrevano in massa, innalzando lodi all’intelligenza, alla saggezza, alla bontà di Ailù-el-Fahmi. Ma egli non voleva ascoltare lodi. Quando un nuovo proselito gli rivolgeva parole di ammirazione, Ailù gli mostrava il “kalam” e diceva: “Sono diventato quello che sono in virtù di questo modesto oggetto, che mi fu donato molti anni or sono in circostanze strane. Dall’istante che lo ebbi in mano mia, nacque in me il desiderio di istruirmi e mi esercitai a scrivere, prima sotto la guida di un paziente “feghi”, poi aiutandomi con la mia intelligenza. Si sviluppò in me il desiderio di sapere, di conoscere i misteri della Vita e della mente umana e, attraverso meditazioni ed investigazioni, leggendo i libri e tentando di svelare i miei pensieri, sono diventato quello che voi definite un Saggio. Ma senza questo “kalam”, io sarei simile ad un uomo qualunque, un buon cammelliere, un mercante, un mendicante, forse, poiché non avevo mestiere né ricchezze. Questo semplice oggetto, atto ad istruire nella scrittura, è stato la chiave del mio Destino.

E così passarono altri anni. Ailù aveva la barba bianca ed intorno a lui sorgeva una città sacra alla Fede ed alla Scienza. Era tanto venerato che era divenuta consuetudine che Egli “salvasse” i colpevoli con la sua protezione. Accogliendo coloro che avevano errato e, comprendendo anche I’errore, lui – che era così puro! – li costringeva al sincero pentimento, ponendo il colpevole di fronte alla sua stessa coscienza e facendo sì che lo stesso pentimento e il rimorso per il male fatto fossero la punizione. E intorno a lui c’erano sempre nuovi venuti che avevano bisogno delle sue parole, che agognavano redimersi soffrendo ed ispirarsi al suo esempio. E, dopo quasi trent’anni che il saggio Ailù aveva avuto in dono il prezioso “kalam“, un altro ospite fu accolto nell’oasi dove sorgeva il marabutto, proprio all’ora dolce del tramonto, quando Ailù-el-Fahmi stava per cominciare la meditazione della sera. Era questi un uomo quasi vecchio, dai lineamenti fini, ma dallo sguardo cupo, doloroso. Era ben vestito, ma con trascuratezza, come se, in mantello di panno e “seterie”, avesse dormito tra l’erba o sulla nuda terra. Domandó di Ailù il Sapiente, e non appena fu alla sua presenza, lo guardò fissamente, in silenzio. “Fratello, che cosa vuoi da me?” domandó il Saggio, sorpreso di quello sguardo intenso e di quel silenzio. Con voce cupa, quasi facesse uno sforzo su se stesso, il nuovo venuto rispose: “Vengo per consegnarti questo oggetto che ebbi in dono da un demone del male. Credo che tu la riconosca.” E porse al Saggio una scimitarra dal manico d’argento, finemente cesellato, che parve bruciare la mano che si era tesa per riceverla. “Tu – esclamó il Sapiente lasciando cadere la spada e alzandosi per abbracciare il nuovo ospite. – Tu, Ramzi!” “Sì, sono io, che vengo da te sospinto dai rimorsi e dal pentimento. Vengo da te perché tu seppellisca questa spada nefasta, poiché io non ho la forza di farlo. È per colpa di questa che sono diventato un assassino! Ti ricordi di quando quel misterioso “fakir” me la donò? Non appena l’ebbi in mano volli provare la forza della sua lama e mi sfogai contro le piante vive… Come tagliava bene! Ricordo che la sera stessa decapitai una palma da datteri… Una pianta sacra per il nomade del deserto… Tu ne inorridisti, lo ricordo, ma ormai ero posseduto dallo spirito del male, avevo bisogno di farmi largo con la forza che scaturiva da questa lama lucente. E per qualche tempo la provai contro gli arbusti, gli steli dei fiori, gli alberi giovani.. Un giorno, tra le canne verdi in riva ad un ramoscello, scorsi una gazzella che si dissetava… E mi slanciai su di essa con la mia spada… Tagliava bene, quella lama, e la gazzella cadde in un lago di sangue… Ne provai un’emozione terribile, ma oramai avevo cominciato e gli animali divennero la mia facile preda… Tagliare i rami verdi, dalla linfa invisibile, non mi dava più alcuna emozione.. Mi occorreva veder scorrere il sangue, quel liquido rosso che un tempo mi faceva rabbrividire, se lo vedevo casualmente scorrere da una ferita che non avevo prodotta… E a poco a poco mi cimentai contro gli animali più forti e feroci che non la mite gazzella, e sempre riportai vittoria… La lama tagliava bene… Tanto bene che divenni un cacciatore temuto e terribile; tanto che perfino le belve mi riconoscevano e al mio apparire fuggivano ululando… Quante belve, quanti animali ho ucciso! Una vera strage di esseri viventi… fiumi di sangue sono stati versati per colpa di questa spada! Ma io non ero del tutto soddisfatto di me e mi pareva di dover compiere qualche altra impresa… Ahimè, ché un giorno, per una futile ragione, mi adirai contro un uomo, un giovane come me, incontrato nella foresta… Le parole cattive scaldarono il mio sangue e gli risposi offendendolo. Egli fece per alzare la mano su di me… ma io alzai più presto il braccio armato della mia lucente spada e colpii… Il mio avversario cadde: avevo ucciso un mio simile! Così divenni un assassino. E non ebbi più freno. Dopo aver fatto scorrere il sangue innocente degli esseri inferiori, non provavo più soddisfazione a distruggere le piante. Dopo aver fatto scorrere sangue umano, non provai più soddisfazione ad uccidere animali! Continuai a compiere delitti.. e tutta una regione mi conosce per Ramzi-el-kettel (I’assassino). Tu solo, forse, non sai chi è l’autore di tanti omicidi, perché tu sei diventato un Saggio, un Sapiente, ed io vengo da te perché tu mi dia la forza per combattere i miei cattivi istinti. La mia ferocia ha bisogno della forza della tua virtù.” “La mia virtù, – rispose Ailù commosso, – è scaturita dal dono che il “fakir” mi fece la sera che a te regalò questa nefasta spada. Il desiderio di imparare, di disegnare con la mia penna i segni della scrittura, mi hanno condotto per le vie soleggiate della scienza, mentre la potenza brutale ha sospinto te per le vie tenebrose della colpa. Non è facile che l’uomo sappia vincere i suoi cattivi istinti e tu hai peccato contro la vita umana per colpa di questa spada che ti incitava al delitto. Non è tutta tua la colpa e il pentimento sincero ti farà perdonare le colpe commesse, se ne farai ammenda con il cuore sincero. Ma io voglio seppellire subito questa spada, come il cadavere della tua vita passata. Guai se restasse alla portata d’altre mani, se la vedessero altri occhi. La bellezza della sua impugnatura, la lucentezza della sua lama adescherebbero anime deboli, che si crederebbero forti in virtù della sua potenza distruttrice. Sotterriamola! La ruggine la intaccherà, la renderà ferro inservibile… E voglia Allah che avvenga così, un giorno, per tutte le armi che l’uomo crea per l’offesa!”

Leda Rafanelli, da “I due doni e altre novelle orientali

 

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