Riflessioni

Quando la politica perde la lingua (e spesso anche la faccia)

15.07.2020

Vittorio Sgarbi: “St***” Tr***” (Il resto lo lascio alla vostra immaginazione)

Matteo Salvini: “Fate schifo!” (All’Anpi, ma è solo uno dei tanti insulti del suo vasto repertorio)

Vittorio Feltri: “Meridionali inferiori” (Anche nel suo caso, “non solum, sed etiam“)

 

Devo continuare? Forse è meglio di no.

Parliamo di cose e, soprattutto, di persone serie.

Aristotele, nel 329 a. C. circa, dedica tre libri alla retorica, definendola come “la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto” e ne individua i tre fondamenti nel “logos“, nel “pathos” e nell'”ethos“.

Partiamo dal “logos“, un termine che viene comunemente tradotto sia come “pensiero“, che come “linguaggio“, ma che in realtà ha un cuore polisemico. Pier Chantraine, nel suo “Dizionario etimologico della lingua greca“, sostiene che la sua radice sia “leg“, che significa “raccogliere, mettere insieme“: come tale compare infatti nei poemi omerici, in cui ad essere radunati possono essere vecchi oppure “giovani coraggiosi“, ma anche armi o pietre. Non c’è quindi da stupirsi che, già in Omero, la radice “leg” indichi anche l’atto di mettere insieme delle parole per raccontare un po’ di tutto: fatti straordinari o anche preoccupazioni quotidiane. Che poi si radunino parole per mentire o per dire la verità, per raccontare, per descrivere, oppure per elaborare concetti; che esista un intimo rapporto tra “logos” e “dike” (giustizia), sono tutte questioni che matureranno nel tempo (in quello antico, ovviamente, oggi il “leg“, inteso più che altro come raffazzonare, prevale su tutto, anche nei…prefissi).

Se Parmenide sembra sia stato il primo ad attribuire soltanto al “logos” il potere di comprendere e di dire la verità, poco più tardi i Sofisti daranno un taglio drastico a questo rapporto. “Non si può dire il falso” – affermava perentoriamente Protagora, proprio perché la verità non esiste. Soltanto “l’uomo è la misura delle cose“. E poi il linguaggio è una “techne“, una tecnica e quindi uno strumento, estraneo al problema del vero e del falso, ma pur sempre di importanza imprescindibile. “La parola – diceva Giorgia – è un gran dominatore che, con un corpo piccolissimo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti a calmare la paura, a eliminare il dolore a suscitare la gioia e a ispirare la pietà“. E, soprattutto, è importantissima per chi fa politica in una società democratica, in cui bisogna parlare in pubblico, convincere un’assemblea, far prevalere il proprio punto di vista e saper controbattere le opinioni altrui (e naturalmente anche le critiche).

Nella “Retorica” di Aristotele, il “logos” è fondamentale per ogni discorso, che, per risultare efficace e valido, deve “poter dimostrare qualcosa“: “la persuasione si ottiene tramite i discorsi quando mostriamo il vero o ciò che appare tale attraverso i mezzi di persuasione appropriati in ogni caso“. In sostanza, un discorso deve risultare chiaro, attendibile; deve poter offrire prove e dimostrazioni di quanto si afferma e la sua logica deve risultare talmente stringente e serrata, da fugare ogni dubbio dell’interlocutore…

Più o meno come gli insulti – pardon! – volevo dire i discorsi dei nostri politici, esaustivi e limpidi nella loro…più o meno succosa “brevità“.

 

Passiamo al “pathos“. Anche questo termine si presenta come una sorta di Giano bifronte: significa  “sofferenza“, ma anche “emozione“, stringendo in un unico abbraccio quelle che Nietzsche vedeva come le due anime della cultura greca: la bellezza rasserenante di Apollo e la travolgente passionalità di Dioniso. Entrambe capaci di emozionare. Così il discorso diventa come la statua della Menade di Skopas, colta nell’impeto dell’estasi dionisiaca, quasi maestra del “pathos” come il grande scultore di Paro. Le parole devono saper catturare l’anima, coinvolgerla, trascinarla…

A qualcuno invece accade di essere trascinato…fuori dell’aula parlamentare. Avrà forse interpretato male il concetto di “pathos“? Eppure, in quanto critico d’arte, dovrebbe intendersene…

 

E, infine, ecco l'”ethos“, che è alla radice del termine “etica“. E qui le sorprese si sprecano e anche i significati: oltre a quello di “carattere” (inteso come segno distintivo) e di “comportamento sociale“, compare anche il significato di “rifugio“, “dimora” e addirittura di “stalla” e di “pascolo“, questi ultimi nell'”Iliade” omerica.

Ma perché proprio il “pathos“? Perché se chi parla non è una persona affidabile, allora a poco servono perfino la logica e la capacità di emozionare. Per rendere credibile un discorso occorrono due ingredienti: l’affidabilità di chi lo pronuncia e la credibilità delle sue parole, due qualità intimamente connesse.

E qui casca l’asino!

L'”ethos” è, infatti, secondo Aristotele, il vero “punctum dolens” della questione, sul quale cadono perfino i retori più capaci. Una cosa è riuscire a tenere un discorso ben articolato e magari anche coinvolgente; ben altra cosa è invece essere una persona autentica, sincera, una di quelle rare persone capaci di ispirare fiducia poiché le loro parole e il loro operato profumano di credibilità.

E qui mi fermo, lasciando “ai posteri l’ardua sentenza” circa il linguaggio (o la lingua?) dei nostri politici, soprattutto in merito all'”ethos“.

Personalmente sono del parere che in un solo punto rispecchino i dettami di Aristotele: “fare il peggio sembra la migliore decisione” (“Retorica“, II, 24).

Maddalena Vaiani

Auguste Rodin, “Il pensatore“, 1880 – 1902

 

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