Linguaggi

La poesia degli animali

08.11.2021

“Perché amo gli animali? Perché io sono uno di loro.
Perché io sono la cifra indecifrabile dell’erba,
il panico del cervo che scappa,
sono il tuo oceano grande e sono il più piccolo degli insetti.
E conosco tutte le tue creature: sono perfette in questo amore che corre sulla terra per arrivare a te.”

Alda Merini

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La giraffa
La giraffa ha il cuore lontano dai pensieri,
si è innamorata ieri, ma ancora non lo sa”
Stefano Benni
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Immagine tratta dal web
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La balena

“La balena piangeva da far pena
cantava ad un gabbiano
l’amore è strano
e passa in un baleno.
“Lo incontrai
lo avevo cercato
per mille miglia
di oceano gelato
l’ho guardato
poche occhiate
e sono state ondate
(voi non sapete
cosa può capitare
se due balene si lasciano andare).
Ma poi sparì
forse arpionato
ucciso inscatolato
o forse è lui
che se ne è andato
si era stancato”
La balena piangeva da far pena
cantava ad un gabbiano
l’amore è strano
e passa in un baleno.
E quando forte il naso soffiava
tutte le volte una nave affondava.
Un cuore grande
pieno d’amore
quando si spezza
fa più rumore.”

Stefano Benni, “La balena innamorata”

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Lucciole
“Presto tutto il giardino formicolerà di lucciole
piccoli lampi di magnesio per fare la fotografia
ai volti ipnotici e medianici dei fiori.
È notte: fa fresco: cadono le prime gocce di stelle:
si rientra.”

Corrado Govoni, “Il giardino”

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Le colombe e i gatti
“Alla sera, sui tegoli rossi,
a due a due come suore,
fanno la loro scalza passeggiata
le colombe, soffuse di pallore;
mentre sopra i leggii degli abbaini
i gatti scorticano l’acrobatica
musica delle stelle
con i loro epilettici violini”

Corrado Govoni, “I tetti” da “Poesie”

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L’asino
“Non ci sono state vittime
Nessuno lo contò
il piccolo asino fotografato
sotto il titolo.
Un asino bianco
dalla vita legata a rottami
e angurie,
certo se ne stette fermo e tranquillo quando gli fissarono al corpo
la sella di dinamite
poi gli assestarono un colpetto sul didietro
e lo spronarono
con un yalla itla
verso il nemico –
soltanto che allora
in mezzo alla strada
scorse dell’erba verdognola
affiorare da in mezzo alle pietre
a causa della quale deviò dalla trama
per brucare,
appartenente solo a se stesso
nel silenzio ticchettante.
Non è scritto chi sparò:
quanti temevano tornasse indietro
o coloro che rifiutavano di ricevere il regalo
ma quando salì al cielo in un turbine
fu innalzato al grado di messia dell’esplosione
e settantadue asine immacolate
gli leccarono le ferite.”

Agi Mishol, poetessa israeliana

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Immagine presa dal web

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L’asino
“O sant’asinità, sant’ignoranza,
Santa stolticia e pia divozione,
Qual sola puoi far l’anime sì buone,
Ch’uman ingegno e studio non l’avanza;
Non gionge faticosa vigilanza
D’arte qualunque sia, o ‘nvenzione,
Né de sofossi contemplazione
Al ciel dove t’edifichi la stanza.
Che vi val, curiosi, il studiare,
Voler saper quel che fa la natura,
Se gli astri son pur terra, fuoco e mare?
La santa asinità di ciò non cura;
Ma con man gionte e ‘n ginocchion vuol stare,
Aspettando da Dio la sua ventura.
Nessuna cosa dura,
Eccetto il frutto de l’eterna requie,
La qual ne done Dio dopo l’essequie.”

Giordano Bruno, “Sonetto in lode dell’asino”, in “Cabala del cavallo pegaseo”

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Un prato, un asinello

 

“Un prato, un asinello
È un sogno che coltivo da tempo
immemorabile: prendermi
un asinello e piazzarlo sopra
il prato. Giusto per omaggiarlo:
sgravato da ogni impegno,
privato di ogni soma, dolcissimo
asinello da sempre maltrattato.
Dell’asino mi incantano la mitezza
e la pazienza, l’occhio umido
e dolce illuminato a tratti
da lampi di furbizia
l’endurance millenaria
travestita da mestizia.
Un giorno ad Addis Abeba
ce n’erano a decine che privi
di padrone correvano
da soli con fare indaffarato.
Svolgevano – mi dissero – la funzione
del postino: mai un pacco
andato perso, tutto recapitato.
Io non avevo dubbi: ché l’asino
è preciso, assennato,
intelligente; e svolge sempre
al meglio l’impegno che l’attende.
Per questo nei miei sogni penso
a un asinello che a nome della specie
sia premiato: non dovrà fare niente,
se ne starà tranquillo a rimirare
il mondo sopra un immenso prato.”
Franco Marcoaldi
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Leggenda dell’asino cantante
“Notte santa, santa notte
Gli angeli in cielo cantano a frotte
Notte bella, notte nera
Gli uomini in terra cantano a schiera
Notte grande, notte d’oro
Visto che tutti cantano in coro
L’asinello dai grandi occhi bui
Apre la bocca e canta anche lui
“Vuoi star zitto, disgraziato!”
Gli sussurra la Madonna
Ma il Bambino oramai s’è svegliato
Carezza l’asino e dice alla donna
“Troppi somari son fuori dal coro
Io son venuto a cantare con loro”
Santa notte, notte santa
Il Presepio tutto canta
Cori di angeli, stelle di gelo
Ragli di asini salgono in cielo
BrunoTognolini, pubblicata sul n. 8 del mensile “Giulio Coniglio, dicembre 2006
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Le cicale e il grido del cielo
“Sei la colonna sonora dell’estate
però non ti ho mai vista in faccia.
Pratichi il mimetismo e se qualcuno
si avvicina al tuo ricovero
taci di colpo, per sottrargli traccia.
Il tuo rumore è rauco, lento,
cadenzato; quasi raspassi il sole
in un giorno ideale da bucato.
Ché appena arriva l’ombra
il tuo tamburo ammutolisce,
le lamine vibranti giacciono inerti:
il paesaggio non respira più,
grido del cielo che svanisce.
Quella sgradita sinfonia
che sgorgava dalla terra screpolata
martellando il cervello
nell’ora più accaldata,
ora mi manca. Il tuo silenzio
pare un avvertimento:
l’ombra ha trionfato sulla luce
e si riaffaccia lo sgomento.”
Franco Marcoaldi, “Le cicale e il grido del cielo”, da “Animali in versi”, 2016
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Immagine dal web
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Monologo di un cane coinvolto nella storia
“Ci sono cani e cani. Io ero un cane eletto.
Con un buon pedigree e sangue di lupo nelle vene.
Abitavo su un’altura, inalando profumi di vedute
su prati soleggiati, abeti bagnati dalla pioggia
e zolle di terra tra la neve.
Avevo una bella casa e servitù.
Ero nutrito, lavato, spazzolato,
condotto a fare belle passeggiate.
Ma, con rispetto, senza confidenze.
Tutti sapevano bene chi ero.
Ogni bastardo rognoso è capace di avercelo un padrone.
Attenti però – lungi dai paragoni.
Il mio padrone era unico nel suo genere.
Una muta imponente lo seguiva a ogni passo
fissandolo con ammirazione timorosa.
Per me c’erano sorrisetti
di malcelata invidia.
Perché solo io avevo diritto
di accoglierlo con salti veloci,
solo io – di salutarlo tirandogli i calzoni.
Solo a me era permesso,
con la testa sulle sue ginocchia,
accedere a carezze e a tirate di orecchie.
Solo io con lui potevo far finta di dormire,
e allora si chinava sussurrandomi qualcosa.
Con gli altri si arrabbiava spesso, ad alta voce.
Ringhiava, latrava contro di loro,
correva da una parete all’altra.
Penso che solo a me volesse bene,
e a nessun altro, mai.
Avevo anche doveri: aspettare, fidarmi.
Perché compariva per poco e spariva per molto.
non so cosa lo trattenesse lì, nelle valli.
Intuivo però che si trattava di faccende pressanti,
perlomeno pressanti
quanto per me lottare con i gatti
e tutto ciò che si muove inutilmente.
C’è destino e destino. Il mio mutò di colpo.
Giunse una primavera,
e lui non era accanto a me.
In casa si scatenò uno strano andirivieni.
Bauli, valigie, cofani cacciati nelle auto.
Le ruote sgommando scendevano giù in basso
e si zittivano dietro la curva.
Sulla terrazza bruciavano vecchiumi, stracci,
casacche gialle, fasce con emblemi neri
e molti, moltissimi cartoni fatti a pezzi
da cui cadevano fuori bandierine.
Gironzolavo in quel caos
più stupito che irato.
Sentivo sul pelo sguardi sgradevoli.
Quasi io fossi un cane abbandonato,
un randagio molesto
che già dalle scale si scaccia con la scopa.
Uno mi strappò il collare borchiato d’argento.
Uno mi diede un calcio alla ciotola da giorni vuota.
E poi l’ultimo, prima di partire,
si sporse dalla cabina di guida
e mi sparò due volte.
Neanche capace di colpire nel segno,
così la mia morte fu lenta e dolorosa
nel ronzio di mosche spavalde.
Io, il cane del mio padrone.
Wislawa Szymborska, “Monologo di un cane coinvolto nella storia”
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L’ape
“L’ape sbatte nell’intransvolabile
vista di un giardino in fiore
nel verde – perché mai – pietrificato
nel cielo – chissà come – schiacciato
E noi che guardiamo siamo dèi
noi sappiamo che sbatte sul vetro
e possiamo compiere un miracolo
perché sui vetri abbiamo potere…”
Wislawa Szymborska, “L’ape e il vetro”
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Rondine

 

“Si amarono tra i noccioli
sotto soli di rugiada,
raccolsero nei capelli,
foglie e terra bagnata.
Cuore della rondine,
abbi pietà di loro.
In ginocchio sulla riva,
pettinarono le foglie,
e i pesci si accostavano
lucenti nelle scaglie.
Cuore della rondine,
abbi pietà di loro.
I riflessi degli alberi _
fumo sull’onda minuta.
Rondine, fa che da loro mai
sia dimenticato.
Rondine, spina di nube,
ancora dell’aria,
Icaro perfezionato,
frac asceso in cielo,
rondine calligrafa,
lancetta senza minuti,
primo gotico pennuto,
strabismo nell’alto dei cieli,
rondine, silenzio acuto,
lutto festante,
aureola degli amanti,
abbi pietà di loro.”

Wislawa Szymborska, “Impresso nella memoria”

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I pesci

 

“A guado,
vanno per nera giada.
dei mitili blu-corvo, uno continua
a rasettare i cumuli di cenere;
e si apre e si chiude come fosse
un
ventaglio ferito.
I cirripedi che incrostano il fianco
dell’onda non possono nascondersi
laggiù gli strali sommersi del
sole,
franti come vetro
folato, si muovono con la rapidità di riflettori
giù nei crepacci,
dentro e fuori, illuminando
il
mare turchese
di corpi. L’ACQUA sospinge
un cuneo di ferro entro lo spigolo ferrigno
dello scoglio; sopra il quale le stelle,
rosei
chicchi di riso, meduse
imbrattate d’inchiostro, granchi simili a verdi
gigli, e velenosi funghi
sottomarini scivolano dondolando uno sull’altro.
TUTTI
i segni
esterni dell’oltraggio sono presenti in questo
temerario edificio-
tutti gli aspetti fisici dell’accidente-mancanza
di cornice, solchi di dinamite, bruciature
e colpi d’ascia, queste cose spiccano
sulla sua superficie; la parete del baratro
è morta
RIPETUTE
prove hanno dimostrato che lo scoglio può vivere
di ciò che non potrà resuscitare
la sua giovinezza.
E DENTRO AD ESSO SI FA VECCHIO IL MARE.”

 

Marianne Moore, “I pesci”

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I pesci

 

“Ha due volti la coscienza:
è luce, oppure pazienza.
è della prima far chiaro
appena nel fondo del mare;
dell’altra, far penitenza
con canna o rete e aspettare
il pesce, da pescatore.
Di’ tu qual è la migliore.
La coscienza del veggente
che guarda nel fondo acquario
pesci vivi,
sempre in fuga,
che non è dato pescare,
o quest’ingrata fatica
di gettare sull’arena,
ma morti, i pesci del mare?”

Antonio Machado

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La lumaca

 

“Se la concentrazione è il primo dono dello stile,
tu la possiedi. La contrattilità è una virtù,
così come modestia è una virtù.
Non già l’acquisizione di una cosa qualsiasi
capace di adornare,
o la qualità incidentale che per avventura
si accompagni a qualcosa di ben detto,
non questo apprezziamo nello stile,
ma il principio nascosto:
nell’assenza di piedi, un metodo di conclusioni;
una conoscenza di princìpi,
nel curioso fenomeno della tua antenna occipitale”.
Dopo, ti senti un genio. Ti senti felice.”

 

Marianne Moore, “A una lumaca”

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Leopardi e la lumaca

“Una lumaca striscia per la terrazza,
un viscidume che va sul ventre, felicemente
sfuggita all’agitazione del giardino. Tenera,
duttile, cornea, aspira il suolo, diretta da un magnete
sotto i marmetti. A testa alta
questo sacro animale con dignità offensiva
taglia la strada alle formiche ove fervono i traffici
e si scambiano carichi da confonder
la vista. Sorella di Sisifo,
lei lavora in pianura, naturale nemica
della ripetizione.
Il centro è raggiunto, in gran silenzio quasi
non si dovesse dar scosse alla casa del mondo
che è piena di crepe invisibili.
Ora penso al tempo, non alla felicità,
perché soltanto come infelici siamo immortali.
Ma lo capiamo che l’ordine funziona
solo con questa lumaca che ora ha fatto il giro
del quadrante bianco del suo orologio?
A che pro saremmo nati, dice Leopardi,
se non per riconoscere come saremmo felici
a non esser nati?”

Michael Krüger, “Leopardi e la lumaca”

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Gabbiani

 

“Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.”

 

Vincenzo Cardarelli, “Gabbiani”

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Il topo

 

“Povera bestiolina liscia liscia,
che ti rannicchi tutta paurosa,
non scappar via da me con una fretta
così precipitosa!
Non voglio darti addosso né ammazzarti
con la paletta.
Mi duole assai che l’Uomo abbia spezzato
ogni legame che Natura fa,
sicché di lui tu pensi tanto male
che da me scappi via,
benché pur nato dalla terra io sia
e, come te, mortale.
Lo so che rubi a volte qualche briciola.
Povera bestiolina, devi vivere!
Se una spiga caduta ti sei presa,
non è poi gran pretesa.
E all’altre spighe porterà fortuna
forse quell’una.
La tua casa minuscola è in rovina,
le sue mura-gingilli il vento sperde.
E più non v’è, per fabbricarne un’altra,
un po’ di musco verde.
Ché s’avventano rigidi e mordenti
già dell’inverno i venti.
Avevi visto i campi vuoti e nudi
e sentivi venire l’uggioso inverno,
e comodo speravi d’abitare
qui nell’interno.
Ma trac! passando, il vomere spietato
il nido ha devastato.
Quel mucchiettino di stoppie e di foglie
ti era costato un lungo rosicare.
Ora sei scacciato, e dopo tanta pena
non avrai più la tana,
quando la neve prenda a gocciolare
con la gelida brina.
Ma tu non sei, topo terragno, solo
a dimostrar che previdenza è invano.
Il più bel piano, sia topesco o umano,
spesso a rifascio va
e non ci dà quella promessa gioia,
ma sol dolore e noia.
Pur te, a confronto mio, felice, o topo!
solo i mali ti affliggono presenti,
mentre quest’occhio mio si volta indietro
ai ricordi dolenti.
E se guardo in avanti può, tremando,
indovinare il male che verrà dopo.”

Robert Burns, “A un topo, buttandogli all’aria il nido con l’aratro”, 1785

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Il pettirosso

“Il pettirosso prova le sue ali.
Non conosce la via
ma si mette in viaggio
verso una primavera
di cui ha udito parlare.”

Emily Dickinson

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  Raffaello Sanzio, “Madonna del cardellino”, 1506 (dettaglio)

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Il passero

“Mi hanno raccontato che ieri hanno tagliato l’albero
davanti a casa tua
per mettere al suo posto
un palo del telefono.
Credo che avrebbero potuto installare i fili
sui rami forti della tua acacia,
ma pare non volessero rischiare
che qualcuno, alzando la cornetta,
sentisse la voce di un passero triste
che si informava su un fiore che è sparito da giorni:
aveva i petali violetti, il calice colore della luna
adorno di un cappello dorato di polline.
Offresi ricompensa. Firmato: il passero.”

Jairo Anìbal Nino, “Mi hanno raccontato”, da “Mi fa male la pancia del cuore: poesie d’amore dai banchi di scuola”

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I passeri

“Sul davanzale i passeri
piluccano uva passa,
È come se sapessero
quanto la vita passa.”

Toti Scialoja, da “Versi del senso perso”

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L’uccello
“Alla povera mia fragilità
tu guardi senza dire una parola.
Tu sei di marmo, ma io canto,
tu, statua, ma io, volo.
So bene che una dolce primavera
agli occhi dell’Eterno, è un niente.
Ma sono un uccello, non te la prendere
se è leggera la legge che mi governa.”
Marina Cvetaeva, da “Scusate l’amore”
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Ad un ragno

“Sei munito d’interstizi,
reggi l’esatta ragnatela
come dio scontroso e scaltro;
la tua fortezza è l’angolo,
lo spigolo di luce in controluce.
Non temi il taglio d’ali,
la fibrillante contromossa:
il tuo regno è trasparente,
in clima con l’agguato.
Sei un guizzo in poesia:
di ritmo, d’enigma, di fame.
Il tuo amplesso coincide con la morte.”

Angelo Scandurra

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Orso

“Ho visto non visto
nascosto nel fresco
nel folto del bosco
sbruffone malbrusco
snasante i germogli
gnuffando fungaglie
frusciandosi foglie
leccando leccando
scolandosi il miele
ombroso il testone
il grugno brontoso
muscoso il gobbone
l’unghione frugoso
frullona pelliccia
spellando corteccia
pescando il salmone
snaffando la trota
con zampa corsara
leccandosi il muso
con lingua golosa
fischiando sbadigli
per troppo digiuno
ho visto non visto
il gran orso bruno.”

Roberto Piumini, da “Dall’ape alla zebra”

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La tartaruga
“Sul mio guscio
porto cesellato
l’universo
mi pesa così tanto
a stento posso fare
qualche passettino
e nascondo la testa
quando penso
che non ho le chiavi
per aprirlo
e fuggire lontano
e ridere nuda
in mezzo all’erba.”
Claribel Alegría, da “Voci”
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Renato Guttuso, “Tartaruga”, 1981
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La farfalla

“Gialla
con macchioline nere.
Sembrava pensierosa
sulla palma della mia mano,
le ho parlato
e la sua risposta è stata
più grande del silenzio.
I miei occhi distillavano
amore selvaggio.
Il vento la strappò
dalla mia mano.
Vola, vola, vola:
le gridavo.
E la farfalla andò cadendo
a poco a poco
fino a baciare la terra.”

Humberto Ak’abal (poeta guatemalteco che ha scritto le sue poesie  in kʼicheʼ, antica lingua mesoamericana risalente ai Maya), “Farfalla”

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L’albatros

“Io ero un uccello
dal bianco ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci sopra,
non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto ora per te
le mie canzoni d’amore.”

Alda Merini, “L’albatros”

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Il pavone
“Quando questo uccello fa la ruota,
con le penne che strascicano a terra,
sembra più bello ancora,
ma si scopre il culo.”
Guillaume Apolinnaire, da “Le Bestiaire”, 1911
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Il gufo
“Il mio povero cuore è un gufo
Che s’inchioda, si schioda, si rinchioda.
Sangue ed ardore non ha quasi più.
Tutti quelli che mi amano, li lodo”
Guillaume Apollinaire, da “Bestiario o il corteggio d’Orfeo”, 1911
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Le oche selvatiche
“Non devi essere buono.
Non devi trascinarti ginocchioni,
pentito, per cento miglia attraverso il deserto.
Devi soltanto permettere a quel mite animale, al tuo corpo, di amare ciò che ama.
Parlami della tua disperazione, io ti racconterò la mia.
Intanto, il mondo va avanti.
Intanto, il sole e gli splendenti sassolini della pioggia
attraversano i paesaggi,
passano sopra le praterie e gli alberi dalle profonde radici,
sopra le montagne e i fiumi.
Intanto, le oche selvatiche, alte nel limpido azzurro,
fanno nuovamente ritorno a casa.
Chiunque tu sia, per quanto tu possa essere solo,
il mondo si offre alla tua immaginazione,
ti manda il suo richiamo come le oche selvatiche, aspro ed eccitante:
annuncia incessantemente la tua appartenenza
alla famiglia delle cose.”
Mary Oliver, da “Lavoro dei sogni”, 1986
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Casida de las palomas oscuras
“Tra i rami dell’alloro
vidi due colombe oscure.
Una era il sole,
l’altra la luna.
“Commarelle”, gli dissi,
“dov’è la mia sepoltura ?”
“Nella mia coda”, disse il sole.
“Nella mia gola”, disse la luna.
E io che stavo camminando
con la terra alla cintura
vidi due aquile di neve
e una ragazza nuda.
Una era l’altra
e la ragazza era nessuna.
“Aquilette”, gli dissi,
“dov’è la mia sepoltura ?”
“Nella mia coda”, disse il sole.
“Nella mia gola”, disse la luna.
Tra i rami dell’alloro
vidi due colombe nude.
Una era l’altra
e le due erano nessuna.”
Federico Garcia Lorca, “Casida de las palomas oscuras”, 1934
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Se equivocó la paloma
“Si sbagliò la colomba.
Si sbagliava.
Per andare al nord fuggì al sud.
Credette che il grano fosse acqua.
Si sbagliava.
Credette che il mare fosse il cielo;
e la notte, la mattina.
Si sbagliava.
Credette che le stelle fossero rugiada;
e il calore neve.
Si sbagliava.
Credette che la tua gonna fosse la tua blusa
e il tuo cuore la sua casa.
Si sbagliava.
(Lei si addormentò sulla spiaggia.
Tu, sulla cima di un ramo)”
Rafael Alberti, “Se equivocó la paloma”
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La miglior cosa da fare stamattina
“La miglior cosa da fare stamattina
per sollevare il mondo e la mia specie
è di stare sul gradino al sole
con la gatta in braccio a far le fusa.
Sparpagliare le fusa
per i campi la valle
la collina, fino alle cime alle costellazioni
ai mondi più lontani. Fare le fusa
con lei – la mia sovrana.
Imparare quel mantra che contiene
l’antica vibrazione musicale
forse la prima, quando dal buio immoto
per traboccante felicità
un gettito innescò la creazione.”
Mariangela Gualtieri; “La miglior cosa da fare stamattina”
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Piccolo zoo
“Non svegliate le povere marmotte
Stanche di tante lotte
Chiuse in fondo alle grotte
Nipoti della notte”
“Dromedario meditabondo
Tanto pigro d’essere al mondo
Spende tutto con occhio profondo
Antiquario dromedario”
“E’ molto triste il destino dell’orso
Tutti gli tirano ghiande sul dorso
Lui morde l’aria con mezzo morso
Quattro zampe un lungo percorso
Quattro pensieri un lungo discorso”
Franco Fortini, da “Piccolo zoo”
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E’ miele, tesoro!
“Abbiamo ucciso tutte le Api.
Adesso – visto che siamo i meglio sulla terra
allo stesso momento una volta al mese
stiamo tutti all’aperto con la lingua fuori
a leccare una goccia di pioggia acida
e ci immaginiamo che sia miele.”
Serena Piccoli
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Farsi consegnare da una donna la parola amore riparata
“Farsi consegnare da una donna la parola
amore riparata.
Non dimenticarla accesa
non guardarla fissa non farla fulminare.
Ogni quattro anni un controllo generale.
Se si rompe ancora contattare un cane.”
Andrea Bajani, da “Promemoria”, 2017
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Buongiorno, cani, ciao
“Buongiorno, cani, ciao
cagnolini cagnoloni cagnazzi
misterioso dono della natura
a noi carogne. Perché?
Incantevoli compagni di viaggio
che ci fissate negli occhi
con esagerata devozione.
Belli come boschi come il vento
girano su e giù per la casa
come fiumi come rupi
come nuvole innamorate.
Belli quando ronfate
fate bave spazzate immondizie.
Egoisti, sporchi, noiosi
rompiscatole, puzzolenti, ingordi,
sudicioni, petulanti, tangheri,
Dio vi benedica.”
Dino Buzzati, da “Bestiario”, 2015
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L’enigma del cane
“Il problema non è tanto
che io parlo e lui non mi capisce.
Semmai il contrario: il vero enigma
è il cane, che tutto sa di me
e mai ne riferisce.”
Franco Marcoaldi, da “Animali in versi”
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Colibrì
“Fai conto che io dica estate,
scriva la parola “colibrì”,
la metta in una busta,
la porti giù per la discesa
fino alla buca. Quando tu aprirai
la lettera, ti verranno in mente
quei giorni e quanto,
ma proprio tanto, ti amo”
Raymond Carver, da “Orientarsi con le stelle” 2013
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Foto di Arianna Arcangeli
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L’uccellino del freddo
I
Viene il freddo. Giri per dirlo
tu, sgricciolo, intorno le siepi;
e sentire fai nel tuo zirlo
lo strido di gelo che crepi.
Il tuo trillo sembra la brina
che sgrigiola, il vetro che incrina…
trr trr trr terit tirit…
II
Viene il verno. Nella tua voce
c’è il verno tutt’arido e tecco.
Tu somigli un guscio di noce,
che ruzzola con rumor secco.
T’ha insegnato il breve tuo trillo
con l’elitre tremule il grillo…
trr trr trr terit tirit…
III
Nel tuo verso suona scrio scrio,
con piccoli crepiti e stiocchi,
il segreto scricchiolettio
di quella catasta di ciocchi
Uno scricchiolettio ti parve
d’udirvi cercando le larve…
trr trr trr terit tirit…
IV
Tutto, intorno, screpola rotto.
Tu frulli ad un tetto, ad un vetro.
Così rompere odi lì sotto,
così screpolare lì dietro.
Oh! lì dentro vedi una vecchia
che fiacca la stipa e la grecchia…
trr trr trr terit tirit…
V
Vedi il lume, vedi la vampa.
Tu frulli dal vetro alla fratta.
Ecco un tizzo soffia, una stiampa
già croscia, una scorza già scatta.
Ecco nella grigia casetta
l’allegra fiammata scoppietta…
trr trr trr terit tirit…
VI
Fuori, in terra, frusciano foglie
cadute. Nell’Alpe lontana
ce n’è un mucchio grande che accoglie
la verde tua palla di lana.
Nido verde tra foglie morte,
che fanno, ad un soffio più forte…
trr trr trr terit tirit…
Giovanni Pascoli, da “Canti di Castelvecchio”, 1907
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Pietro da Cortona, “L’Allegoria della Divina Provvidenza e del Potere”, affresco sul soffitto del salone di Palazzo Barberini a Roma
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Le api
“I miei desideri sono api:
scavano cinture d’oro
fanno piovere
i loro favi, volano, sciamano,
ronzano, riempiono il sentiero,
strappano il velo della nebbia
ricamato e trasparente
ovunque portano il sole.”
Misakh Metzarents (1886-1908), poeta armeno
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Gli insetti scheggiano l’aria. Tenaci
“Gli insetti scheggiano l’aria. Tenaci
le mandibole fabbricano montagne di silenzio.
Mordono, riescono a consumare le foglie che schioccano.
È possibile palpare ciò che nessuno può udire.
Nei loro occhi metallici passa la polvere delle città scomparse.
Dice lo scarabeo: “tutto il silenzio è straniero”.
La formica scrive: “aroma del mistero”.
Pensa la verde iguana: “il silenzio esiste solamente
per i morti, però loro non possono ascoltarlo”.
Il bambù intuisce che quel silenzio è un dio che canta.
Il non detto è un vento che lo scuote tutto.
Dallo scheletro della fronda, cade una cenere assordante.”
Jorge Boccanera, da “Palma reale”, 2008
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“Insetti”, particolare della mostra presso la Galleria Casa Dugnani, Robecco sul Naviglio, 2013
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Aquila e civetta
“Che sollievo per lo spirito, la verità; ma non appena la si è intravista, che tormento.
La verità è senza condivisione.
Fin dall’origine, è già suddivisa.
Resta da legittimare la suddivisione.
«Quella che tu chiami Verità – diceva – è verità a brandelli.
A ciascuno il suo.
Strappato al Tutto, questo misero brandello di verità non è più altro che parola di ferita.
Dopo aver vissuto per essa, ne moriremo».
«Ciò che ho ricevuto in eredità – aveva scritto – è la speranza di un libro.
Lascito avvelenato. Da allora, con ognuna delle mie opere, svanisce un po’ di questa speranza».
E aveva aggiunto: «Il cammino, pazientemente tracciato dalla scrittura, non è che la lenta agonia di una speranza mantenuta invano?».
Scrivere è un atto di silenzio, atto che per intero si concede alla lettura.
Più che al senso, devi prestare attenzione al silenzio che ha modellato la parola.
Così imparerai di più su di esso e su di te, essendo, l’uno e l’altro, solo ascolto.
Il finito: tutto ciò che non è più.
L’infinito: tutto ciò che è più.
Pensare il silenzio è, in certo modo, divulgarlo.
Il silenzio non è debolezza. Proprio al contrario, è forza.
La debolezza della parola sta nell’ignorarlo.
Come l’istante per l’istante successivo, così la parola, nel libro, non potrebbe essere letta che dalla parola apparsa dopo di essa. Leggere il libro è forse soltanto avviare un’innocente lettura dell’avvenire.
Candore della conoscenza che ancora non si conosce.
Preservare tale purezza.
Oh saggezza del primo sapere.
Non si può scrivere l’erranza: essa si scrive da sé.
Errante, sono scrittura.
La traccia di una lettera.
E se il pensiero non fosse che un pentimento dell’impensato, la tardiva ammissione di un rimorso?
Scrivere, è vedere distintamente sia di giorno che di notte.
Aquila e civetta.
Aquila nella luce del mattino: lo scrittore. Civetta nel cuore della notte: il vocabolo.
Fusi nello stesso e infinito sguardo.
La voce, così come il respiro, delimitano lo spazio della parola.
Spazio esteriore, vitale.
Lo spazio del vocabolo è quello, illimitato, del libro; notte associata al giorno, fin da quando esso sorge dalle tenebre.
Oh sopravvivenza.
Parlare è sacrificare al comunicabile. Anche scrivere lo è, ma torturato dall’incomunicabile.
Pensare è forse soltanto errare col proprio pensiero.
Il pensatore sa di avere, come unico bene per l’indomani, il cammino e l’ignoto.
«Se mi chiedessero qual è, fra tutti i misteri, quello che rimarrà per sempre impenetrabile – aveva annotato –, risponderei senza esitare: L’evidenza».
Poter un giorno, come si chiude un libro, chiudere la mia vita, persuaso che entro tale chiusura c’è sempre nascosto un tesoro.
Ogni possesso ci delude, anche quando ci favorisce. Pagina. Pagina.
Moriamo di quel che ci ha fatto essere, assai più che di quel che siamo.
Ci si spossessa solo di se stessi.
Per il chiarore, non esistono catene.
La mano conosce i propri limiti. Il foglio non li immagina nemmeno.
Per l’orizzonte, esageratamente vicino è l’orizzonte.
Essere legati solo al battito di un’ala, al tiepido spazio da essa percorso.
Trasparente è il pensiero, giacché non proietta alcun’ombra; né i cieli né la terra potrebbero trattenerlo.
Speravi forse, tramite una cordicella, di fissare con una linea retta il limite del pensiero?
Fluttuanti sono i margini della vita e della morte.
I limiti si scaglionano all’infinito al di sopra di noi, come, alla loro dimensione, frasi maldestre di adolescenti in un quaderno di scuola.
Il limite imita il limite.
Non c’è spazio che non sia truccato.”
Edmond Jabès, da “Les deux livres suivi de Aigle et chouette”, 1995
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Illustrazione di Gürbüz Doğan Ekşioğlu
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Il cigno
A Victor Hugo
“È a te che penso, Andromaca! Quello stento fiume,
misero, opaco specchio dove un tempo rifulse,
immensa, la maestà del tuo dolore,
Simoenta bugiardo gonfiato dal tuo pianto,
nel traversare il nuovo Carosello, d’un tratto
fecondò la mia fertile memoria. Parigi,
la vecchia Parigi è sparita (più veloce d’un cuore,
ahimè, cambia la forma d’una città); soltanto
la mente adesso vede la distesa
delle baracche, i mucchi di fusti e capitelli
sbozzati, l’erba, i massi che le pozze inverdiscono,
il bric-à-brac confuso che dai vetri riluce.
Là sorgeva un serraglio; là un mattino,
all’ora che sotto un alto, algido cielo
il Lavoro si sveglia e dalle strade
s’alza un cupo uragano nell’aria silenziosa,
vidi un cigno, fuggito dalla sua gabbia, l’arido
selciato raspando con i piedi palmati,
le bianche piume strascinare al suolo.
Aprendo a un secco rigagnolo il becco, l’animale
bagnava convulso le ali nella polvere
e con il cuore colmo del suo lago natale,
quando, pioggia, cadrai? quando, diceva,
tuonerai, folgore? Mito strano e fatale,
lo vedo, l’infelice, come l’uomo d’Ovidio,
al cielo crudelmente azzurro e ironico
sul frenetico collo tender l’avida testa,
a volte, come a rimbrottare Dio!
Charles Baudelaire, da “Tableaux parisiens”, in “I fiori del male”
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Hilma af Klint, “Il cigno”, n. 1, 1915
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La sardina in metrò
“Non voglio lavarmi con quel sapone.
Non voglio lavarmi i denti con quel dentifricio.
Non voglio dormire su quel divano letto.
Non ho bisogno di quella carta igienica.
Non sono interessato a questa polizza assicurativa.
Non ho la minima intenzione di cambiare la marca di sigarette.
Non ho voglia di vedere quel film.
Mi rifiuto di scendere a Skärholmen.
La sardina vuole che si apra la scatoletta verso il mare.”
Werner Aspenström (poeta svedese), “La sardina in metrò”
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Foto di Sonia Simbolo
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Alla povera mia fragilità
“Alla povera mia fragilità
tu guardi senza dire una parola.
Tu sei di marmo, ma io canto,
tu – statua, ma io – volo.
So bene che una dolce primavera
agli occhi dell’Eterno – è un niente.
Ma sono un uccello, non te la prendere
se è leggera la legge che mi governa.”
Marina Cvetaeva, da “Scusate l’Amore. Poesie 1915-1925”, 2013
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Acherontia Atropos
“D’estate, in un sentiero di campagna,
v’occorse certo d’incontrare un bruco
enorme e glabro, verde e giallo, ornato
di sette zone oblique turchiniccie.
Il bruco errava in cerca della terra
dove affondare e trasmutarsi in ninfa;
e dalla gaia larva, a smalti chiari,
nasceva nell’autunno la più tetra
delle farfalle: l’Acherontia Atropos.
Certo vi è nota questa cupa sfinge
favoleggiata, dal massiccio addome,
dal corsaletto folto, con impresso
in giallo d’ocra il segno spaventoso.
Natura, che dispensa alle Dïurne
i colori dei fiori e delle gemme,
Natura volle l’Acherontia Atropos
simbolo della Notte e della Morte,
messaggera del Buio e del Mistero,
e la segnò con la divisa fosca
e d’un sinistro canto. L’entomologo
tuttora indaga come l’Acherontia
si lagni. Disse alcuno, col vibrare
dei tarsi. Ma non è. Mozzato ho i tarsi
all’Acherontia e s’è lagnata ancora.
Parve ad altri col fremito dei palpi.
Io cementai di mastice la bocca
all’Acherontia e s’è librata ancora
per la mia stanza, ha proseguito ancora
più furibondo il grido d’oltretomba;
grido che pare giungere da un’anima
penante che preceda la farfalla,
misterïoso lagno che riempie
uomini e bestie d’un ignoto orrore:
ho veduto il mio cane temerario
abbiosciarsi tremando foglia a foglia,
rifiutarsi d’entrare nella stanza
dov’era l’Acherontia lamentosa.
L’apicultore sa che questo lagno
imita il lagno dell’ape regina
quando è furente contro le rivali
e concede alla sfinge d’aggirarsi
pei favi, sazïandosi di miele.
L’operaie non pungono l’intrusa,
si dispongono in cerchio al suo passaggio,
con l’ali chine e con l’addome alzato,
l’atteggiamento mite e riverente
detto «la rosa» dall’apicultore.
E la nemica dell’apicultore
col triste canto incanta l’alveare.
All’alba solo, quando l’Acherontia
intorpidita e sazia tace e dorme,
l’operaie decretano la morte.
Depone ognuna sopra l’assopita
un granello di propoli, il cemento
resinoso che tolgono alle gemme.
E la nemica è rivestita in breve
d’una guaina e non ha più risveglio.
L’apicultore trova ad ogni autunno,
tra i favi, questi grandi mausolei.
Farfalla strana, figlia della Notte,
sorella della nottola e del gufo,
opra non di Natura, ma di dèmoni,
evocata con filtri e segni e cabale
dalle profondità d’una caverna!
Bimbo, ricordo, per le mie raccolte,
sempre immolai con trepidanza questa
cupa farfalla, quasi nel terrore
di suscitare con la fosca vittima
l’ira d’una potenza tenebrosa.
E anche perché l’Atropo mi parla
di cose rare, dell’antiche ville.
Sul canterano dell’Impero, sotto
la campana di vetro che racchiude
le madrepore rare e le conchiglie,
sta quasi sempre l’Acherontia Atropos
depostavi da un nonno giovinetto.
L’Acherontia frequenta le campagne,
i giardini degli uomini, le ville;
di giorno giace contro i muri e i tronchi,
nei corridoi più cupi, nei solai
più desolati, sotto le grondaie,
dorme con l’ali ripiegate a tetto.
E n’esce a sera. Nelle sere illuni
fredde stellate di settembre, quando
il crepuscolo già cede alla notte
e le farfalle della luce sono
scomparse, l’Acherontia lamentosa
si libra solitaria nelle tenebre
tra i camerops, le tuje, sulle ajole
dove dianzi scherzavano i fanciulli,
le Vanesse, le Arginnidi, i Papilî.
L’Acherontia s’aggira: il pipistrello
l’evita con un guizzo repentino.
L’Acherontia s’aggira. Alto è il silenzio
comentato, non rotto, dalle strigi,
dallo stridio monotono dei grilli.
La villa è immersa nella notte. Solo
spiccano le finestre della sala
da pranzo dove la famiglia cena.
L’Acherontia s’appressa esita spia
numera i commensali ad uno ad uno,
sibila un nome, cozza contro i vetri
tre quattro volte come nocca ossuta.
La giovinetta più pallida s’alza
con un sussulto, come ad un richiamo.
«Chi c’è?» Socchiude la finestra, esplora
il giardino invisibile, protende
il capo d’oro nella notte illune.
«Chi c’è? Chi c’è?» «Non c’è nessuno. Mamma!»
Richiude i vetri, con un primo brivido,
risiede a mensa, tra le sue sorelle.
Ma già s’ode il garrito dei fanciulli
giubilante per l’ospite improvvisa,
per l’ospite guizzata non veduta.
Intorno al lume turbina ronzando
la cupa messaggiera funeraria.
Guido Gozzano, “Acherontia Atropos”, da “Le farfalle – epistole entomologiche”
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Acherontia Atropos, immagine dal web
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Complicità
“Sul rametto più alto del giovane albero,
una foglia scura, secca, solitaria, rimasta
dall’inverno, tra le nuove piccole gemme.
Ma volge il capo!
È un colibrì,
che riposa tranquillo, si prende una pausa
dal mondo veloce e frenetico dei colibrì –
e tuttavia guardingo. Rivolge al giorno
un lungo sguardo furtivo,
come un bambino il cui nascondiglio
non è stato scoperto, di cui non si è neppure
notata l’assenza. Niente paura.
Ho visto
una foglia: non ti tradirò.”
Denise Levertov, da “Alle isole via terra. Poesie 1946-1999” – Traduzione di Paola Splendore, 2003
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Foto di Hamilton Magri Jr
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Parlando con gli uccelli
“Quando non c’era più nessuno
che capisse la nostra lingua
mi sedevo fuori e parlavo agli uccelli
e quando gli uccelli erano dentro
parlavo alla luna, cantavo alle stelle.
Quando arrivava la pioggia le dicevo una poesia
e quando al mattino il sole
si spandeva sul pavimento
ballavo da una parte all’altra con la scopa,
strappando storie al mio sonno,
raccontando all’orologio dei miei amici e parenti,
come sedevamo tutta la notte vicino al fuoco
e suonavamo musica e parlavamo senza sosta
senza sapere che stavamo consumando la lingua,
che dall’altra parte di ogni parola
si nascondeva il silenzio, in attesa del suo momento.
Imparate questa lingua, dico agli uccelli,
e cantate ovunque andrete
i modi fantasiosi in cui la usavamo. Ormai
questa casa deve averla di sicuro, la grammatica
per tanto tempo filtrata nei mobili
e quando appoggio le mani sul tavolo
so che il legno sta ascoltando
e i fiori quando si apriranno diranno il mio nome.”
Peter Sirr, “Parlando con gli uccelli”, da “Selected Poems” – Traduzione di Rita Castigli
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Emilio Isgrò, “La rotta dei Catalani”
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Oggi che non potevo fare niente
“Oggi che non potevo fare niente,
ho salvato una formica.
Doveva essere entrata con il giornale,
ancora consegnato
a chi deve stare a casa.
Un giornale è ancora un servizio essenziale.
Io non sono un servizio essenziale.
Ho caffè e libri,
tempo,
un giardino,
silenzio abbastanza da riempire cisterne.
Dapprima deve aver camminato
sul giornale, come inchiostro sbavato
che prendeva la forma di una formica.
Poi attraverso il portatile – caldo –
poi sul retro di un cuscino.
Piccola formica nera, sola,
che attraversava un cuscino blu,
si muoveva veloce perché è quello che poteva fare.
Messa fuori al sole,
non avrebbe potuto ritrovare il suo nido.
Allora che cosa ho salvato?
Non sembrava che avesse paura
nemmeno quando camminava sulla mia mano
che la muoveva rapida nell’aria.
Formica, sola, senza compagne,
il cui cuore di formica non potevo comprendere –come ti va la vita – volevo chiedere.
L’ho sollevata e messa fuori.
Questo primo giorno in cui non potevo fare niente,
contribuire a niente
oltre a stare distante dal mio stesso genere,
ho fatto questo.”
Jane Hirshfield, da “Together in a Sudden Strangeness: America’s Poets Respond to the Pandemic”, 2020, traduzione di Stefania Zampiga
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La foto in evidenza è di Sonia Simbolo

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