Linguaggi

Negritudini

10.11.2021

“Negritudine, ove si mescolano la luna il sole il fulmine il coccodrillo il serpente, il sogno e il desiderio, la danza e la morte. In questo mondo trasparente non c’è soluzione di continuità tra la conchiglia e la stella. Il poeta è rimasto negro e bantù. Le sue poesie sono eruzioni di immagini con una sintassi di sovrapposizione che polverizza la sintassi stessa, e spesso, come nella poesia popolare negra, le immagini sorgono nominando semplicemente le cose, alla sola condizione che siano ritmate.“

Léopold Sédar Senghor, cit. in “Nuova poesia negra, versioni e introduzione di Maria Grazia Leopizzi”

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Sono nero
“Quando nasco, sono nero,
quando cresco, sono nero,
quando ho caldo, sono nero,
quando ho freddo, sono nero,
quando ho paura, sono nero,
quando sono malato, sono nero,
quando muoio, sono nero.
Tu, quando nasci sei rosa,
quando cresci sei bianco,
quando hai caldo sei rosso,
quando hai freddo sei viola,
quando hai paura sei giallo,
quando sei malato sei verde,
quando muori sei grigio.
Allora, perché continui a chiamare me uomo di colore?”

Leopold Senghor, poeta e politico, ideologo della “negritudine” (il movimento culturale che rivendicava l’identità nera contro i regimi coloniali), primo Presidente della Repubblica del Senegal (1960-1980)

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Conversazione telefonica

“Il prezzo sembrava ragionevole, il luogo
indifferente. L’affittuaria aveva giurato di vivere
fuori sede. Non rimaneva nulla
se non la confessione. “Signora” avvisai,
“detesto buttar via tempo in viaggi inutili – sono africano.”
Silenzio. Trasmissione zittita di
buone maniere pressurizzate. La voce, quando venne,
spalmata di rossetto, pigolio di lungo
bocchino dorato. Ero stato beccato, che imbecille.
“QUANTO SCURO?”… Non avevo sentito male… “LEI È CHIARO
O MOLTO SCURO?” Bottone B. Bottone A. Tanfo
di respiro rancido di pubblico nascondino telefonico.
Cabina rossa. Cassetta rossa. Autobus rosso
a due piani che schiaccia l’asfalto. Era vero! Svergognata
dal silenzio scortese, la resa
spinse lo stupore a pregare semplificazione.
Lei era piena di riguardo, variando l’enfasi –
“LEI È SCURO? O MOLTO CHIARO?”
Venne la rivelazione.
“Lei intende – come cioccolato semplice o al latte?”
Il suo assenso era clinico, schiacciante nella propria leggera
impersonalità. Rapidamente, regolatomi a quella lunghezza d’onda,
scelsi. “Seppia Africano occidentale” e come pensiero aggiunto,
“Come dice il mio passaporto.” Silenzio per spettroscopico
volo di fantasia, fino a che la sincerità fece risuonare il suo duro
accento sulla cornetta. “COS’E’?” concedendo
“NON HO IDEA DI COSA SIA.” “Tipo castano.”
“È SCURO, GIUSTO?” “Non del tutto.
Di faccia, sono castano, ma signora, dovrebbe vedere
il resto di me. Il palmo della mia mano, le piante dei miei piedi
sono di un biondo ossigenato. Lo sfregamento, dovuto –
che stupido pazzo – allo starmene seduto, ha reso
il mio sedere nero corvino – un momento, signora!”- percependo
il suo ricevitore rizzarsi in un fragore di tuono
fin nelle orecchie: “Signora,” supplicai, “non vorrebbe piuttosto
controllare di persona?”

Wole Soyinka (pseudonimo di Akinwande Oluwole Soyinka): poeta, drammaturgo, saggista nigeriano, Premio Nobel per la letteratura del 1986

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“M’insegnarono a parlare
imparai a scrivere.
M’insegnarono a scrivere
imparai a parlare.
M’insegnarono a leggere
imparai a vedere.
M’insegnarono a sentire
imparai a tacere.
M’insegnarono a chiedere
imparai a dare.
M’insegnarono a comprare
imparai ad avere.
M’insegnarono a bere
imparai a ridere.
M’insegnarono a fuggire
imparai a restare.
M’insegnarono a imparare
imparai a ignorare.
M’insegnarono ad amare
imparai a creare.
M’insegnarono a vivere
imparai a morire.
M’insegnarono a stare sola
imparai a stare.
M’insegnarono a essere libera
imparai a essere.”
Salette Tavares (poetessa del Mozambico), “La lezione”
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14 novembre 1960: Ruby Bridges, sei anni, comincia la sua dura battaglia per frequentare una scuola di bianchi. Lo farà sempre a testa alta, nonostante le vessazioni alle quali verrà sottoposta.

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Ho bussato

“Ho bussato alla tua porta
ho bussato al tuo cuore
per avere un letto
per avere del fuoco
perché mai respingermi ?
Aprimi fratello !

Perché domandarmi
se sono dell’Africa
se sono dell’America
se sono dell’Asia
se sono dell’Europa ?
Aprimi fratello !

Perché domandarmi
quant’è lungo il mio naso
quant’è spessa la mia bocca
di che colore ho la pelle
che nome hanno i miei dèi ?
Aprimi fratello !

Io non sono nero
io non sono rosso
io non sono giallo
io non sono bianco
non sono altro che un uomo.
Aprimi fratello !

Aprimi la porta
aprimi il tuo cuore
perché sono un uomo
l’uomo di tutti i tempi
l’uomo di tutti i cieli
l’uomo che ti somiglia!”

 

René Philombe (pseudonimo di Philippe Louis Ombédé, poeta e scrittore del Camerun), “Aprimi fratello”

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Ma dimmi tu questi negri

 

“Ma dimmi tu questi negri
che vengono a prendersi per disperazione
ciò che noi ci prendemmo con la violenza,
la spada e la croce santa,
lasciandoci dietro solo disperazione.
Ma dimmi tu questi negri
che hanno cellulari e guardano le nostre donne,
mentre noi da sempre
ci fottiamo le loro
un tanto a botta nelle strade nere delle periferie,
e prendiamo il silicio dalle cave delle loro terre,
e come osano poi questi negri
avere desideri proprio uguali ai nostri
manco fossero umani.
Ma dimmi tu questi negri che attraversano il mare
come se fosse messo lì per viaggiare
e non per tenerli lontani,
per galleggiare e non per affondare,
per andare e non per tornare.
Ma dimmi tu questi negri
ex schiavi dei bianchi
che vengono qui a rubarci il pane
proprio ora che gli schiavi siamo noi
messi in ginocchio e catene
da politici e finanzieri bianchi
con colletti bianchi
e canini e incisivi sorridenti
e perfettamente bianchi,
che in meno di trent’anni
ci hanno fatto schiavi.
Ma dimmi tu questi negri
che hanno scoperto ora che la terra è una,
è rotonda,
e che a seguire la rotta della loro fame
si arriva dritti dritti alla nostra opulenza.
Ma dimmi tu questi negri
che facessero come i nostri nonni:
cioè tornare nella giungla e sui rami alti
visto che sono loro i nostri progenitori
e che l’umanità è tutta africana.

Ma dimmi tu questi negri che non rispettano i confini della nostra ignoranza e i muri della nostra paura.
Ma dimmi tu questi negri che persino si comprano le sigarette
dopo che noi ci siamo fumati le loro foreste,
le loro miniere,
il loro passato,
il loro presente
ma abbiamo commesso l’imperdonabile errore di lasciargli una vita
e un futuro
a cui dimmi tu, questi negri,
non rinunciano mica.
Ma dimmi tu questi negri
che si portano il loro Dio da casa
anziché temere il nostro,
e sanno ninna nanne e leggende e favole più antiche delle nostre e parlano male la nostra lingua
ma benissimo le loro che però noi non capiamo.
Ma dimmi tu questi negri a cui non vogliamo stringere la mano
né far mettere piede in casa,
sebbene a ben guardare
abbiano i palmi delle mani e dei piedi perfettamente bianchi.
Proprio come i nostri.”

 

Andrea Ivaz Melis, “Ma dimmi tu questi negri”

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La x è nera

 

“Se la bandiera si incendia
e una X ci brucia dentro
quella “x” è nera
e lascia
uno spazio vuoto
è in quello spazio
che viviamo noi
la nazione afroamericana
se la bandiera
si incendia e
e una X ci brucia dentro
le sole strisce sono
sulla nostra schiena
la sola stella
esplode libera
nel cielo del nord
non altro rosso
che il nostro sangue
niente bianco ma schiavisti
e klux in cappuccio
non altro blu
ma le nostre canzoni
se la bandiera si incendia
e una X
ci brucia dentro
quella X è nera
lo spazio che resta
è la nostra storia
ora un mistero
viviamo solo
dove non c’è bandiera
dove l’aria è funky
la musica
hot
dentro il buco
nell’anima americana
in quello spazio, quello spazio
vuoto di democrazia
viviamo noi
nei confini bruciati
di un simbolo devastato
X umani, schiavi X, sconosciuti, scorretti, cancellati
a moltiplicare la ricchezza di altri
se la bandiera
si incendia
e una X ci brucia dentro
quella X
credetemi,
è nera.

Amiri Baraka (nome d’arte di Everett LeRoi Jones, poeta, scrittore e critico musicale), “La x è nera”


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Scendo dal raggio di sole

“Scendo dal raggio di sole

Sgorgo dalla roccia solida,

parlo la lingua della vita,

ed emano odio e amore;

lasciatemi vivere.

 

Dov’è la mia storia,

la vostra storia, la nostra storia?”

 

Ndjock Ngana  (Teodoro – Poeta,  scrittore, direttore del Centro Interculturale Kel ‘Lam di Roma,  discendente di Patriarchi dell’etnia Bàsàá del Camerun) 

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Il sangue

“Chi può versare
Sangue nero
Sangue giallo
Sangue bianco
Mezzo sangue?

Il sangue non è indio, polinesiano o inglese.

Nessuno ha mai visto
Sangue ebreo
Sangue cristiano
Sangue mussulmano
Sangue buddista

Il sangue non è ricco, povero o benestante.

Il sangue è rosso

Disumano è chi lo versa
Non chi lo porta.”

 

Ndjock Ngana,  “Il sangue”

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Casa

 

“Nessuno lascia la propria casa a meno che
casa sua non siano le mandibole di uno squalo
verso il confine ci corri solo
quando vedi tutta la città correre
i tuoi vicini che corrono più veloci di te
il fiato insanguinato nelle loro gole
il tuo ex-compagno di classe
che ti ha baciato fino a farti girare la testa dietro alla fabbrica di lattine
ora tiene nella mano una pistola più grande del suo corpo
lasci casa tua
quando è proprio lei a non permetterti più di starci.

nessuno lascia casa sua a meno che non sia proprio lei a scacciarlo
fuoco sotto ai piedi
sangue che ti bolle nella pancia

non avresti mai pensato di farlo
fin quando la lama non ti marchia di minacce incandescenti
il collo
e nonostante tutto continui a portare l’inno nazionale
sotto il respiro
soltanto dopo aver strappato il passaporto nei bagni di un aeroporto
singhiozzando ad ogni boccone di carta
ti è risultato chiaro il fatto che non ci saresti più tornata.

dovete capire
che nessuno mette i suoi figli su una barca
a meno che l’acqua non sia più sicura della terra

nessuno va a bruciarsi i palmi
sotto ai treni
sotto i vagoni
nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion
nutrendosi di giornali a meno che le miglia percorse
non significhino più di un qualsiasi viaggio.

nessuno striscia sotto ai recinti
nessuno vuole essere picchiato
commiserato

nessuno se li sceglie i campi profughi
o le perquisizioni a nudo che ti lasciano
il corpo pieno di dolori

o il carcere,
perché il carcere è più sicuro
di una città che arde
e un secondino
nella notte
è meglio di un carico
di uomini che assomigliano a tuo padre

nessuno ce la può fare
nessuno lo può sopportare
nessuna pelle può resistere a tanto

Il

Andatevene a casa neri
rifugiati
sporchi immigrati
richiedenti asilo
che prosciugano il nostro paese
negri con le mani aperte
hanno un odore strano
selvaggio
hanno distrutto il loro paese e ora vogliono
distruggere il nostro

le parole
gli sguardi storti
come fai a scrollarteli di dosso?

forse perché il colpo è meno duro
che un arto divelto
o le parole sono più tenere
che quattordici uomini tra
le cosce
o gli insulti sono più facili
da mandare giù
che le macerie
che le ossa
che il corpo di tuo figlio
fatto a pezzi.

a casa ci voglio tornare,
ma casa mia sono le mandibole di uno squalo
casa mia è la canna di un fucile
e a nessuno verrebbe di lasciare la propria casa
a meno che non sia stata lei a inseguirti fino all’ultima sponda

a meno che casa tua non ti abbia detto
affretta il passo
lasciati i panni dietro
striscia nel deserto
sguazza negli oceani

annega
salvati
fatti fame
chiedi l’elemosina
dimentica la tua dignità
la tua sopravvivenza è più importante

nessuno lascia casa sua se non quando essa diventa una voce sudaticcia
che ti mormora nell’orecchio
vattene,
scappatene da me adesso
non so cosa io sia diventata
ma so che qualsiasi altro posto
è più sicuro che qui.”

 

Warsan Shire, scrittrice e poetessa keniota

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Nella tua lingua silenziosa

“Nella tua lingua silenziosa
che spoglia la mia poesia
vi è
l’idioma
di sassi spezzati
e una strada perduta
vi è
un pugno nascosto
tra due lamiere di metallo
che replicano la mente
una mano di mappe chiuse
un luogo
circondato da due orecchie
che con dolore e chiarezza
percepiscono ogni suono
compreso il rumore
della luce che si frantuma
in arcobaleni
ogni volta
che lascio la stanza.”

 

Kyle Allan, da “Influences”: poeta, performer, scrittore,  accompagna questo suo album di poesia con  una varietà di generi musicali che si richiamano alla cultura sudafricana (maskanda, afro-jazz, house, kwaito)  

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Non hai nessun taccuino

“Non hai nessun taccuino
Scrivi le poesie sulla tua
pelle –  sulla punta umida
della tua lingua – scrivi
poesie che sanno di
acqua che soddisfano
la tua sete – scrivi
poesie sulle pareti
della tua bocca e
sulle pareti della tua stanza
trasformando tutto
in un’estensione
della tua pelle, scrivi
poesie sulla tua faccia,
sui tuoi vestiti,
scrivi poesie sulla
punta delle tue dita, sulle
tue scapole,
sulle tue labbra, nel
posto dove
la tua bocca è bagnata,
nel palmo della
tua mano dove
vi è iscritta una mappa
come una poesia di linee
e pieghe incise in
un linguaggio di pelle.”

 

Kyle Allan, da “Influences”

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Come rimpicciolire te stessa o come essere nera e sopravvivere
“Accovacciati giù
in basso
non stendere le tue membra per tutta la loro lunghezza
Fletti le ginocchia
lascia che le tue ossa si ripieghino o
si rompano
Avvizzisci
Lascia che la tua pelle ti abbracci
come una bara, tienila vicina
La tua lingua è fragorosa
per diluire il ruggito, dirotta i tuoi occhi
osserva solo il manto stradale
Così un’ombra massiccia spalanca per noi
una tomba
Vedi solo le formiche
minuscoli esseri di melanina
scorrazzarne via
indenni”
Porsha Olayiwola (scrittrice, poetessa, femminista)
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Primavera ad Harare
“Non ci sono stagioni
in Africa, dicono
solo calde estati che fumano
di nubi tonanti gonfie
di piogge del tipo convenzionale
e notti invernali che fischiano
sulle sabbie gialle del Kgalagadi.
Dicono che non ci sono stagioni
in Africa, solo un uragano
che sibila attraverso la boscaglia
come una vetta gigantesca che ruota
lasciando muri infranti e capanne
sradicate al suo risveglio,
o il famelico harmattan
che divora la terra vitale
dei mandriani, lasciandola nuda e desolata.
Tu dici che non ci sono stagioni in Africa,
dimentichi i venti furiosi d’autunno
che hanno sparso gli allori di Rodesia?
Non ricordi il vento polveroso
che schiaffeggiava lo Zimbabwe-Rhodesia bifronte,
con soffi e flagelli, cantanto il canto
di raccolti futuri?
Non era questo il vento d’autunno
maturato dalla volontà della gente?
Dimmi ancora che
non ci sono stagioni in Africa,
e io ti mostrerò le foglie che ingialliscono
della rosa inglese in mezzo
alle foreste di mophane, verdi di vigore e forza,
ti mostrerò i petali che appassiscono
della protea sotto il sole bollente di Namibia.
Dimmi che non ci sono stagioni in Africa,
ti mostrerò i colori languenti delle bandiere imperiali;
rosso, bianco, blu reale e pallido arancio
che persono ora il lustro nel calore:
screpolature dei monumenti coloniali
segnate dal tempo.
Non ci sono stagioni in Africa?
Diciamo che oggi è qui la primavera
venuta a far due passi con noi
giù da Harare o da Bulawayo.
La sua brezza benevola vi consoli
le narici con l’aroma
di abbondante flora in boccio,
spalanchi le vostre braccia ad accogliere
il soffio recente di libertà
attraverso le città e i villaggi sfiancati dalla guerra,
e afferri i coriandoli di porpora che fluttuano e cadono
sui marciapiedi alberati, tetti ed automobili;
un festival di fiori oggi ad Harare,
primavera è venuta in Zimbabwe per restare:
la jacaranda è in piena fioritura.”
Barolong Seboni (poeta del Botswana)
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La recinzione
“Là dove l’oscuro passato e il futuro mescolano
le loro nebulose speranze e aspirazioni,
lì giaccio.
Là dove la verità e la menzogna combattono
in un combattimento sanguinoso e senza fine
lì io giaccio.
Là dove il tempo va avanti e indietro
senza un attimo di pausa per sospirare, io giaccio.
Là dove il corpo invecchia inesorabilmente
e solo la mente debole può vagare
là dietro, io giaccio con stupore ad anima aperta.
Là dove tutti gli opposti arrivano
ad affliggere i sensi interiori, ma non si fondono.
tengo la testa; e per escogitare
di fermare il movimento costante.
la mia testa gira e gira,
ma non ho bevuto;
sento le onde galleggianti; barcollo.
Sembra che il mondo abbia cambiato il suo gioco.
ma sono io che non ho oltrepassato il recinto.
Là dove il bisogno del bene
e il “fare del bene” entrano in conflitto.
lì giaccio.”
Lenrie Leopold Wilfred Peters (1932-2009), poeta, drammaturgo e politico del Gambia
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Che c’è di male

“Che c’è di male
che c’è di strano
se fra cent’anni
ogni italiano
avrà la pelle
un po’ più bruna
e occhi grandi
come la luna?

Che c’è di male
che c’è di strano
se fra cent’anni
ogni italiano
sarà un miscuglio
di nonno africano
con nonna bianca
di Roma o Milano?

Che creatività
e quanta energia
nella mescolanza
e che fantasia.

Quindi a chi urla
mandiamoli via
rispondo con la
più bella utopia:
dategli pane
dategli Dante

Vedrete che Europa
tosta e pensante
uscirà fuori
nel secolo entrante.

Fra mille colori
e il sole levante
nulla di male
nulla di strano
se fra cent’anni
ogni italiano
avrà la pelle
un po’ più scura
e un cuore grande
senza paura.”

Autore sconosciuto

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Billie
“Negra? Non si vede?
Cantante? Ascoltami e vedrai
Puttana? Sì, ho fatto anche quello
E bevo anche come quattro uomini
Non mi fai paura, ho suonato in posti peggiori di questo
In bar di cow boys nel sud dove mi sputavano addosso
In una città dove il giorno stesso avevano linciato un nero
A New Orleans dove un diavolo alla moda
Ogni sera mi regalava fiori di droga
E a Chicago mi innamorai di un trombettista sifilitico
E all’uscita del night mi hanno spaccato la bocca
Sotto la pioggia da una stazione all’altra
Lady sings the blues
Negra? Sì, ma ci sono abituata
Cantante? Canto come una gabbia di uccelli
Note gravi e alte, e tutto il repertorio
Posso svolazzare come quelle belle cantanti dei film
E poi posso piantarti una ballata nel cuore
Vuoi strange fruit? Vuoi midnight train?
Posso cantartela anche da ubriaca
O con un coltello nella schiena
O piena di whisky e altro, perché sono una santa
E il mio altare è nel fumo di questo palco
Dove Lady sings the blues
Negra? Negra e bellissima, amico
Cantante? Non so fare altro
Puttana? Beh sì ho fatto anche quello
E bevo come quattro uomini
Non toccarmi o ti graffio quella bella bianca faccia
Posate il bicchiere, aprite quel poco che avete di cuore
State zitti e ascoltate io canto
Come se fosse l’ultima volta
Fate silenzio, bastardi e inchinatevi
Lady sings the blues
E quando tornerete a casa dite
Ho sentito cantare un angelo
Con le ali di marmo e raso
Puzzava di whisky era negra puttana e malata
Dite il mio nome a tutti, non mi dimenticate
Sono la regina di un reame di stracci
Sono la voce del sole sui campi di cotone
Sono la voce nera piena di luce
Sono la lady che canta il blues
Ah, dimenticavo… e mi chiamo Billie
Billie Holiday”
Stefano Benni, “Billie”
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L’uccello tessitore
“L’uccello tessitore ha costruito la nostra casa
E ha deposto le uova sul nostro unico albero.
Non volevamo mandarlo via.
Abbiamo assistito alla costruzione del nido
E ha supervisionato la deposizione delle uova.
E il tessitore tornò nelle vesti del proprietario.
Predicando la salvezza a noi che possedevamo la casa.
Dicono che provenga da ovest
Dove le tempeste in mare avevano abbattuto i gabbiani
E i pescatori asciugavano le reti alla luce delle lanterne.
Il suo sermone è la divinazione di noi stessi
E il nostro nuovo orizzonte si limita al suo nido.
Ma non possiamo unirci alle preghiere e alle risposte dei comunicanti.
Cerchiamo nuove case ogni giorno,
Per nuovi altari ci sforziamo di ricostruire
Gli antichi santuari contaminati dagli escrementi del tessitore.”
Kofi Awoonor, poeta, saggista, docente di letteratura comparata, nato in Ghana da genitori Ewe
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Paul Cézanne, “Il negro Scipione”, 1866
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Anch’io canto l’America
“Io sono il fratello più scuro.
Mi mandano a mangiare in cucina
quando viene gente
ma io rido,
e mangio bene
e divento forte.
Domani,
siederò a tavola
quando verrà gente.
Allora
nessuno oserà
dirmi:– Va a mangiare in cucina-
E poi
vedranno come sono bello,
e proveranno vergogna.
Anch’io sono l’America.”
Langston Hughes, “Anch’io canto l’America”, da “Mulatto”, traduzione di S. Rosati
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