Linguaggi

Quand’ero un albero

10.11.2021
“Gli alberi sono santuari. Chi sa parlare con loro, chi li sa ascoltare, conosce la verità. Essi non predicano dottrine e precetti, predicano, incuranti del singolo, la legge primigenia della vita.”
Hermann Hesse, da “Il cantico degli alberi”, 1919
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La foresta
“L’ultima mia proposta è questa
Se volete trovarvi
Perdetevi nella foresta”.
Giorgio Caproni, “Per le spicce”
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Albert Edelfelt, “Pyökkimetsää”, 1901
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Alberi, insegnateci le altezze
“Alberi, insegnateci le altezze
insegnateci la tenacia e la saggezza
di annose cortecce,
insegnateci a scherzare con il vento
e a fiorire con le primavere
insegnateci a resistere negli inverni
e sperare sempre che le foglie giochino
con i raggi del sole.”
Valentina Vannetti, da “Un’anima in viaggio”, 2021
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Le parole degli alberi
“Parlano poco gli alberi, si sa.
Passano tutta la vita meditando
e muovendo i loro rami.
Basta guardarli in autunno
quando si riuniscono nei parchi:
soltanto i più vecchi conversano,
quelli che donano le nuvole e gli uccelli,
ma la loro voce si perde tra le foglie
e assai poco percepiamo, quasi niente.
È difficile riempire un piccolo libro
coi pensieri degli alberi.
Tutto in essi è vago, frammentario.
Oggi, ad esempio, mentre ascoltavo il grido
di un tordo nero, di ritorno verso casa,
grido ultimo di chi non attende un’altra estate,
ho capito che nella sua voce parlava un albero,
uno dei tanti,
ma non so cosa fare di quel grido,
non so come trascriverlo.”

Eugenio Montejo; “Gli alberi. Alcune parole”

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La verticalità degli alberi

“Forse lo scopo
delle foglie è nascondere
la verticalità
degli alberi
che noi vediamo
a dicembre
come per la prima volta:
filari dopo filari
di forme oscure
che si tendono verso l’alto.
E poiché saremo
orizzontali noi stessi
a lungo,
onoriamo gli dei
del verticale:
piccioli di grano
che alla formica
sembrano alti
quanto lo sono
questi alberi per noi,
silos e piloni di telefoni,
stalagmiti e
grattacieli.
Ma più di tutti
queste querce d’inverno,
questi teneri pioppi,
questa betulla
dalla scabra corteccia
contro la quale appoggio
la mia testa infreddolita,
non ancora pronta
a stendermi.”

Linda Pastan, “Verticale”

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 Horace Vernet, “Caccia nell’Agro Pontino”, 1833

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L’albero caduto

“L’albero che con fragore di bosco
la bufera ci abbatte davanti non è
per sbarrarci per sempre la strada verso la mèta,
ma appena per domandarci chi mai crediamo essere
a insistere sempre così sul nostro cammino.

Gli piace arrestarci sui nostri affrettati sentieri,
farci affondare entro un palmo di neve
a discutere come fare senza una scure.

Eppure sa che ostacolarci è inutile:
non ci faremo distogliere dall’obiettivo finale
che in noi segreto abbiamo da raggiungere,
dovessimo afferrare la terra per il polo
e, stanchi di girare a vuoto in un sol posto,
volare via nello spazio inseguendo qualcosa.”

Robert Frost, “Di un albero caduto attraverso la strada (che sente i nostri discorsi)”

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Il fico

“Perché è ruvido e brutto
perché tutti i suoi rami sono grigi,
ho compassione del fico.
Nella mia casa di campagna ci sono cento begli alberi:
susini rotondi
dritti limoni,
e aranci con splendidi fiori.
In primavera
tutti loro sono coperti di fiori
attorno all’albero di fico
e sembra talmente triste
con i suoi rami secchi e contorti, ma mai
si veste di piccoli boccioli…
A causa di ciò
ogni volta che ci passo vicino
dico, tentando di
rendere il mio tono dolce e felice:
“È il fico l’albero più bello di tutto il frutteto “.
Se ascolta
se capisce il modo in cui parlo,
che profonda dolcezza riempirà fino in fondo
l’anima sensibile dell’albero!
e forse di notte,
quando il vento sventolerà il suo apice,
ubriaco di contentezza gli dirà:
-Oggi qualcuno mi ha detto che sono bello.”

Juana De Ibarbourou, “Il fico”

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La quercia

“Sono la quercia:
Le radici nella miseria
Vecchi uccelli neri
Gracchiano sulle mie fronde
Le foglie toccano il suolo
La stereofonia dei miei lamenti
Piange come le bestie
E nutre la mia terra,
I miei ceppi isterici”

Valentina Casadei

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 Gustav Klimt, Bosco di betulle, 1902

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Quando gli alberi avevano gli occhi

“Un tempo gli alberi avevano occhi,
posso giurarlo,
so di certo
che vedevo quando ero albero,
ricordo che mi stupivano
le strane ali degli uccelli
che mi sfrecciavano davanti,
ma se gli uccelli sospettassero
i miei occhi,
questo non lo ricordo più.

Invano ora cerco gli occhi degli alberi.
Forse non li vedo
perché albero non sono più,
o forse sono scivolati lungo le radici nella terra,
o forse,
chissà,
solo a me m’era parso
e gli alberi sono ciechi da sempre.

Ma allora perché
quando mi avvicino
sento che
mi seguono con gli sguardi,
in un modo che conosco,
perché, quando stormiscono e occhieggiano
con le loro mille palpebre,
ho voglia di gridare

Cosa avete visto?”

Ana Blandiana (poetessa romena), da “Un tempo gli alberi  avevano occhi”

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Pensare come un albero

“Pensa come un albero
assorbi il sole
dichiara la magia della vita
sii aggraziato nel vento
rimani dritto dopo una tempesta
sentiti rinnovato dopo la pioggia
cresci forte senza farti notare
sii pronto per ogni stagione
dai riparo agli estranei
resisti a un periodo freddo
rinasci al primo segnale di primavera
affonda le radici mentre tenti di raggiungere il cielo
rimani quieto a sufficienza da sentire le tue foglie frusciare.”

Karen Shragg

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Illustrazione di Lukas Leitinger

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Negli alberi

“Negli alberi, nelle loro chiome, sotto sontuose
vesti di foglie e sottane di luce,
sotto i sensi, sotto le ali, sotto gli scettri,
negli alberi si cela, respira, palpita
una vita quieta, sonnolenta, un abbozzo d’eterno.
Prosperi reami crescono nell’ambone
delle querce. Gli scoiattoli corrono, immobili
come piccoli tramonti rossi nascosti
sotto le palpebre. Ostaggi invisibili
formicolano sotto i gusci delle ghiande,
gli schiavi portano cesti con frutta e argento,
i cammelli oscillano come studiosi
arabi sopra i loro manoscritti, i pozzi
bevono acqua e aceto, l’acerba Europa
stilla come resina dal legno, Vermeer dipinge
vesti e una luce che non va scemando.
Sotto la cupola del circo danzano i tordi.
Slowacki già abita a Parigi e gioca
perseverante in borsa. Un ricco
si infila nella cruna d’un ago
e geme, ah, che tortura, Socrate
spiega ai cercatori d’oro che cos’è
la menzogna, che cosa il bene e la virtù.
I rematori remano lenti. E lente navigano
le barche a vela. I fuggitivi dell’Insurrezione
di Varsavia bevono un tè dolce,
sui rami asciuga la biancheria,
qualcuno nel sonno chiede «dov’è
la mia patria». Un veliero verde è fissato
a un’ancora arrugginita. Un coro di anime immortali
prova una cantata di Bach, in silenzio.
Accanto, su un angusto divano, dorme, stanco,
capitan Nemo. Un picchio trasmette un telegramma
urgente con la notizia della conquista
di Cartagine e del Boston Tea Party.
La donnola non si tramuta affatto
in lady Macbeth, nelle chiome degli alberi
non esistono rimorsi.
Icaro serenamente affoga.
Dio riavvolge il nastro. Le spedizioni punitive
rientrano in caserma.
Vivremo a lungo negli intrecci di un arabesco,
nel balbettio dell’allocco, nel desiderio, nell’eco
senza casa, sotto sontuose vesti di foglie,
nelle chiome degli alberi, nell’altrui respiro.”
Adam Zagajewski, “Negli alberi”

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  Vincent Van Gogh, “Ulivi con cielo giallo e sole”, 1889 

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La canzone dell’ulivo

I
A’ piedi del vecchio maniero
che ingombrano l’edera e il rovo;
dove abita un bruno sparviero,
non altro, di vivo;
che strilla e si leva, ed a spire
poi torna, turbato nel covo,
chi sa? dall’andare e venire
d’un vecchio balivo:
a’ piedi dell’odio che, alfine,
solo è con le proprie rovine,
piantiamo l’ulivo!
II
L’ulivo che a gli uomini appresti
la bacca ch’è cibo e ch’è luce,
gremita, che alcuna ne resti
pel tordo sassello;
l’ulivo che ombreggi d’un glauco
pallore la rupe già truce,
dov’erri la pecora, e rauco
la chiami l’agnello;
l’ulivo che dia le vermene
pel figlio dell’uomo, che viene
sul mite asinello.
III
Portate il piccone: rimanga
l’aratro nell’ozio dell’aie.
Respinge il marrello e la vanga
lo sterile clivo.
Il clivo che ripido sale,
biancheggia di sassi e di ghiaie;
lo assordano l’ebbre cicale
col grido solivo.
Qui radichi e cresca! Non vuole,
per crescere, ch’aria, che sole,
che tempo, l’ulivo!
IV
Nei massi le barbe, e nel cielo
le piccole foglie d’argento!
Serbate a più gracile stelo
più soffici zolle!
Tra i massi s’avvinchia, e non cede,
se i massi non cedono, al vento.
Lì, soffre, ma cresce, nè chiede
più ciò che non volle.
L’ulivo che soffre ma bea,
che ciò ch’è più duro, ciò crea
che scorre più molle.
V
Per sé, c’è chi semina i biondi
solleciti grani cui copra
la neve del verno e cui mondi
lo zefiro estivo.
Per sé, c’è chi pianta l’alloro
che presto l’ombreggi e che sopra
lui regni, al sussurro canoro
del labile rivo.
Non male. Noi mèsse pei figli,
noi, ombra pei figli de’ figli,
piantiamo l’ulivo!
VI
Voi, alberi sùbiti, date
pur ombra a chi pianta ed innesta;
voi, frutto; e le brevi fiammate
col rombo seguace!
Tu, placido e pallido ulivo,
non dare a noi nulla; ma resta!
ma cresci, sicuro e tardivo,
nel tempo che tace!
Ma nutri il lumino soletto
che, dopo, ci brilli sul letto
dell’ultima pace!

Giovanni Pascoli, da “Canti di Castelvecchio”, 1907

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La domenica dell’ulivo

Hanno compiuto in questo dì gli uccelli
il nido (oggi è la festa dell’ulivo)
di foglie secche, radiche, fuscelli;
quel sul cipresso, questo su l’alloro,
al bosco, lungo il chioccolo d’un rivo,
nell’ombra mossa d’un tremolìo d’oro.
E covano sul musco e sul lichene
fissando muti il cielo cristallino,
con improvvisi palpiti, se viene
un ronzio d’ape, un vol di maggiolino.

Giovanni Pascoli, “La domenica dell’ulivo”, da “Myracae”, 1905

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Gli alberi camminano

“Tu non sai: ci sono betulle che di notte
levano le loro radici,
e tu non crederesti mai
che di notte gli alberi camminano
o diventano sogni.
Pensa che in un albero c’è un violino d’amore.
Pensa che un albero canta e ride.
Pensa che un albero sta in un crepaccio
e poi diventa vita.
Te l’ho già detto: i poeti non si redimono,
vanno lasciati volare tra gli alberi
come usignoli pronti a morire”

Alda Merini

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Charles-Harold Davis, “La quercia”, 1903

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Favale di Màlvaro

“C’è un albero di uomini
che affonda le radici
in cielo
è come un baobab e contiene
più di 120 mila litri
d’acqua e sangue
nel suo tronco
è l’albero al contrario
e chi lo cura è un verbo
impersonale

piove”

Simone Biundo , da “Le anime elementari“, 2020

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Palme

“Nasciamo dalla sete. Siamo palme
che crescono a forza di perdere
i propri rami. I tronchi sono ferite,
cicatrici rimarginate dal vento e dalla luce,
quando il tempo, quello che fa e quello che trascorre,
occupa il cuore e lo trasforma in nido
di perdite, ne erige la sua aspra colonna.

E per questo le palme sono allegre
come coloro che hanno saputo soffrire in solitudine
e ora si cullano nell’aria, spazzano nubi
e dalle loro chiome consegnano
inni alla luce, fonti di fuoco,
ventagli a dio, addio a tutto.
Tremano, testimoni di un miracolo
che conoscono soltanto loro.

Siamo come la sete delle palme
e ogni ferita aperta verso la luce
ci fa sempre più alti, più felici.
Perdite sono i nostri tronchi. È trono
il nostro dolore. Non è bello
soffrire ma bisogna aver sofferto
per sentire, come un intimo nido,
la meraviglia dei sopravissuti
che ringraziano l’aria, e poi scoppiano
per l’alta gioia in mezzo al deserto.”

Juan Vicente Piqueras, “Palme”

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I limoni

“Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.”
Eugenio Montale, “I limoni”, 1921, successivamente inserita in “Ossi di seppia”, 1925

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Giovanni Proietto, “Nel giardino dei limoni”

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Per essere albero

“Per essere albero
devi imparare, almeno una volta,
a essere ombra.
Per essere albero
devi avere la vita che ti scorre dentro,
confonderti tra i colori di mondi che vivono altrove,
Per essere albero
devi saper essere foglia e radice
sfidare il vento, nasconderti dentro la terra.
Saper crescere attorno ai cerchi concentrici della memoria,
come il segno di tempi che si rincorrono lungo la vita.
Per essere albero,
per essere davvero albero,
devi saperti protendere al cielo,
saper parlare da solo alla luna,
saperti guardare nel riflesso di un fiordo,
seguire lo scorrere della vita a fianco del fiume.
Come una sequenza ininterrotta di storie da raccontare

Guatan Tavara, “Per essere albero”

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Mi hanno raccontato

 

“Mi hanno raccontato che ieri hanno tagliato l’albero
davanti a casa tua
per mettere al suo posto
un palo del telefono.
Credo che avrebbero potuto installare i fili
sui rami forti della tua acacia,
ma pare non volessero rischiare
che qualcuno, alzando la cornetta,
sentisse la voce di un passero triste
che si informava su un fiore che è sparito da giorni:
aveva i petali violetti, il calice colore della luna
adorno di un cappello dorato di polline.
Offresi ricompensa. Firmato: il passero.”

Jairo Anìbal Nino, “Mi hanno raccontato”, da “Mi fa male la pancia del cuore: poesie d’amore dai banchi di scuola”

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A un olmo secco

“Al vecchio olmo, spaccato dalla folgore
e nel mezzo marcito,
con le piogge d’aprile e il sole a maggio,
sono spuntate alcune verdi foglie.
Oh, l’olmo secolare sopra il colle
ch’è lambito dal Duero! La corteccia
bianchiccia da un gialligno musco è tinta
nel tronco putrefatto e polveroso.
Come i pioppi canori, che sorvegliano
il cammino e la riva, non sarà
di rossicci usignuoli popolato.
S’arrampica su esso di formiche
un esercito in fila, e nelle viscere
tramanos i ragni le lor grigie tele.
Olmo del Duero, prima che t’abbatta
con l’ascia il legnaiuolo, e il falegname
trasformi in un mozzo di campana ,
stanga di carro o giogo di carrettai
prima che rosso nel camino arda
domani in qualche misera casetta.
sull’orlo d’una strada;
prima che ti annienti un turbine e ti schianti
il soffio delle candide montagne;
prima che il fiume ti sospinga al mare
per valli e per burroni,
olmo, voglio annotare nei miei appunti
la grazia  del tuo ramo rinverdito.
Anche il mio cuore aspetta,
alla luce guardando ed alla vita,
altro prodigio della primavera.

Antonio Machado, da “A un olmo secco”

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 Renato Guttuso, “Nel bosco di Velate”, 1985

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Foreste

“Tante foreste strappate alla terra
massacrate
finite
rotativizzate
Tante foreste sacrificate per fornire la carta
ai miliardi di giornali che ogni anno attirano l’attenzione dei lettori sui rischi del disboscamento.”
Jacques Prévert, “Tante foreste”
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Dormono selve

“Matrice secca d’amore e di nati,
ti gemo accanto
da lunghi anni, disabitato.
Dormono selve
di verde serene, di vento,
pianure dove lo zolfo
era l’estate dei miti,
immobile.
Non eri entrata a vivermi,
presagio di durevole pena:
La terra moriva sulle acque
antiche mani nei fiumi
coglievano papiri.
Non so odiarti: così lieve
il mio cuore d’uragano.”

Salvatore Quasimodo, “Dormono selve”, da “Oboe sommerso”, 1932

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Luce opprimente
“Stanno due alberi nella neve,
stanco della luce, il cielo
se ne va e null’altro intorno
che non sia malinconia
E spuntano dietro gli alberi
scure case.
Ora si sente uno discorrere,
ora i cani si mettono ad abbaiare.
Ora nella casa appare
la cara lampada rotonda come la luna.
Ora è spenta,
come una ferita aperta.
Quanto piccolo il vivere qui
e quanto grande il niente.
Il cielo, stanco della luce,
tutto ha dato alla neve.
I due alberi le teste
chinano fra loro.
Alla quiete del mondo
fanno girotondo le nubi.”
Robert Walser
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Il silenzio delle piante
“La conoscenza unilaterale tra voi e me
si sviluppa abbastanza bene.
So cosa sono foglia, petalo, spiga, stelo, pigna,
e cosa vi accade in aprile, e in dicembre.
Benché la mia curiosità non sia reciproca,
su alcune di voi mi chino apposta,
e verso altre alzo il capo.
Ho dei nomi da darvi:
acero, bardana, epatica,
erica, ginepro, vischio, nontiscordardimé,
ma voi per me non ne avete nessuno.
Viaggiamo insieme.
E quando si viaggia insieme si conversa,
ci si scambiano osservazioni almeno sul tempo,
o sulle stazioni superate in velocità.
Non mancherebbero argomenti, molto ci unisce.
La stessa stella ci tiene nella sua portata.
Gettiamo ombre basate sulle stesse leggi.
Cerchiamo di sapere qualcosa, ognuno a suo modo,
e ciò che non sappiamo, anch’esso ci accomuna.
Io spiegherò come posso, ma voi chiedete:
che significa guardare con gli occhi,
perché mi batte il cuore
e perché il mio cuore non ha radici.
Ma come rispondere a domande non fatte,
se per giunta si è qualcuno
che per voi è a tal punto nessuno.
Epifite, boschetti, prati e giuncheti –
tutto ciò che vi dico è un monologo
e non siete voi che lo ascoltate.
Parlare con voi è necessario e impossibile.
Urgente in questa vita frettolosa
e rimandato a mai.”
Wisława Szymborska, “Il silenzio delle piante”, da “Attimo”, 2007
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Gli alberi sono felici
“Gli alberi sono felici
nella luce, ne sono sicuro:
respira il verde delle loro foglie
verso il sole come in un estatico
equilibrio dell’essere.
Misteriosa è la pace degli alberi
sulla terra, il tendere dei rami
al cielo, il penetrare delle radiche,
il fremito delle foglie,
l’aprirsi dei fiori,
l’arcano dei loro colori
di cui non sappiamo
assolutamente nulla:
ma attraverso gli occhi
essi ci vanno nell’anima
e sono le rivelazioni
che riceviamo dalla religione
perenne che si celebra nel tempio
della natura.
O alberi salmisti, con pianete
di luce, il vostro salmo
rimormoro devoto nel mio cuore.”
Giorgio Vigolo, da “La luce ricorda”
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Nelle voci
“Nelle voci
degli alberi vecchi
riconosco quelle dei miei avi.
Vigili da secoli.
Il loro sogno è nelle radici.”
Humberto Ak’abal (discendente della comunità maya k’iche’ di Momostenango, in Guatemala), da “Tessitore di parole”
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Gezi Park
Il ramo dell’albero
malgrado tutto
si distende nel cielo
come a prendere nelle mani
la prima luce
è per questo
che l’uomo oscuro non ama il verde
il corpo dell’albero ti chiama
corri a stringerlo, vedrai
è come stringere l’amata,
le radici
ti mostrano il passato
osservi il bosco da lontano
nell’incerto raggiungere
quella linea verdissima:
parchi, giardini,
vicoli della città
gli alberi amano vivere con gli uomini
gli uomini no
gravità! tieni i piedi ben saldi
gli alberi hanno scoperto da tempo
il luogo che tu cerchi ancora
Tuğrul Tanyol (poeta turco), scritta dopo le proteste di Gezi Park del 2013
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Oh Ciliegi, siete troppo bianchi per il mio cuore
“Oh Ciliegi, siete troppo bianchi per il mio cuore,
e tutta la terra è imbiancata dalla vostra morte,
e tutti i vostri rami vanno a immergersi al fiume,
e ogni goccia sta cadendo dal mio cuore.
Ora, se c’è giustizia nell’angelo dagli occhi lucenti
egli dirà “Basta!” e mi porgerà un ramo di ciliegio.
L’angelo con la barba, deciso e diretto come una capra
alza il muso ruminante e lentamente mastica in faccia alla neve.Capra, devi stare qui?
Devi stare ferma qui?
Starai sempre qui,
a prova di fede, a prova di innocenza?”
Doris Lessing, da “Fourteen poems”, 1959
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Séraphine Louis, “L’albero del Paradiso”, 1928-1930
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L’albero
“Aveva, albero,
disobbedito alla sua norma,
aveva
lui
tradito o altri
contrastato la sua forma,
deviato dal suo fine
la sua forza?
E ora era
deforme
per errore
o cattiveria
di chi? Si logora,
si imbroncia.
«Non piangere,
albero, non gemere»
gli gridano
le rondini
nei tuffi e negli affondo
del loro mulinello. «C’è
un’armonia più estesa
e misericordiosa
che abbraccia anche il tuo sgorbio,
lo modula, lo lima,
lo commisura
al suo perenne ritmo…»
Chi è, non è nessuno
ma c’è, onnipresente,
colui che raccoglie questo dialogo
e passa tra gli effimeri che passano
nel vento inesauribile del mondo…”
Mario Luzi da “Promenade humaine I”, in “Sotto specie umana”
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L’Albero
“Non siamo poi tanto diversi,
nasciamo per essere amici:
qui dove io ho chioma hai capelli
e dove tu hai piedi ho radici.
Sorridi e mi guardi confuso,
ho visto i tuoi nonni bambini,
appoggiati al tronco un minuto,
abbracciami e stiamo vicini.
Impara la storia del mondo
che un albero può raccontare:
pur fermo ho uno sguardo profondo,
pur quieto so farmi ascoltare.
Il vento dà voce ai miei rami,
sussurra il suo canto gentile,
tu dimmi: mi servono mani,
mi servon parole per dire?
Al fresco di queste mie foglie
riposa e respira la vita…
quest’aria che il cielo raccoglie
ti dono, sottile, pulita.
Vorrei tu piantassi altre piante,
vorrei lo faceste un po’ tutti,
voi bimbi che oggi giocate,
domani sarete voi adulti.
Piantateci ovunque a milioni,
più verde la Terra è più pura,
insieme saremo migliori,
insieme noi siamo natura.”
Franco Pistono, “L’albero”
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E anche gli alberi dormono in piedi come cavalli
“E anche gli alberi dormono in piedi come cavalli
dormono tutta la notte con le foglie abbassate
e le fronde quasi a terra.
Dormono senza sogni con gli scheletri sul marciapiede
schiacciati dalla luna.
S’è assopita anche la linfa.
Anche gli uccelli dormono nei loro nidi fra i rami.
Nel profondo fin dove può arrivare la mano vertigionosa del buio
le radici tacciono di parole cieche.
Al sonno perpendicolare risponde il silenzio.”
Jan Skácel (poeta ceco), da “Il colore del silenzi”, 2004
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Félix Vallotton, “Il vecchio ulivo”, 1922
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Cuore di legno
“Il mio vicino di casa è robusto.
E’ un ippocastano di corso Re Umberto.
Ha la mia età ma non la dimostra.
Alberga passeri e merli, e non ha vergogna,
in aprile, di spingere gemme e foglie,
fiori fragili a maggio,
a settembre ricci dalle spine innocue
con dentro lucide castagne tanniche.
È un impostore, ma ingenuo: vuole farsi credere
emulo del suo bravo fratello di montagna
signore di frutti dolci e di funghi preziosi.
Non vive bene. Gli calpestano le radici
i tram numero otto e diciannove
ogni cinque minuti; ne rimane intronato.
E cresce storto, come se volesse andarsene.
Anno per anno, succhia lenti veleni
del sottosuolo saturo di metano;
è abbeverato d’orina di cani,
le rughe del suo sughero sono intasate
dalla polvere settica dei viali;
sotto la scorza pendono crisalidi
morte, che non saranno mai farfalle.
Eppure, nel suo tardo cuore di legno
sente e gode il tornare delle stagioni.
Primo Levi, da “Ad ora incerta”
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Vogliamo imparare in due giorni
Vogliamo imparare in due giorni
una lingua millenaria
che solo gli alberi conoscono:
lasciarsi cullare dall’aria,
mentre le foglie dicono “me ne vado”
e le radici “resto qui”.
Alfonso Brezmes, da “Quando non ci sono”, 2021, Traduzione di Mirta Amanda Barbonetti
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In evidenza: Foto di Sonia Simbolo

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