Magazzino Memoria

Il viaggio di Koband

11.11.2021
Ero nel mio letto quando sono arrivati gli aerei degli americani. Ho sentito il rumore ch’era ancora notte. Non ci credevo. Pensavo che fosse lo stomaco di Saadi, mio cugino, che mangia troppi pistacchi. Erano gli aerei degli americani. Uno stormo di uccelli grigi e giganti. Liberi, potenti.
Per la prima volta il cielo era sopra di noi. Aperto sopra di noi. Non sotto di noi. Non era nascosto sotto la terra. Come me, come tutti noi, maledetti dalla storia e senza patria.
Dopo qualche giorno si vendevano le armi sui banchi del mercato. Insieme ai datteri e ai cocomeri. Io ho comperato una pistola e l’ho portata sempre con me. Qui, nella tasca dei pantaloni. L’ho usata, certo che l’ho usata. Ho sparato, certo che ho sparato. Non ho ammazzato nessuno. Ma avrei potuto farlo. Saadi al mercato ha comperato un kalashnikov e 500 cartucce. Sì, cinquecento cartucce.
Si pagava con dollari, o con le mine disinnescate che avevamo trovato nei campi di Kirkuk. Io ne avevo trovate cinquanta. Cinquanta gambe risparmiate.
Quando sono arrivati gli americani avevo vent’anni.
Avevo paura. Ma non era diverso da quando ne avevo dieci. Da quando ne avevo otto, o due. Avevo paura anche prima. Ho sempre avuto paura. Avevo paura anche nella pancia di mia madre. Sono nato mescolato alla paura.
Ho cominciato a lavorare per gli americani. Pagavano bene, quattromila dollari al mese. Io guidavo il camion e cercavo le informazioni. Cercavo informazioni per gli americani, cercavo gli eroi, quelli che non avevano paura, cercavo i fratelli. Qualcuno li chiamava martiri o combattenti. Qualcuno li chiamava terroristi.
Telefonavo a mia madre, tutte le ore, per dirle che non ero morto. Non ancora, pensavo.
Ve l’ho detto, avevo paura, l’unica cosa che volevo era una vita senza paura. Una vita senza paura. Avrei potuto vivere dappertutto, avrei potuto vivere di niente, con due mucche, un orto. Tre galline.
Un giorno gliel’ho detto a mia madre. Le ho detto vado via, non mi aspettare, non so se torno, non posso più stare con questa paura che mi sbatte contro il cuore. Che mi squassa, che mi esplode nel petto.
S’è messa a piangere, subito, mentre impastava il pane. Le cadevano le lacrime nella farina. E anche dopo, i giorni che sono venuti dopo, non ha più smesso. Da quando gliel’ho detto a quando sono partito ha pianto. E adesso non so se ha smesso di piangere, perché non la posso vedere.
E questo mi fa pena, perché forse piange anche adesso, anche adesso in questo momento, ma io non la vedo, nessuno la vede. E piange e suda, mentre impasta il pane con quel ventilatore che le manda l’aria addosso e le lacrime scappano sul naso per l’aria delle pale, e lei non se le asciuga, perché ha le mani nella farina. Mamma, smettila di piangere!
Neanche Saadi la vede, ch’ è partito prima di me, è finito in un campo di profughi nel nord della Francia, ma poi in Inghilterra lui c’è arrivato davvero.
Sono partito il sette, sette, duemila e sette. Non ve lo direi se non fossi certo che il sette mi porterà fortuna. E la fortuna mi toccherà una spalla. Forse.
Io sono nato mescolato con la paura, ma mia madre mi ha tenuto in pancia e mi ha fatto venire al mondo di nascosto, sotto la sua sottana lunga. E mi ha voluto bene lo stesso.
Là, dove stavo, niente è tuo, non è tua la terra, non è tua la casa, non è tua nemmeno la tua gente, tuo padre, tuo nonno. Perché oggi c’è, ma domani non lo sai se c’è. Salta in aria.
Abbiamo raccolto i pezzi di Kale e di suo fratello piccolo. Volati dappertutto, sui davanzali, sui fili della luce. Il vecchio Adnan si è lasciato morire nella neve quando ha perso suo nipote.
E’ rimasto lì, seduto nella neve, tre giorni e tre notti, finchè ha piegato il corpo in avanti. Sembrava che volesse baciarla quella neve benedetta che se l’è preso. E nessuno l’ha portato dentro, perché era la sua volontà.
Quella di Adnan è stata una gran bella fine, voglio dire. Lui l’ha cercata. Lei è venuta. Adnan era un vecchio uomo di grande volontà.
Mio padre se n’è andato in tutt’altra maniera. Parlo di Omàr, quello che ha deciso di farmi da padre. E’ rimasto sotto una cassa di viveri, quando è andato in montagna con i combattenti, schiacciato da una cassa di cibo. Roba da mangiare, lanciata da un aereo. C’era olio, scatolette, fagioli, riso…
Sono partito con Karuan. Vent’anni anche lui. Avevo soldi per tutti e due. Io ci metto i dollari e tu la macchina, gli ho detto. Ok? Ok! Il visto di un mese per la Turchia, anche per lui. Ok? Ok!
Karuan aveva paura come me, ma faceva finta di no. Lui era uno spavaldo. Si è messo al volante e siamo partiti. Verso la Siria, per arrivare al confine turco.
A cosa pensi Karuan? A niente. E tu a cosa pensi?… A niente
Dopo un po’ di strada si è messo a cantare. Ma si vedeva ch’era nervoso. Cantava male. Se mi chiedete se vedevo qualcosa davanti agli occhi vi dico di no. Non avevo niente davanti agli occhi. Non avevo niente. Neanche quello che stava dietro. Niente. Non vedevo niente, neanche mia madre, neanche la cucina, la strada di casa, gli alberi, niente. Ero nel buio. Buio nella testa, un’enorme palla di buio.
Adesso posso farlo di pensare a quello che ero prima del sette, sette, duemilaesette. Prima di quella fuga, da studenti in vacanza… (“Siamo studenti, in vacanza. Studenti in vacanza”. Abbiamo detto così, ai soldati al confine).
Adesso posso dirvelo cos’ero io prima. Prima di raggiungere Aleppo, prima di attraversare la risaia, prima di quel pullman per Istanbul. Prima, ero un bambino impaurito… poi un ragazzino impaurito…e poi un uomo impaurito.
Avevo paura anche delle galline, da piccolo. Del rumore che facevano con le ali contro la rete del pollaio. Avevo paura che la diga si rompesse. Che il campo di pistacchi finisse sott’acqua..
Ogni due giorni si dovevano innaffiare le piantine di pistacchio, mica tutti i giorni. Ogni due giorni. Mica tutti i giorni. Per bene. Sennò marcivano. Ma se la diga rompeva andava tutto sott’acqua, e basta, fine. Era successo, sì, una volta era successo.
Non avevo niente nella testa quando siamo partiti. Buio. E buio. Ho dormito venti ore sull’autobus. La macchina l’avevamo lasciata sotto un ponte a nord della Siria, e infilato la targa in una crepa del terreno. Se avevo ancora paura? Che razza di domande. Ho dormito 20 ore per la paura. Venti ore ho dormito! Venti ore senza sonno. Con la faccia bagnata. Con un pianto che non so se è il mio. Con la testa che sbatte contro il finestrino, senza sapere se è la mia testa. Se i miei incubi sono i miei. E sogno, perso in quel sonno buio. Sogno corpi bagnati, che pendono, con una corda al collo. E mia madre giovane con la sottana alzata. Una sottana rossa con dei fili di seta dorata. Sogno un esercito di soldati arrivare come un tuono sotto una pioggia sporca. Fratelli rinnegati della mia stessa terra. Sogno stivali che pestano il fango e prendono a calci i vecchi…per farli salire sui camion e deportarli.
E sogno il sangue di mia madre che gocciola nel fango e forma un fiore di geranio. Il primo omaggio per lei, ricevuto da un uomo. Sogno le sue grida…e le vecchie colpite sulla faccia con il calcio del fucile. Uomini che affondano negli escrementi fino al collo. Sento la voce di Karuan che mi dice: Devi essere felice. Felice di che? Di non essere ancora morto. Poi Karuan mi strattona. Mi colpisce il braccio con un pugno per svegliarmi. Comincio a tossire. Mi trascina come un sacco giù dall’autobus e mi rimette in piedi.
Abbiamo aspettato che facesse buio e ci siamo incamminati. Gli altri si sono aggiunti. Poco per volta. Uno, poi l’altro. Una donna con un figlio, poi due ragazzi. Poi una famiglia di tre. Sembrava che venissero fuori dal niente, dal niente. Prima non c’erano poi c’erano. Alla fine eravamo undici, con due piccoli.
I capi, quelli che ci avevano preso a Istanbul per farci attraversare, erano cani rabbiosi. Grossi e sporchi come bestie sporche. I soldi li hanno voluti prima. E’ evidente. Che domande. Ne avevano molti di soldi, arrotolati nelle tasche. Non parlavano con nessuno. Non chiedevano niente. Che cazzo c’era da chiedere?
Io no. Io non lo sapevo dov’ero, andavamo verso la Grecia, questo sì lo sapevo. E che alla risaia non ci sarebbero state le guardie, perché lì la zona non è sorvegliata. Questo sì lo sapevo. Pagato avevamo già pagato. Ve l’ho detto. Che domande. Abbiamo camminato su una strada di sassi tutta la notte, e poi, se dio ha voluto, abbiamo dormito sotto un albero, un paio d’ore.
Siamo arrivati alla risaia. E poi nell’acqua fino alle ginocchia. Quante ore? Non lo so, quindici…venti. Non lo so. L’acqua era putrida e tiepida e le zanzare ci mangiavano la schiena. Portavamo in braccio i piccoli a turno. Quando è finita l’acqua da bere hanno cominciato a piangere. Avevano sete. Avevamo tutti sete, c’era caldo e l’aria era bagnata.
Uno dei due uomini/bestia stava davanti alla fila e uno dietro. Se qualcuno rallentava lo colpivano. Avrei voluto prendere per mano Karuan mentre camminavamo in quella melma con le gambe gonfie per le zanzare, ma non l’ho fatto. Sentivo il suo braccio contro il mio. Quando i nostri corpi si toccavano, ci passavamo il coraggio dalla pelle.
Non vedevamo dove finiva la risaia, ma una fine doveva pure averla. O no? Questi ci ammazzano di stanchezza e cadiamo in terra con la bocca nell’acqua, o ci tirano un colpo in testa. Pensavo. Tanto i soldi li hanno già presi. Pensavo questo. E poi cos’è successo? E poi cos’è successo? E poi? Ma cos’è successo…..Quando?
Quello che è successo posso solo sognarlo. Lo sogno quando la memoria disgraziata del mio inizio mi fa visita. Quando dormo senza sonno con la testa schiacciata da un materasso di carne arrotolato attorno a me, quando sento in bocca un sapore di sangue, di sperma e di fango.
…..Io sono paura e vergogna. Paura e colpa. Sono l’unico giorno fecondo, maledetto e benedetto. L’unico giorno in cui è permesso entrare. Entrare in una casa negata, in una storia negata, in una donna negata. Entrare, entrare, prima, con la canna del fucile, per aprire la strada, e poi infilarsi e spingere, fino in fondo, fino a squarciare. Fino a mescolare morte e vita, fine, principio, e vita, e morte, e paura.
Il fiume lo abbiamo attraversato sul gommone, poi una macchina ci ha preso e siamo arrivati all’alba sulle coste della Grecia. Ci hanno dato dei jeans e delle camicie pulite. E ci hanno fatto cambiare i vestiti per sembrare gente normale. Lì quattro macchine ci hanno caricato e ci hanno portato vicino alla stazione. Hanno preso strade diverse. È evidente, per non dare nell’occhio. Karuan era seduto di fianco a me sulla macchina, gli altri non li ho più visti.
Ci hanno dato i biglietti del treno. Lì dovevamo dividerci. Arrivare alla stazione separati, ok? Ok! Io sono andato avanti, Karuan era dietro di me. Ho attraversato la strada. Dietro è passata una macchina della polizia. Poi altre macchine della polizia. Se mi fermano non mi rispediscono a casa, mi portano in galera, pensavo. Non mi sono girato. Ho camminato in fretta, sempre più in fretta. Alla stazione ho cercato il binario. Sono salito sul treno per Atene e ho dormito. E ho sognato.
Sogno che ha smesso di piovere e anche mia madre ha smesso di gridare. E’ uscito il sole, è inorridito….
Quando la pancia di mia madre diventò poco più grande di una grossa mela, fu proprio Adnan a portarla lontano dal paese, perché così doveva essere. Anche lui vedo nel sogno, la sua faccia larga che brilla di sudore, diventare a poco a poco mostruosa, come una maschera deforme di legno marcito. Mette in ordine le pagnotte sul tavolo di cucina. Lei le infila in una borsa di paglia che si getta sulle spalle, e s’incammina con lui sulla strada. Adnan le dice di camminare dietro, un po’ distante, perché lei ora non merita rispetto. Sogno che mia madre gli va vicino e lo obbliga a guardarla negli occhi per farlo vergognare. Ma è lei a provare vergogna. E si fa umile, e piccola, mentre Adnan diventa grande come la montagna di Chikah Dar.
Li vedo cambiare per la volontà di restare uguali. Per un accordo con un dio del male, sicuro della superiorità di uno sull’altra, di un essere umano sull’altro, di un pezzo di mondo sull’altro. Potrebbe vederla saltare in aria e ricadere a pezzi senza una smorfia. E’ lei adesso la straniera. Quella che non somiglia alla terra che attraversa, quella che non deve avere un posto, né un riparo, né dare riparo.
“Devi essere felice”, mi batte mi batte nella testa la voce del mio amico perduto. Felice di che? Di essere nato.
Mi sveglio di nuovo con la faccia bagnata. Corro attraverso i vagoni. Lo cerco sotto i cappotti. Nel corridoio del treno e nei gabinetti. Karuan non c’è, sul treno non è mai salito. Mi prende una paura bestiale, batto i denti e il mio corpo comincia a tremare…come nei campi di Kirkuk, disseminati di mine. Sento le voci dei miei compagni nella testa mescolate alla paura, mescolate all’umido del bosco.
Ehi Dàrko non tremare. Stai attento, abbassati, non tremare che scivoli sul fango. Non è una sola. Ce ne sono altre sotto le foglie. Lì sotto l’albero. Avvicinati piano, non tremare, abbassati, stacca il filo con i denti…con i denti.
Esplodono schegge come una pioggia d’argento che invece di scendere in terra sale verso il cielo, dopo aver trapassato il braccio di Darko.
Passo due mesi in un posto di merda ai piedi del monte Smolikas. A un’ora di cammino dal porto. Siamo in otto in una stanza putrida. Dormiamo in terra. Mangiamo pane e frutta e possiamo uscire quando fa buio. Di giorno dormo per non sentire la paura. Non smetto di tossire e mi cadono le braghe se non stringo la cintura. Scendo al porto tutte le sere. Un’ora per andare una per tornare. Aspetto un segnale. Qualcuno mi dice che, se ho pagato il dovuto, un uomo mi verrà a cercare al porto. A cercare me, davvero, proprio me, come se fossi veramente un uomo, di carne e di sangue. Un uomo. Un figlio, un fratello, un curdo iracheno, un seguace di Allah, musulmano sunnita. Chi sono, io, chi sono ora, se non la mia paura. Cos’è questo girovagare sulla terra come una formica in cerca di zucchero.
Al porto si imbarcano in trecento prima di me. Sicuro. Ve lo giuro. A gruppi di dieci o di venti. Dipende da quanto è grande il camion. Sento dire che qualcuno è morto su un camion frigorifero. No, che non lo poteva sapere… chiuso a forza dai trafficanti. Certo. Chi paga di più ha più fortuna.
Il 3 di novembre è tutto sistemato. Mi chiedono altri soldi. Se li dividono due uomini. E’ tutto quello che ho. Uno di loro mi dice che saremo 23 sul camion. Tutti giovani. Il camion porta 40 tonnellate di nichel puro. Si imbarcherà su un traghetto con su scritto Vallilis Anek, ma non si sa quando. La notte siamo tutti 23 al porto. Qualcuno porta uno zaino, qualcuno una coperta. Il più piccolo solo i jeans e la camicia che porta addosso.
I capi tagliano con un grosso tronchese il filo d’acciaio che chiude il portellone, ci prendono cellulari, ci fanno salire e richiudono, senza rumore, piombano col filo di stagno.
Da dentro sentiamo le voci soddisfatte. Tutto bene. Tutto bene. Un buon lavoro, ok. Ci stendiamo sui blocchi di nichel, qualcuno a terra, sul fondo del camion. Solo alla mezzanotte del giorno dopo il camion si mette in moto. Ma fa solo un giro del porto per scaldare il motore. Si avvicina al posto di polizia e una guardia controlla la chiusura a piombo. Riprende il suo posto sull’area del porto e spegne il motore.
Alle 5 del mattino accende i fari, e sale sulla rampa della nave. Restiamo cinquanta ore dentro quel bestione, puzzolente di piscio e di merda. Tra mare e strada. Senza mangiare e senza bere. Fermi, che il rimorchio non si sbilanci. E zitti. Non abbiamo voglia di sapere uno dell’altro.
Poi Asim, il piccolo, comincia a smaniare, afferra un grosso lingotto e colpisce il fianco del camion. Picchia, sbatte, spinge, spacca la lamiera sottile per respirare, per non morire, per vedere un pezzo di cielo, che ne so.
Il camionista, un bulgaro grosso come una montagna, si ferma in una stazione di benzina. Gesticola, Impreca o bestemmia in bulgaro. Arrivano tre macchine della polizia, come se ci stessero aspettando. Aprono e ci fanno scendere. Cadiamo a terra, uno sul corpo dell’altro perché le gambe non reggono, e gli occhi vedono solo buio.
Questo dico… che cos’altro devo dire, quando alzo il culo da questa panca. Chi deve entrare adesso? Che ne so. Io Sono Koband Sandar Abdullah. Sono curdo iracheno. Sì, ho messo la cravatta. Me l’hanno prestata al centro sociale. Devo fare una buona figura, no?
Gli uomini della commissione sono cinque. Stanno seduti dietro un tavolo lungo, sono quattro vecchi e uno giovane, quello giovane scrive. Scrive quello che dico.
Devo essere preciso. Mi chiedono se quello che ho scritto nel rapporto è tutto vero. Che razza di domanda. Mi chiedono quando sono partito e quando sono arrivato. Mi chiedono se appartengo a un gruppo politico. Se sono stato arrestato o denunciato in Iraq. Se sono stato arrestato o denunciato in Italia. Mi chiedono se sono sicuro che quello che dico è tutto vero. Se sto dicendo la verità. Sì. Devo essere preciso. Chiedo rifugio, chiedo asilo, chiedo riparo. La cravatta mi stringe attorno al collo. Mi chiedono cosa significa il mio nome, mi chiedono con chi sono venuto, in quale Governatorato si trova Cham Chamal. Quanti chilometri dista Kirkuk da Cham Chamal. Quanti ponti attraversano il Khasa. Dov’è il mio passaporto. Dove sono i miei fratelli. Com’è morto mio padre.
La cravatta mi stringe attorno al collo come il cordone di carne di una madre, che tiene un figlio tra la morte e la vita.

Elena Bellei (giornalista e scrittrice)

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Foto di Nino Fezza cinereporter

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