“Cari ragazzi, io a 17 anni e un mese con i partigiani ho visto nascere la democrazia, ora che sono vecchio devo vederla morire?
La speranza siete voi, restiamo umani!”
Don Andrea Gallo
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Partigia
“Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
quelli che restano hanno i capelli bianchi
e raccontano ai figli dei figli
come, al tempo remoto delle certezze,
hanno rotto l’assedio dei tedeschi
là dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
altri rosicchiano la pensione dell’Inps
o si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c’è congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sarà duro,
ci sarà duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci,
diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
perché nell’alba non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno è nemico di ognuno,
spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
la mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non è mai finita.”
Primo Levi, “Partigia”
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Epigrafe
“O tu che segni, passeggero del colle,
Uno fra i molti, questa non è più solitaria neve,
Porgimi ascolto: ferma per pochi istanti il tuo corso
Qui dove m’hanno sepolto, senza lacrime, i miei compagni:
Dove, per ogni estate, di me nutrita cresce
Più folta e verde che altrove l’erba mite del campo.
Da non molti anni qui giaccio io, Micca partigiano,
Spento dai miei compagni per mia non lieve colpa,
Né molti più ne avevo quando l’ombra mi colse.
Passeggero, non chiedo a te né ad altri perdono,
non preghiera né pianto, non singolare ricordo.
Solo una cosa chiedo: che questa mia pace duri,
Che perenni su me s’avvicendino il caldo e il gelo,
Senza che nuovo sangue, filtrato attraverso le zolle,
Penetri fino a me col suo calare funesto
Destando a nuova doglia quest’ossa oramai fatte pietra.
Primo Levi, 6 ottobre 1952
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Mauro Biani 2020
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Mi’ nòn am’ dsgiva
“Mi’ nòn am’ dsgiva:
“al sèèt tè, che mé
san stè in tì partisèèn?”
“nòn, mé ed politica
an capiss mja gninta”- disiva me
“ma infàt ai’n’era mja d’la politica;
a’i eren dì bosc negher
indovv ti stèvi òr e dé e setmèni
con ‘na fèm un bùr e ‘na pòra
e’d mòrìr adòss
comm’ i’ han sulament al bésti”
-am rispondeva lù.”
(Mio nonno mi diceva: “lo sai tu, che io sono stato nei partigiani?” “nonno, io di politica non capisco niente” dicevo io “ma infatti non c’era della politica; c’erano dei boschi bui dove stavi ore e giorni e settimane con una fame un buio e una paura di morire addosso come hanno soltanto le bestie” – mi rispondeva lui.)
Azzurra D’Agostino, da “Alfabetiere privato”
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Mauro Biani 2020
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La Ballata del 25 aprile
Dicevo in ogni giorno, in ogni mese:
«Verrà verrà l’aprile, quel cortese
d’aprile, le campagne del maggese
dal duro della zolla avranno i fiori».
Io credevo a quel cielo, a quei colori
della speranza, ed era un metter fuori
le parole taciute in tutti i cuori,
un respirare l’aria con gli odori
della terra, vedere gli occhi – i chiari
occhi dei vivi – accendersi nel nome
delle cose chiamate a dirle vere:
la sedia, il pane, l’acqua, il vino, come
nel primo giorno, nelle prime sere.
E per la libertà chiedevo ai mari
la parola del vento che precorre
le sue distanze, il brivido che corre
sull’acqua, l’orizzonte della torre
che oltre il vedere sembra di vedere
bianca nel bianco delle sue scogliere.
E dell’amore dentro me scaldavo
la tenerezza come un figlio, il fiato
dell’umana temperie. «Tornerà
– dicevo – tornerà da questo scavo
di silenzi e di gelo il soleggiato
cammino della terra, la parola
dell’uomo solo non sarà più sola».
Credevo – con il corpo – come il seme
sotto la neve nel germoglio preme
la lieve scorza e sente tutta insieme
la terra che s’appiglia al filo d’erba.
L’Italia vecchia s’era fatta acerba.
La libertà per giungere all’aperto
delle sue piazze, nel clamore incerto
che udivo come in sogno alzare Roma,
era – a sognarla – da lontano come
lo stupore di vivere a chi vede
la prima volta muovere il suo piede.
Quando sarebbe giunta a noi? Milano
era in un lungo inverno dal lontano
settembre: dall’estate di Loreto
di giorno in giorno chiusa nel divieto
delle sue strade in mezzo alla pianura.
Uscì la primavera dall’oscura
notte d’aprile e rivedemmo il giorno.
In Piazza Tricolore, tutti intorno
alla vecchia bandiera, i patrioti
– popolani ragazzi visi ignoti –
uscivano dai libri delle scuole,
dalle Cinque Giornate incontro al sole
della mattina, incontro agli operai.
Era la libertà che non fu mai
così vera, decisa. Dal suo lutto
che in ogni casa ricordava il vuoto
dei morti, degli assenti nell’ignoto
viaggio verso i lager, con tutto
il suo pianto segreto, il duro strazio
di non sapere, confermava l’uomo
umano nel suo vivere lo spazio,
della misura che l’accoglie: voce
di sé per tutti in ogni voce, duomo,
casa, fabbrica, scuola, amore, foce
del grande fiume verso la sorgente.
Era la libertà che non ha niente
e dà nome alle cose, tocca i vivi,
li scuote a dirli vivi più dei vivi.
Ci toccavamo increduli, era vera
la terra, vero il cielo, e nella sera
da braccia a braccia passavamo stretti
nel ballo dietro i canti e gli organetti.
E per la libertà voglio che il mare
non abbia fine e che l’aprile sia
per tutti quella grande primavera
che noi vedemmo uscendo sulla via
con la falcata sempre più leggera,
correndo senza peso alla parola3
dell’uomo solo che non è più sola:
Italia, patria senza monumento,
vita che vive, spazio, luce, vento.
Alfonso Gatto, “La Ballata del 25 aprile”
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Foto tratta dal web
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Madre partigiana
“Questo primo sole, tra i rami esili
dei faggi spogli
ha già un tepore di primavera, un odore
vivo, di foglie cadute che diventan terriccio
di radici avide, di germogli.
Figlio, come diversa questa, per me,
da tutte le altre primavere!
Mai avevo saputo il profumo
del primo raggio fecondo.
Il mondo
per me era la nostra casa
e l’ odore del focolare
e del bucato
e del lardo appeso sotto la cappa del camino
e del fiore reciso che langue nell’ acqua torbida
e del lumino
davanti al sacro cuore di Gesù.
E tu
figlio, coi tuoi capelli odorosi di vita.
Serravo le finestre
perché il profumo angusto e dolce del focolare
non si sperdesse.
E quando quella sera vennero a prenderti, rimasi smarrita
per lo stupore: “Che hai fatto? che hai fatto?”
E tu esitavi e mi guardavi distratto
dal mio dolore.
“Non è nulla , mamma. È un errore
Torno subito”.
Allora, perché indugiavi, Il tedesco ti percosse.
E io piansi.
“Ma ha sedici anni, signore!
Che può aver fatto?”
Oh quante cose avevi fatto, figlio,
oltre le finestre chiuse.
È tiepido questo sole. Asciuga le foglie secche, che crepitano
sotto il passo guardingo dei compagni.
Le armi sono cariche. Scenderemo tra poco.
E quando più tardi (io attizzavo il fuoco
e cuocevo la zuppa per te, figlio.
Non era possibile che tu non tornassi, subito)
quando più tardi vennero a dirmi :”Tuo figlio è tra i morti
sulla piazza, in paese”, io non capivo ancora.
E aggiunsi legna sul focolare
come se tu dovessi tornare,
figlio. E mi misi il mantello
e i guanti di lana
e presi la borsa, per scendere nel paese.
E m’ avviai fuori dell’uscio, nella tramontana
fredda, col mio stupore senza fine.
Quando appoggiai il tuo capo pesante sul mio braccio
i tuoi capelli sapevano di sangue e di terra.
Come queste foglie morte di faggio
molli ai germogli nuovi di primavera.”
Joyce Salvadori Lussu (partigiana, capitano nelle brigate “Giustizia e Libertà”), da “Ragazzi della Resistenza”, 1944
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Avevo due paure
“Avevo due paure
La prima era quella di uccidere
La seconda era quella di morire
Avevo diciassette anni
Poi venne la notte del silenzio
In quel buio si scambiarono le vite
Incollati alle barricate alcuni di noi morivano d’attesa
Incollati alle barricate alcuni di noi vivevano d’attesa
Poi spuntò l’alba
Ed era il 25 Aprile”
Giuseppe Colzani, “Avevo due paure”
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Foto di Sonia Simbolo
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Lapide ad ignominia
“Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio del torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA”
Piero Calamandrei, “Lapide ad ignominia”
(L’epigrafe di Calamandrei, scolpita sulla lapide affissa nel 1952 nell’atrio del Palazzo Comunale di Cuneo, trae motivo dai seguenti fatti: alla fine della seconda guerra mondiale, Albert Kesselring, comandante delle truppe di occupazione in Italia, fu processato a Venezia, nel ’47, come criminale di guerra e condannato a morte da un Tribunale militare alleato, in quanto responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, di quello di Marzabotto e di molte altre stragi. La pena, dapprima commutata in ergastolo, venne poi ridotta a 21 anni, finché, nel 1952, fu liberato per sopravvenuti motivi di salute. Tornato in Baviera, Kesselring dichiarò che gli italiani avrebbero dovuto fargli un monumento per il “trattamento” che avrebbe loro riservato emanando alle sue truppe, il 17 giugno 1944, il seguente bando: “Io proteggerò qualunque Comandante che, nella scelta e nella severità dei mezzi adottati nella lotta contro i partigiani, ecceda rispetto a quella che è la nostra abituale moderazione.“)
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Foto tratta dal web
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Fucilazione
“Un bambino faceva le bolle di sapone
dalla finestra quando mi fucilarono
sulla piazza piantata di alberi senza nome,
una mattina deserta con poco sole
tra i rami secchi che non trattenevano le voci,
tra quinte grigie d’imposte sprangate
oscillavano effimere formazioni, grappoli
subito disfatti in acini trasparenti.
Un bimbo, solo una tenera macchia viva
in un rettangolo nero,
c’era un vasetto rosso sul davanzale,
la sola cosa rossa di quel giorno tutto grigio,
io non potevo vedere i suoi occhi
sentivo la sua anima appendersi dondolando
in cima alla cannuccia di paglia,
staccarsi con un brivido, volare in silenzio,
trattenere il fiato per pregare il vento,
attraversare il poco sole in punta di piedi,
rapita in una smorfia di felicità.
I miei carnefici gli voltavano le spalle,
nessuno di loro poté vedere le sue mani
in adorazione, quando una bolla
più gonfia, la più bella di tutte,
partì dal davanzale come un pianeta di cristallo,
e prima di scendere salì verso il tetto
come una preghiera, come una favola
piena d’ogni dolcezza che non si può perdere,
intatta e vera per il suo tempo giusto,
non ci sono abbastanza plotoni di esecuzione
in questo mondo e ogni altro
per fucilare tutte le bolle di sapone.”
Gianni Rodari, “Fucilazione”, da “Il cavallo saggio. Poesie Epigrafi Esercizi”
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La madre del partigiano
“Sulla neve bianca bianca
c’è una macchia color vermiglio;
è il sangue, il sangue di mio figlio,
morto per la libertà.
Quando il sole la neve scioglie
un fiore rosso vedi spuntare:
o tu che passi, non lo strappare,
è il fiore della libertà.
Quando scesero i partigiani
a liberare le nostre case,
sui monti azzurri mio figlio rimase
a far la guardia alla libertà.
Gianni Rodari, “La madre del partigiano”, da “Grammatica della fantasia”, 1973
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La Resistenza e la sua luce
“Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. Non poté mai sfiorire,
neanche per un istante, neanche quando
l’Europa tremò nella più morta vigilia.
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino
del piano friulano: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce ….
Quella luce era speranza di giustizia:
non sapevo quale: la Giustizia.
La luce è sempre uguale ad altra luce.
Poi variò: da luce diventò incerta alba,
un’alba che cresceva, si allargava
sopra i campi friulani, sulle rogge.
Illuminava i braccianti che lottavano.
Così l’alba nascente fu una luce
fuori dall’eternità dello stile …
Nella storia la giustizia fu coscienza
d’una umana divisione di ricchezza,
e la speranza ebbe nuova luce.
Pier Paolo Pasolini, “La Resistenza e la sua luce”, da “La ricchezza (1955-1959)”, in “La religione del mio tempo”, 1961
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Foto tratta da “Il blog di Mario Avagliano” (marioavagliano.blogspot.com)