Linguaggi

Noi donne afghane

13.11.2021

Ci hanno derubato della nostra vita e ci hanno lasciato l’illusione di vivere.”

Roberta Gately, da “Le ragazze di Kabul”, 2010

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Parwana Fayyaz

 

“Un colpo,
il padre apre la porta.
Là sono gli altri padri,
e i volti delle madri sussultano.
Le figlie stanno in piedi dietro di loro.
Nel fondo della notte oscura,
i loro colori, giallo e turchese,
rigano il cielo.
“Zibon, figlia mia,
portale alla grotta”.
Le diedero una lanterna
e lei fece strada.
Il gregge di colori le fluiva dietro.
La notte era lenta,
il suono dei passi la melodia solitaria di un mistico.”
“Il suo nome era Nadia.
Ma preferiva essere chiamata Anjuman.
Colei che Chiama e la sua Costellazione in un angolo,
la congregazione che non tace.
Si erano date il nome di circolo del cucito.
Tra loro, voci sconosciute trovavano ascolto.
Tra loro, poesia fioriva dall’invisibilità.
Fuori del cerchio, Nadia era prigioniera.
Nella sua solitudine, pregava in poesia.”
“La mia, che aveva una gonna color verde regale, era la maggiore e la più alta,
e la chiamai Duur, Perla.
Shabnam scelse una gonna giallo splendente
e chiamò la sua bambola Pari, Angelo.
E la nostra sorellina, Gohar, prese una stoffa di un blu profondo
e chiamò la sua bambola Raang. Colore.
Vissero più a lungo della nostra infanzia.”
Parwana Fayyaz, da “Forty Names” (“Quaranta Nomi”), 2022 – Traduzione di Lea Niccolai, 2022
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Aghi da cucito
“Quando la guerra cominciò, mio padre portò mia madre a fare un viaggio,
un viaggio che nessuno dei due desiderava –
lontano da casa e via dalla città.Sulla strada verso l’esilio, mia madre aveva con sé i nostri piccoli piedi
e le nostre piccole mani, la sua scatola di aghi da cucito
e la cucitrice Butterfly prodotta in Unione Sovietica.Muovendoci tra stanza in affitto, il tessuto divenne per lei una terra familiare.
Aperta la scatola, la cucitrice posata sul pavimento,
confezionava vestiti diversi per colore e consistenza.Kabul le diede velluto di ogni colore –
scelse i toni del fegato e dell’oceano,
bordeaux e lapislazzuli.Il Pakistan le diede il raso, in giallo e arancio,
preferì qualcosa
color cipolla.L’India le diede il cotone, sia spesso che sottile,
e lei ne scelse un tipo
di media consistenza.Un anno imparò a filare la lana grezza.
Con il denaro guadagnato,
comprò seta.Aspettava. Aspettavo.
Finché la pelle dura dei suoi polpastrelli non si ammorbidì
e poté maneggiare quella seta.Allora fece abiti per le sue tre figlie,
Parwana, Shabnam e Hohar, e i colori erano
pistacchio, vermiglio e verde acqua.Ogni punto del suo ago riportava in vita
gli stili eleganti della giovinezza e l’orgoglio
di una madre afghana, anche in esilio.
Parwana Fayyaz, da “Quaranta nomi”, 2022
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Il nome di mia madre è Roqeeya
“Il nome di mia madre è Roqeeya.
Ma nessuno la chiama più con quel nome.
È diventata la figlia di Chaman Grass,
la madre di Ali,
la madre dei bambini, o la moglie di Oo.
Sono passati cinquantatré anni.
Questa sera, cercando la solitudine,
sale tre piani verso il cielo,
per sedersi sul tetto,
sorseggiare il suo tè.
È una notte chiara di Kabul,
le stelle illuminano il cielo.
Più vibrante degli iris in giardino.
lei non ascolta mio padre,
che la chiama ‘la madre dei bambini’.
Questo è il suo momento.
Ignora i vicini, che la guardano
dietro le loro finestre.
Sorseggia il suo tè.
Per tutta la vita ha guardato le stelle
per i suoi figli.
Stanotte, lei alza lo sguardo.
Queste stelle sono per lei.
Contengono mille sogni,
che brillano ancora dentro.
Un cantautore. Una cantante.
Una sarta. Un venditore di vestiti.
“Una donna con un’idea e un portafoglio,”
diceva a me, sua figlia maggiore,
volendo che io fossi libera.
‘Sii indipendente. Guadagna i tuoi soldi.
Mantieni la tua faccia rossa e il tuo nome verde,’
avrebbe detto teneramente.
Questa notte, sotto le stelle, trova la libertà.
Le stelle condividono il suo trionfo
mentre sorseggia il suo tè.”

Parwana Fayyaz, da “Quaranta nomi”, 2022

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Zahra Khodadadi, “A Hazara family who lives in caves of Bamyan Province”, 2016
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Parwana aveva 7 anni quando la  guerra civile costrinse la sua famiglia a emigrare in Pakistan. Tornata a Kabul all’età di sedici anni, terminò gli studi superiori per poi iscriversi all’università prima in Bangladesh, poi in California. Ricercatrice a Cambridge, e nel 2019 ha vinto il Forward Poetry Prize, con “Forty Names”  (“Quaranta Nomi””, un poemetto ispirato alla storia  di Gulaim, l’adolescente guerriera che,  con l’aiuto di  “qyrq qyz”  (40 ragazze), difese il suo paese dagli invasori orientali.
“In Afghanistan le donne restano senza nome, conosciute solo in relazione agli uomini nelle loro famiglie. Anche le loro lapidi non portano i loro nomi. Chiamare una donna per nome è un atto proibito, considerato irrispettoso e persino pericoloso. Questa poesia sfida quel tabù”. (Parwana Fayyaz)

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             Foto di Shirin Neshat
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Nadia Herawi Anjuman

Il diritto di gridare

 

“Non ho voglia di aprire la bocca
di che cosa devo parlare?
che voglia o no, sono un’emarginata
come posso parlare del miele se porto il veleno in gola?
cosa devo piangere, cosa ridere,
cosa morire, cosa vivere?
io, in un angolo della prigione
lutto e rimpianto
io, nata invano con tutto l’amore in bocca.
Lo so, mio cuore, c’è stata la primavera e tempi di gioia
con le ali spezzate non posso volare
da tempo sto in silenzio, ma le canzoni non ho dimenticato
anche se il cuore non può che parlare del lutto
nella speranza di spezzare la gabbia, un giorno
libera da umiliazioni ed ebbra di canti
non sono il fragile pioppo che trema nell’aria
sono una figlia afgana, con il diritto di urlare.”

Nadia Herawi Anjuman

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La più pallida
“Non tormentarmi, la serratura del mio cuore è chiusa
La statua del tuo desiderio non si trova
Lo scrigno della tua gentilezza è grande, è grande
Non riesce a farsi strada nel mio corpicino
La via che ci sta davanti è formata da due linee parallele
Significa che la storia di me e te non diventerà di noi due
Non descrivere i miei tratti, non mi inganno
La farfalla dalle ali bruciate non diventa bella
E’ inutile, non darmi speranza
Un cipresso che si è trasformato in ceppo non si innalza
Forse sei diventato il Messia, non colpire
Il dolore che va dritto al cuore, non è duraturo
La parola più pallida della raccolta è la mia vita
Nell’illeggibile scrittura curva e sottile
Lascia che non sia letta e muoia sconosciuta
Questa parola maledetta e senza senso.”

Nadia Herawi Anjuman, “La più pallida”, da “Gul-e-dodi’” (“Fiore rosso scuro”)

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Magari

“A voi, ragazze isolate del secolo
condottiere silenziose, sconosciute alla gente
voi, sulle cui labbra è morto il sorriso,
voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due,
cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti
se tra i ricordi vedete il sorriso
ditelo:
Non avete più voglia di aprire le labbra,
ma magari tra le nostre lacrime e urla
ogni tanto facevate apparire
la parola meno limpida.”

Nadia Herawi Anjuman, “Magari”

Ad avvicinare Nadia Anjuman alla poesia fu il Golden Needle Sewing School, un centro in cui si parlava si poesia e di letteratura,  organizzato in segreto da un professore dell’Università di Herat e mascherato come una scuola di cucito per eludere la sorveglianza delle guardie talebane. Fuori, a fungere da vedette, c’erano i figli dei partecipanti: fingevano di giocare, ma in realtà erano pronti a dare l’allarme in caso di pericolo.  Nel 2005 venne pubblicato il suo primo libro di poesie, Gul-e-dodi (“Fiore di fumo”); Anjuman lavorava al suo secondo volume di poesie,  Yek sàbad délhore (“Un’abbondanza di preoccupazioni”), quando il marito la massacrò di botte, dopodiché la portò in ospedale dichiarando che Anjuman aveva ingerito del veleno.

L’amore per la poesia e le catene di sei anni di schiavitù dell’era dei Talebani, che mi avevano legato le gambe, hanno fatto sì che appoggiandomi alla penna e zoppicando, componessi passi ed entrassi nel territorio della poesia. Il sostegno dei miei amici e di coloro che condividevano i miei stessi orizzonti mi hanno permesso di continuare su questo sentiero, ma… ahimé… tuttora, ogniqualvolta che compongo un nuovo passo, sento il tremore della mia penna e con essa trema anche la mia anima. Forse perché non mi sento indenne, temo ancora di sdrucciolarmi lungo il percorso; è difficile la strada che ho davanti a me… ed i miei passi non sono ancora, abbastanza, fermi”. (Nadia Herawi Anjuman)

“Anche la notte un po’ alla volta va per la sua strada e io
Divento il più triste canto d’addio.” (Nadia Herawi Anjuman)

 

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                    Nadia Herawi Anjuman

                             

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Mahbubeh Ebrahimi

Lente d’ingrandimento

“Mio figlio ha comprato una lente d’ingrandimento
la passa sulle più piccole cose
e rende il suo mondo dieci volte più grande
La realtà
non può
essere così grande e spaventosa
Figlio mio
la peluria sulla buccia di pesca
è tanto insignificante
quanto la nostra solitudine
in questa grande terra
Le zampette di queste mosche
solamente
sotto la lente d’ingrandimento
ci inquietano
Sospiro e tristezza,
Quando
ne parliamo
togli la tua lente d’ingrandimento
dalle linee del palmo della mia mano
altrimenti
su queste strade tortuose
ci perdiamo
Non fissarti né sui petali
né sui fiocchi di neve lucenti
la vita
spesso
mostra i suoi lati taglienti
allontanati un poco
Afghanistan
un occhio, sangue,
un sospiro, malinconia
un labbro, allegria
un artiglio, rabbia
un petto, nostalgia
una gola, pianto
una mano, carezza
Tu
sei il mio Afghanistan!
Che ogni giorno spargi il mio sangue per terra
che ogni giorno mi allontani da te
che ogni giorno per averti perdo sempre più la speranza
che ogni giorno ti amò di più
Non sono pazza
ad amarti in questo modo
c’è qualcosa in te
che apre
davanti alla morte
le vene di tutte le donne
Oppio sconosciuto
che non sappiamo
quante nostre generazioni
ha ucciso
nelle strade e nelle cantine
Non sapevo cosa fossi
il mio amarti
non so da dove
è stato inciso nei ricordi di mia madre
è come un gene irregolare ereditato
Non tornare da me!
Amico, è un dolore
di cui non ho ancora trovato sollievo, non tornerò da te!
sebbene
nessuna altra terra assomigli al tuo abbraccio
Lago
Tu sei lago! Muori nella rete del pescatore
Tu sei folle! Muori ogni giorno in catene
Un pazzo che con la bocca piena di perle
muore in un piccolo e cupo stagno
e alla fine nel tuo petto marciscono luna e pesci
e allora morirai intrappolato nel fango e nella melma
Oh allegra sirena del mare, pensa che
quando non comprendi la tua pena, muori più tardi
Mia madre intrecciava i giorni con la notte dei miei capelli
diceva: “Un giorno in questa stessa catena morirai”.

Mahbubeh Ebrahimi, “Lente d’ingrandimento”

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Mi hai accolta

“Mi hai accolta
Con lo schioppo in spalla
Mi hai accolta
Scarruffato e coperto di stracci
Questo non sei tu
Si era deciso
Che un uomo su un cavallo rosso…
Tu invece mi hai messo in testa
Una corona di boccioli di papavero
Fiori rossi?
E farfalle mezze morte
Sono cadute a terra
Lasciami andare
Mi fai paura
Hai nascoste nelle tasche mine
Che uccidono la gente
Hai buttato il tuo cuore in una buca
I tuoi baci hanno la tua voce
Che mi arriva stanca e roca:
Vieni, andiamo a casa.
Se mi baci
Le tue mine saranno disinnescate
I tuoi fucili
I tuoi papaveri
Il tuo bacio
Diverranno bianche colombe
Con un delicato bocciolo nel loro becco.”

Mahbubeh Ebrahimi 

Costretta a lasciare l’Afghanistan per emigrare in Iran, Mahbubeh diventa  non solo una delle voci afghane più accreditate, ma anche docente universitaria di Lingua e Letteratura Persiana, regista, organizzatrice del festival letterario Qând-e farsī,  direttrice della rivista Farkhâr e collaboratrice dell’istituto culturale Dar-e darī di Mashhad.

“Da questa parte c’è una poesiola spezzata ed amara nella mia gola
dall’altra parte la poesia fiorisce sulle labbra di Qandahar
[…] da questa parte, accanto al confine, sta seduta l’ aspettativa
dall’altra parte, sulla riva del fiume è scoppiata la primavera

Mahbubeh Ebrahimi

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                      Foto di Najiba Noori
Meena Keshwar Kamal (Meena)

Mai più tornerò sui miei passi

Mai più tornerò sui miei passi
Sono una donna che si è destata
Mi sono alzata e sono diventata una tempesta
che soffia sulle ceneri
dei miei bambini bruciati
Dai flutti di sangue del mio fratello morto sono nata
L’ira della mia nazione me ne ha dato la forza
I miei villaggi distrutti e bruciati mi riempiono di odio contro il nemico,
Sono una donna che si è destata,
La mia via ho trovato e più non tornerò indietro.
Le porte chiuse dell’ignoranza ho aperto
Addio ho detto a tutti i bracciali d’oro
Oh compatriota, io non sono ciò che ero.
Sono una donna che si è destata.
La mia via ho trovato e più non tornerò più indietro.
Ho visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa
Ho visto spose con mani dipinte di henna indossare abiti di lutto
Ho visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire la libertà
nel loro insaziabile stomaco
Sono rinata tra storie di resistenza, di coraggio
La canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,
nei flutti di sangue e nella vittoria
Oh compatriota, oh fratello, non considerarmi più debole e incapace
Sono con te con tutta la mia forza sulla via di liberazione della mia terra.
La mia voce si è mischiata alla voce di migliaia di donne rinate
I miei pugni si sono chiusi insieme ai pugni di migliaia di compatrioti
Insieme a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,
Per rompere tutte queste sofferenze, tutte queste catene di schiavitù,
Oh compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero
sono una donna che si è destata
Ho trovato la mia via e più non tornerò indietro.
Meena Keshwar Kamal, fondatrice di RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane) e della rivista bilingue, in persiano e in pashtun, “Payam-e-Zan”
(“Messaggio alle donne”), che spiegava la necessità di contrastare il fondamentalismo talebano.
Nel campo profughi di Quetta, che accoglieva gli afghani in fuga dalla guerra, Meena creò la scuola “Watan” (“Patria”), per offrire una possibilità di formazione ai bambini e alle donne.
Qui a Quetta, Il 4 febbraio del 1987, all’età di 31 anni, Meena fu assassinata dagli agenti della polizia segreta afghana.

 

Meena Keshwar Kamal (Meena)

 

 

Poetessa afghana, fondatrice del RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane) e di  Payam-e-Zan (Messaggio alle donne), una rivista bilingue, in persiano e in pashtun,  che propugnava la necessità di opporsi al fondamentalismo talebano. Nel campo profughi di Quetta, che accoglieva gli  afghani  fuggiti dalla guerra, Meena creò Watan (“Patria”), una scuola rivolta ai bambini e alle donne che non avevano ricevuto alcuna istruzione. Il 4 febbraio del 1987 Meena viene assassinata dai fondamentalisti: ha appena 31 anni.

“Le donne afgane sono come leonesse addormentate, una volta sveglie possono svolgere un ruolo meraviglioso in qualsiasi rivoluzione sociale(Meena Keshwar Kamal)

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           Foto di Rada Akbar, dalla serie “Invisible Captivity”
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Fa’eqeh Javad
A Kabul
“A te mia città senza chiar di luna
Piena di gentilezza, col tuo silenzio pieno della notte, e la tua notte senza fine
E le tue ginocchia senza alcuna forza rimasta
D’improvviso il tuo disagio mi rende febbricitante e sanguinante
Alzati amor mio! Lo so
Con l’orgoglio che ho nel cuore
Metti la tua mano callosa nella mia
E alzati dal tuo posto..sì, ce la fai.”

Fa’eqeh Javad,  “A Kabul”

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Il segno (Neshani)

Mi brucio le labbra
E ti invio
le Loro ceneri
….
Teheran,
La strada maestra della melodia
La musica degli uccelli
E il mio cuore
Brucia le tue labbra
E spedisci le
loro ceneri per me.

Fa’eqeh Javad

Anche lei poetessa dell’esilio, Fa’eqeh aggiunge al suo nome l’appellativo “Mahajer”, “l’immigrata”, conferendo alle città un posto centrale nelle sue poesie.

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                  Fatima Haidari, “Imago Mundi Afghanistan”

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Ziagol Soltani

Il flauto (Neylabak)

“Stanotte liberami dalla verità dello specchio
Chiamami, perché la notte sta per finire, e l’alba è già qui
In questa spiaggia dove ho confinato me stessa
Lascia che io mi riconosca
L’inverno ha lasciato una cicatrice azzurra sulle mie spalle
Invitami alla verde stagione primaverile
Che ne sai della paziente melodia del mio silenzio?
Fammi accordare con il flauto
L’infausto bruciare della fiamma sta scritto sulle ali della falena
Fammi andar via dalla buia moltitudine della creazione
Sono già stata condannata al tormento della segregazione
Stanotte liberami dalla verità dello specchio”

Ziagol Soltani, “Il flauto (Neylabak)”

“L’inverno ha lasciato una cicatrice azzurra sulle mie spalle Invitami alla verde stagione primaverile Che ne sai della paziente melodia del mio silenzio?” (Ziagol Soltani)

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Nell’immagine: Boushra Almutawakel, dalla serie “Mother, Daughter and Doll”, 2010

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