“Ci hanno derubato della nostra vita e ci hanno lasciato l’illusione di vivere.”
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Parwana Fayyaz
Parwana Fayyaz
Il diritto di gridare
“Non ho voglia di aprire la bocca
di che cosa devo parlare?
che voglia o no, sono un’emarginata
come posso parlare del miele se porto il veleno in gola?
cosa devo piangere, cosa ridere,
cosa morire, cosa vivere?
io, in un angolo della prigione
lutto e rimpianto
io, nata invano con tutto l’amore in bocca.
Lo so, mio cuore, c’è stata la primavera e tempi di gioia
con le ali spezzate non posso volare
da tempo sto in silenzio, ma le canzoni non ho dimenticato
anche se il cuore non può che parlare del lutto
nella speranza di spezzare la gabbia, un giorno
libera da umiliazioni ed ebbra di canti
non sono il fragile pioppo che trema nell’aria
sono una figlia afgana, con il diritto di urlare.”
Nadia Herawi Anjuman
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Nadia Herawi Anjuman, “La più pallida”, da “Gul-e-dodi’” (“Fiore rosso scuro”)
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Magari
“A voi, ragazze isolate del secolo
condottiere silenziose, sconosciute alla gente
voi, sulle cui labbra è morto il sorriso,
voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due,
cariche dei ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti
se tra i ricordi vedete il sorriso
ditelo:
Non avete più voglia di aprire le labbra,
ma magari tra le nostre lacrime e urla
ogni tanto facevate apparire
la parola meno limpida.”
Nadia Herawi Anjuman, “Magari”
Ad avvicinare Nadia Anjuman alla poesia fu il Golden Needle Sewing School, un centro in cui si parlava si poesia e di letteratura, organizzato in segreto da un professore dell’Università di Herat e mascherato come una scuola di cucito per eludere la sorveglianza delle guardie talebane. Fuori, a fungere da vedette, c’erano i figli dei partecipanti: fingevano di giocare, ma in realtà erano pronti a dare l’allarme in caso di pericolo. Nel 2005 venne pubblicato il suo primo libro di poesie, Gul-e-dodi (“Fiore di fumo”); Anjuman lavorava al suo secondo volume di poesie, Yek sàbad délhore (“Un’abbondanza di preoccupazioni”), quando il marito la massacrò di botte, dopodiché la portò in ospedale dichiarando che Anjuman aveva ingerito del veleno.
“L’amore per la poesia e le catene di sei anni di schiavitù dell’era dei Talebani, che mi avevano legato le gambe, hanno fatto sì che appoggiandomi alla penna e zoppicando, componessi passi ed entrassi nel territorio della poesia. Il sostegno dei miei amici e di coloro che condividevano i miei stessi orizzonti mi hanno permesso di continuare su questo sentiero, ma… ahimé… tuttora, ogniqualvolta che compongo un nuovo passo, sento il tremore della mia penna e con essa trema anche la mia anima. Forse perché non mi sento indenne, temo ancora di sdrucciolarmi lungo il percorso; è difficile la strada che ho davanti a me… ed i miei passi non sono ancora, abbastanza, fermi”. (Nadia Herawi Anjuman)
“Anche la notte un po’ alla volta va per la sua strada e io
Divento il più triste canto d’addio.” (Nadia Herawi Anjuman)
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Nadia Herawi Anjuman
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Mahbubeh Ebrahimi
Lente d’ingrandimento
“Mio figlio ha comprato una lente d’ingrandimento
la passa sulle più piccole cose
e rende il suo mondo dieci volte più grande
La realtà
non può
essere così grande e spaventosa
Figlio mio
la peluria sulla buccia di pesca
è tanto insignificante
quanto la nostra solitudine
in questa grande terra
Le zampette di queste mosche
solamente
sotto la lente d’ingrandimento
ci inquietano
Sospiro e tristezza,
Quando
ne parliamo
togli la tua lente d’ingrandimento
dalle linee del palmo della mia mano
altrimenti
su queste strade tortuose
ci perdiamo
Non fissarti né sui petali
né sui fiocchi di neve lucenti
la vita
spesso
mostra i suoi lati taglienti
allontanati un poco
Afghanistan
un occhio, sangue,
un sospiro, malinconia
un labbro, allegria
un artiglio, rabbia
un petto, nostalgia
una gola, pianto
una mano, carezza
Tu
sei il mio Afghanistan!
Che ogni giorno spargi il mio sangue per terra
che ogni giorno mi allontani da te
che ogni giorno per averti perdo sempre più la speranza
che ogni giorno ti amò di più
Non sono pazza
ad amarti in questo modo
c’è qualcosa in te
che apre
davanti alla morte
le vene di tutte le donne
Oppio sconosciuto
che non sappiamo
quante nostre generazioni
ha ucciso
nelle strade e nelle cantine
Non sapevo cosa fossi
il mio amarti
non so da dove
è stato inciso nei ricordi di mia madre
è come un gene irregolare ereditato
Non tornare da me!
Amico, è un dolore
di cui non ho ancora trovato sollievo, non tornerò da te!
sebbene
nessuna altra terra assomigli al tuo abbraccio
Lago
Tu sei lago! Muori nella rete del pescatore
Tu sei folle! Muori ogni giorno in catene
Un pazzo che con la bocca piena di perle
muore in un piccolo e cupo stagno
e alla fine nel tuo petto marciscono luna e pesci
e allora morirai intrappolato nel fango e nella melma
Oh allegra sirena del mare, pensa che
quando non comprendi la tua pena, muori più tardi
Mia madre intrecciava i giorni con la notte dei miei capelli
diceva: “Un giorno in questa stessa catena morirai”.
Mahbubeh Ebrahimi, “Lente d’ingrandimento”
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Mi hai accolta
Mahbubeh Ebrahimi
Costretta a lasciare l’Afghanistan per emigrare in Iran, Mahbubeh diventa non solo una delle voci afghane più accreditate, ma anche docente universitaria di Lingua e Letteratura Persiana, regista, organizzatrice del festival letterario Qând-e farsī, direttrice della rivista Farkhâr e collaboratrice dell’istituto culturale Dar-e darī di Mashhad.
“Da questa parte c’è una poesiola spezzata ed amara nella mia gola
dall’altra parte la poesia fiorisce sulle labbra di Qandahar
[…] da questa parte, accanto al confine, sta seduta l’ aspettativa
dall’altra parte, sulla riva del fiume è scoppiata la primavera
Mahbubeh Ebrahimi
Mai più tornerò sui miei passi
Meena Keshwar Kamal (Meena)
Poetessa afghana, fondatrice del RAWA (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane) e di Payam-e-Zan (Messaggio alle donne), una rivista bilingue, in persiano e in pashtun, che propugnava la necessità di opporsi al fondamentalismo talebano. Nel campo profughi di Quetta, che accoglieva gli afghani fuggiti dalla guerra, Meena creò Watan (“Patria”), una scuola rivolta ai bambini e alle donne che non avevano ricevuto alcuna istruzione. Il 4 febbraio del 1987 Meena viene assassinata dai fondamentalisti: ha appena 31 anni.
“Le donne afgane sono come leonesse addormentate, una volta sveglie possono svolgere un ruolo meraviglioso in qualsiasi rivoluzione sociale” (Meena Keshwar Kamal)
Fa’eqeh Javad, “A Kabul”
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Il segno (Neshani)
Mi brucio le labbra
E ti invio
le Loro ceneri
….
Teheran,
La strada maestra della melodia
La musica degli uccelli
E il mio cuore
Brucia le tue labbra
E spedisci le
loro ceneri per me.
Fa’eqeh Javad
Anche lei poetessa dell’esilio, Fa’eqeh aggiunge al suo nome l’appellativo “Mahajer”, “l’immigrata”, conferendo alle città un posto centrale nelle sue poesie.
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Fatima Haidari, “Imago Mundi Afghanistan”
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Ziagol Soltani
Il flauto (Neylabak)
“Stanotte liberami dalla verità dello specchio
Chiamami, perché la notte sta per finire, e l’alba è già qui
In questa spiaggia dove ho confinato me stessa
Lascia che io mi riconosca
L’inverno ha lasciato una cicatrice azzurra sulle mie spalle
Invitami alla verde stagione primaverile
Che ne sai della paziente melodia del mio silenzio?
Fammi accordare con il flauto
L’infausto bruciare della fiamma sta scritto sulle ali della falena
Fammi andar via dalla buia moltitudine della creazione
Sono già stata condannata al tormento della segregazione
Stanotte liberami dalla verità dello specchio”
Ziagol Soltani, “Il flauto (Neylabak)”
“L’inverno ha lasciato una cicatrice azzurra sulle mie spalle Invitami alla verde stagione primaverile Che ne sai della paziente melodia del mio silenzio?” (Ziagol Soltani)
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Nell’immagine: Boushra Almutawakel, dalla serie “Mother, Daughter and Doll”, 2010