Linguaggi

Mother

14.11.2021
“Nel momento in cui un bambino nasce anche una madre sta nascendo.
Lei non è mai esistita prima.
La donna esisteva, ma la madre, mai.
Una madre è qualcosa di assolutamente nuovo.”
Osho
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Sappi dunque
Sappi dunque che dal gran silenzio ritornerò …
Non dimenticare che a te verrò di nuovo …
Un breve momento, un po’ di riposo sul vento
E un’altra donna mi porterà in grembo

Kahlil Gibran

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Canto a mia figlia il sonno
“Canto a mia figlia il sonno
e il suo dolce sonno
respira come un fiore su di me –
pace profonda:
ne spartisco il sortilegio
e penetro nella sua quiete,
dorme in un sacrario di bene
e perfino io divento sacra”.
Margot Ruddock, da “Vita, l’assalto”
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Elliot Erwitt, “Mother and Child”, New York City, 1953
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Stabat Mater
“Fijo bianco de polvere e spavento
sepolto vivo sotto cinque piani,
chiuso in una montagna de cemento,
che scavo disperata co’ le mani.
Fijo senza più un corpo, fatto a tocchi,
squartato da le schegge de ‘na bomba,
senza più naso e labbra, senza occhi,
nell’aria evaporato, senza tomba.
Fijo leggero come ‘na farfalla
che dal mio seno vuoto cerchi er latte.
Io e te senza più forze in questa stalla
mentre fori s’uccide e se combatte.
Fijo annegato dentro al mare nero
o soffocato dentro ad una stiva.
Tre anni che ‘n te sento, e ormai nun spero,
che sei arivato salvo sulla riva.
Fijo che sei partito pe’ la guera
e a casa nun hai mai fatto ritorno,
sei l’ultimo pensiero di ogni sera,
sei er primo al mio risveglio di ogni giorno.
Fijo cor laccio stretto ancora ar braccio
coperto a malapena da ‘n lenzolo.
Vorei staccamme, ma nun ce la faccio,
nun vojo che rimani qui da solo.
Fijo che dentro a ‘n letto s’addormenta
in questa stanza buia d’ospedale,
che più nun piagne, più nun se lamenta,
che più nun vo’ lottà e s’arende ar male.
Fijo che nun me sente e nun me vede,
che riconosce solo le mie mani.
E quanno morirò a te chi provvede?
Chi te darà l’amore mio un domani?
Fijo che sei sparito quella sera
dentro una notte che non ha più fine.
È ritornata un’altra primavera,
ma porta fiori che hanno solo spine.
Fijo che addormento co’ le canzoncine
mentre che intorno infuria la tempesta.
Muri e filo spinato sul confine,
qui intorno solo neve e ‘na foresta.
Fijo che ritornavi a tarda ora
te ne sei annato senza ‘na parola.
La camera è rimasta come allora,
e dormo dentro al letto tuo, da sola.
Fijo percosso, a morte torturato,
pe’ giorni e giorni dentro ad una stanza.
Chissà le volte che m’avrai chiamato
quanno t’abbandonava la speranza.
Madre.
Madre che sai lo strazio che ho nel cuore,
tu che conosci cosa sia il dolore,
accetterò in silenzio il mio destino.
Ma prendi fra le braccia il mio bambino.”
Marazico (pseudonimo di Andrea Reali), “Stabat mater”, da “Er mestiere der poeta”
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Immagine dal web
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Una luce

“È una povera donna, mite, fine,
che non ha quasi coraggio di essere,
e se ne sta nell’ombra, come una bambina,
coi suoi radi capelli, le sue vesti dimesse,
ormai, e quasi povere, su quei sopravvissuti
segreti che sanno, ancora, di violette;
con la sua forza, adoperata nei muti
affanni di chi teme di non essere pari
al dovere, e non si lamenta dei mai avuti
compensi.
Una povera donna che sa amare
soltanto, eroicamente, ed essere madre
è stato per lei tutto ciò che si può dare.
La casa è piena delle sue magre
membra di bambina, della sua fatica:
anche a notte, nel sonno, asciutte lacrime
coprono ogni cosa, e una pietà così antica,
così tremenda mi stringe il cuore,
rincasando, che urlerei, mi toglierei la vita.
Tutto intorno ferocemente muore,
mentre non muore il bene che è in lei,
e non sa quanto il suo umile amore,
poveri, dolci ossicini miei,
possano nel confronto quasi farmi morire
di dolore e vergogna, quanto quei
suoi gesti angustiati, quei suoi sospiri
nel silenzio della nostra cucina,
possano farmi apparire impuro e vile.
In ogni ora, tutto è ormai, per lei, bambina,
per me, suo figlio, e da sempre, finito.
Non resta che sperare che la fine
venga davvero a spegnere l’accanito
dolore di aspettarla.
Saremo insieme, presto,
in quel povero prato gremito
di pietre grigie, dove fresco il seme
dell’esistenza dà ogni anno erbe e fiori.
Nient’altro ormai che la campagna preme
ai suoi confini di muretti, tra i voli
delle allodole, a giorno, e a notte,
il canto disperato degli usignoli.
Farfalle e insetti ce n’è a frotte,
fino al tardo settembre, la stagione
in cui torniamo, lì dove le ossa
dell’altro figlio tiene la passione
ancora vive nel gelo della pace.
Vi arriva, ogni pomeriggio, depone
i suoi fiori, in ordine, mentre tutto tace
intorno, e si sente solo il suo affanno,
pulisce la pietra, dove, ansioso, lui giace,
poi si allontana, e nel silenzio che hanno
subito ritrovato intorno muri e solchi,
si sentono i tonfi della pompa che tremando
lei spinge con le sue poche forze,
volenterosa, decisa a fare ciò che è bene.
E torna, attraversando le aiuole folte
di nuova erbetta, con quei suoi vasi pieni
d’acqua per quei fiori.
Presto anche noi, o dolce superstite,
saremo perduti in fondo a questo fresco
pezzo di terra, ma non sarà una quiete
la nostra, ché si mescola in essa
troppo una vita che non ha avuto meta.
Avremo un silenzio stento e povero,
un sonno doloroso, che non reca
dolcezza e pace, ma nostalgia e rimprovero,
la tristezza di chi è morto senza vita.
Se qualcosa di puro, e sempre giovane,
vi resterà, sarà il tuo mondo mite,
la tua fiducia, il tuo eroismo.
Nella dolcezza del gelso e della vite
o del sambuco, in ogni alto o misero
segno di vita, in ogni primavera, sarai tu.
In ogni luogo dove un giorno risero,
e di nuovo ridono, impuri, i vivi, tu darai
la purezza, l’unico giudizio che ci avanza,
ed è tremendo, e dolce.
Che non c’è mai disperazione
senza un po’ di speranza.

Pier Paolo Pasolini, “Una luce”

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Pablo Picasso, “Madre con bambino”, 1902
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Supplica a mia madre
“È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.
Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Pier Paolo Pasolini, “Supplica a mia madre”

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La nascita
“Mi scaricò
sul pavimento mia madre
nell’ora delle sue doglie.
Il mio primo pianto
non fu un alleluia
ma il grido di un intruso
espulso dal rifugio dell’utero
nell’insidioso freddo.
Mi salutarono
la Vergogna
la Paura
l’Ansia.
Con sguardi biechi
m’inchiodarono al suolo.
Cominciai dal fondo.
O Dio
con quanta pena mi sono sollevata
con quanta fatica mi sono raddrizzata.

Mila Kačič (1912-2000), “La nascita”

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Mia madre
“Ricordo che mia madre
entrava nella mia stanza
ed era maggio
e i grilli cucivano la campagna
là lontano.
Nell’aria dolce
come dopo una febbre
stavamo in quel silenzio
che entrava dappertutto.”

Nino Pedretti

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Nel sorriso folle delle madri

“Nel sorriso folle delle madri sbattono lievi
le gocce della pioggia. Nelle amate facce
pazze battono e sbattono
le gialle dita delle lampade.
E dondolano, che dondolano. E son pure, che pure.
Gocce e lampade pure. E le madri
si avvicinano soffiando sulle dita fredde.
I loro corpi si muovono per le ossa dei figli,
tra tendini e organi sommersi,
e le calme madri, intrinseche, si siedono
sulle teste dei figli.
Si siedono, e restano lì in un silenzio che perdura
frenetico,
vedendo tutto,
e bruciando le immagini, alimentando le immagini,
perché l’amore è sempre più forte.
E sbatte sui loro volti l’amore lieve
l’amore feroce.
– E le madri sono sempre più belle –
pensano i figli che su di loro aleggiano.
Fiori violenti sbattuti sulle palpebre
respirano loro da cima a fondo. E sono
silenziose.
E il loro viso nel mezzo di ogni goccia
di pioggia,
intorno alle lampade. Nel continuo
scorrere dei figli.
Le madri sono le più alte cose
che i figli crescendo crearono, perché permangono
nella combustione dei figli, perché
i figli sono come invasori denti di leone
nel terreno delle madri.
E le madri sono pozzi di petrolio nelle parole dei figli,
e si lanciano con loro come schizzi
che zampillano fuori dalla terra.
E i figli s’immergono con scafandri
all’interno di molte acque,
e portano via le madri come polpi
avvolti alle mani
e nell’acume di tutta la loro vita.
E il figlio siede con la madre a capotavola,
e con lui la madre sposta da parte a parte
le tazze e le forchette.
E grazie alla madre il figlio pensa
che nessuna morte è possibile e che le acque
si intrecciano per mezzo della sua mano che tocca la
faccia folle
della madre che tocca la mano diffidente
del figlio.
E dentro l’amore, è solo possibile arrivare
ad amare tutto,
e nella possibilità che tutto possa ritrovarsi
dentro l’amore.”

Herberto Helder, “Nel sorriso folle delle madri”, da “Fonte” (1961)

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E’ madre

“È madre chi sa fare spazio.
Chi si fa concava e convessa senza reticenza.
Chi pulisce lacrime a suon di bacini.
È madre chi sa aprire varchi, costruire ponti, inventarsi percorsi.
Chi sa scalare montagne a mani nude, posare un cucciolo, poi scendere di corsa e risalire per portarne un altro.
È madre chi accoglie senza distinzione di colore, sesso e di religione.
È madre chi porta in salvo.
È madre chi parla ai figli degli altri come fossero suoi.
Chi semina parole di coraggio e sostegno.
Chi, ogni giorno, unisce e tesse fili di riconciliazione. Chi protegge tutti i cuccioli come se le appartenessero.
È madre chi aiuta le altri madri e le sorregge quando non ce la fanno.
È madre chi sa guardare oltre la disabilità, l’estraneità, il sangue che non le appartiene, chi fornisce seconde e terze possibilità.
Chi rende semplice ciò che è complesso, come l’amore gli uni per gli altri.
Chi dà fiducia e non perde mai la speranza di riuscire laddove risiede l’impossibile.
Chi intraprende viaggi lunghi per amare il figlio di un’altra.
Chi intraprende viaggi dolorosi per riportare a casa un figlio.
È madre chi lascia la porta aperta anche se non viene oltrepassata da tempo.
Chi tiene una lucina accesa per far ritrovare la strada di casa.
È madre chi, a volte, ha paura.
Chi lascia spazio ad altre madri e non detiene il primato dell’amore.
È madre chi ama i figli delle altre donne, si fa schiena a cui aggrapparsi e confine con cui definirsi.
Sì è madri sempre, anche quando quel figlio non ci piace, si perde o non c’è più.
È madre chi nella propria casa e in luoghi lontani si fa rifugio per ogni figlio del mondo.
È madre non solo chi è madre.
Essere madre è una condizione, uno stato e non ha a che fare solo con la nascita di un figlio; spesso, ha a che fare con la capacità di prendersi cura dei figli di tutti.
È madre chi protegge quel futuro, in ogni dove, in ogni istante, in ogni occasione.
E non può solo riguardare l’amore verso i propri figli. E non deve.
È madre chi spinge l’umanità.
Madre non si nasce, lo si diventa.”
Penny, (Cinzia Pennati) dal blog Sosdonne.com
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Immagine presa dal web
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Tu eri la verità, il mio confine
“Tu eri la verità, il mio confine,
la mia debole rete,
ma mi sono schiantata
contro l’albero del bene e del male,
ho mangiato anch’io la mela
della tua onnipresenza
e ne sono riuscita
vuota di ogni sapienza,
perché tu eri la mia dottrina,
e il calice della tua vita
sfiorava tutte le rose.
Ora ti sei confusa
con gli oscuri argomenti della lira
ma invano soffochi la tua voce
nelle radici-spirali degli alberi,
invano getti gemiti
da sotto la terra,
perché io verrò a cercarti
scaverò il tuo fermento,
madre, cercherò negli spiriti
quello più chiaro e più fermo,
colui che aveva i tuoi occhi
e la tua limpida voce
e il tuo dolce coraggio
fatto soltanto di stelle.”
Alda Merini, “Tu eri la verità, il mio confine”, da “La terra santa”
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Messaggio urgente a mia madre

“Siamo state educate per la perfezione
perché nulla fallisse
e si compisse la nostra fortuna
di principesse di favole per bimbi
Come lottammo, desiderose di dimostrare
che le speranze da tanto tempo serbate erano certe!
Ma i vestiti da sposa invecchiarono
i nostri cuori esausti,
gli ultimi sopravvissuti del conflitto.
Abbiamo gettato in fondo ai fatiscenti armadi
i veli giallastri, e i fiori appassiti,
mai più saremo sottomesse e neppure perfette.
Perdona, madre, per l’impertinenza
di galline vecchie elegantemente trapuntate
che schiamazzano la bellezza
di docili figlie ottuse.
Perdona, per non essere rimaste
dove ci obbligavano le tradizioni
e il buon gusto.
Per osare essere noi stesse
al prezzo di distruggere
tutti i tuoi sogni.”

Daisy Zamora, “Messaggio urgente a mia madre”

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La Madre

“Quella sera lui tornò a casa
Sfinito, rabbuiato, con i manifesti nel petto.

A mezzanotte, sorda, oscura, desolata,
Avrebbe attaccato i manifesti ovunque nella città.

– A mezzanotte, madre, svegliami!
– Va bene, figlio mio, dormi! – disse lei.

Lui come un morto dormì,
E la madre su di lui non staccava gli occhi.

Vede i manifesti e prega su di lui
(Dormi, figlio mio, ancora non è mezzanotte.)

Le lancette girano lentamente
Dietro le tende, il vetro: la nera notte peste.

Nel sogno lui sorride, e sogna
Una bella pianura, un cielo senza nuvole.

E sua madre vestita di bianco che balla,
Nel quadrante dell’orologio, lei con la mano indica.

Le lancette ancora non segnano la mezzanotte,
Perciò la madre non lo sveglia, ancora dorme.

All’improvviso da lontano, nella pianura si sentì
Attorno un colpo: trak a trak, trak a trak!

E la madre, come la nebbia, sparisce lì,
L’orologio rotto cade sulla terra.

Sprofondato nel sudore, si svegliò
(Madre!), e lui mette la mano sul petto.

Niente manifesti! (Madre dove sei!)
Dietro le tende, dietro il vetro un nuovo giorno nasce.

(Madre!), ma lei non c’è.
Da qualche parte il mitra colpisce ancora: trak a trak!

Lui intuì subito qualcosa
Verso la porta corse: capì e impallidì.

Con in mano la pistola, per le strade desolate
Corse nel buio, per tutta la città.

(Madre, madre, madre, dove sei!?)
Ed ecco all’alba, qualche manifesto vede affisso sui i muri.

Corre, ma lei non si vede,
(Alt!) si sente qua e là. Corri, più veloce corri!

All’alba, vicino alla foresta, sul ciglio di un ruscello
Dietro gli alberi si appoggiò e pianse.

Che il figlio dormisse pure fino all’alba
La mezzanotte per sua madre mai finirà.

Ismail Kadarè, “La Madre”

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Dipinto di Virginie Demont-Breton

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Una madre speciale

“Vi è mai capitato di chiedervi come vengano scelte
le madri di figli handicappati?
In qualche maniera riesco a raffigurarmi
Dio che dà istruzioni agli Angeli, che prendono nota
in un registro gigantesco.
Armstrong Beth, figlio; Santo Patrono, Matteo.
Forest Marjorie, figlia, Santa Patrona, Cecilia;
Rudedge, Carrie, gemelli; Santo Patrono……..diamo Gerardo.
E’ abituato alla scarsa religiosità.
Finalmente, passa un nome a un angelo e sorride:
– A questa, diamo un figlio handicappato.
L’Angelo è curioso.
-Perché a questa donna Dio? E’ così felice!
– Esattamente- risponde Dio sorridendo.
– Potrei mai dare un figlio handicappato a una donna
che non conosce l’allegria? Sarebbe una cosa crudele.
– Ma la pazienza? Chiede l’Angelo.
– Non voglio che abbia troppa pazienza,
altrimenti affogherà in un mare di autocommiserazione e pena.
Una volta superati lo shock e il risentimento, di sicuro ce la farà
– Ma Signore penso che quella donna non creda nemmeno in Te.
Dio sorride:
– Non importa, posso provvedere.
Quella donna è perfetta. E’ dotata del giusto egoismo.
L’Angelo resta senza fiato.
– Egoismo? Ma è una virtù?
Dio annuisce:
– Se non sarà capace di separarsi ogni tanto dal figlio,
non sopravviverà mai.
Sì, ecco la donna cui darò la benedizione di un figlio non perfetto.
Ancora non se ne rende conto, ma sarà da invidiare.
Non darà mai per certa una parola.
Non considererà mai che un passo sia un fatto comune.
Quando il bambino dirà ” mamma” per la prima volta,
lei sarà testimone di un miracolo e ne sarà consapevole.
Quando descriverà un albero o un tramonto al suo bambino cieco,
lo vedrà come poche persone sanno vedere le mie creazioni.
Le consentirò di vedere chiaramente le cose che vedo io…
ignoranza, crudeltà, pregiudizio.., e le concederò di elevarsi
al di sopra di esse.
Non sarà mai sola. Io sarò al suo fianco ogni minuto della sua vita,
poiché starà facendo il mio lavoro infallibilmente
come se fosse al mio fianco.
E per Santo Patrono?
Chiede l’Angelo, tenendo la penna sollevata a mezz’aria.
Dio sorride:
– Basterà uno specchio.”
Erma Bombeck, “Una madre speciale”
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Mamm’Emilia (A mia madre)
“In te sono stato albume, uovo, pesce,
le ere sconfinate della terra
ho attraversato nella tua placenta,
fuori di te sono contato a giorni.
In te sono passato da cellula a scheletro
un milione di volte mi sono ingrandito,
fuori di te l’accrescimento è stato immensamente meno.
Sono sgusciato dalla tua pienezza
senza lasciarti vuota perché il vuoto
l’ho portato con me.
Sono venuto nudo, mi hai coperto
così ho imparato nudità e pudore
il latte e la sua assenza.
Mi hai messo in bocca tutte le parole
a cucchiaini, tranne una: mamma.
Quella l’inventa il figlio sbattendo le due labbra
quella l’insegna il figlio.
Da te ho preso le voci del mio luogo,
le canzoni, le ingiurie, gli scongiuri,
da te ho ascoltato il primo libro
dietro la febbre della scarlattina.
Ti ho dato aiuto a vomitare, a friggere le pizze,
a scrivere una lettera, ad accendere un fuoco,
a finire le parole crociate, ti ho versato il vino
e ho macchiato la tavola,
non ti ho messo un nipote sulle gambe
non ti ho fatto bussare a una prigione
non ancora,
da te ho imparato il lutto e l’ora di finirlo,
a tuo padre somiglio, a tuo fratello,
non sono stato figlio.
Da te ho preso gli occhi chiari
non il loro peso.
A te ho nascosto tutto.
Ho promesso di bruciare il tuo corpo
di non darlo alla terra. Ti darò al fuoco
fratello del vulcano che ci orientava il sonno.
Ti spargerò nell’aria dopo l’acquazzone
all’ora dell’arcobaleno
che ti faceva spalancare gli occhi.”
Erri De Luca, “Mamm’Emilia”, da “Il contrario di uno”, 2003
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Non mi dire mai non posso farlo
“Non mi dire mai
non posso farlo.
A me, che ho ballato
con due cuori.
E ho respirato
con quattro polmoni.
A me, che sono stata ghiaccio
fuoco e vento.
Che ho portato
nella mia pancia
il peso di due mondi,
e ho partorito
la vita.
Che ho abbracciato
la tristezza senza paura.
E ho pianto sorrisi.
A me non dirlo
che non sono capace
di qualcosa.
O di tutto.”
Eva Lopez Martínez
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Le mani della madre
“Tu non sei più vicina a Dio
di noi; siamo lontani tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare in te dal manto,
luminoso contorno:
io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta.”

Rainer Maria Rilke, “Le mani della madre”

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Il tramonto in attesa della sera

Alzheimer – A mia madre

“Talvolta, nell’oscuro profondo della tua ragione,
dove il tempo e lo spazio sono verbi senza senso,
si apre uno squarcio e riemergi d’improvviso:
il fragore d’un tuono,
ti riporta la tua vita per attimi infiniti.
Girandola di ricordi come fuochi artificiali
s’innalzano nel cielo dell’incoscienza
e ti ridanno quadri del passato,
dipinti astratti dei giorni in cui c’eri.
Oh Mamma quanta tenerezza attraverso gli occhi ti raggiunge!
Rivivi l’ebbrezza
di ricordare il tuo nome e lo gridi finché hai voce!
Riconosci volti e voci di chi hai amato
e lacrime d’amore ti cadono sul seno.
Rendi grazie a Dio sull’Altare dei Templi.
Poi, lo squarcio d’improvviso richiude,
di tanto colore resta altrettanto buio
e lascia dentro te steccati senza varchi,
fino al nuovo arcobaleno ad unire schiarite e temporali.
Ridiscendi nell’inferno del silenzio,
resti sospesa al filo delle esistenze consumate,
senza sapere chi sei e neanche chi eri.
Il tuo Tramonto Mamma… in attesa della sera.”

Sara Rodolao

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Perdonate i traditori
“Quando d’inverno
si mangiavano le prime castagne
e la pioggia era
una ragazza che giungeva
sui vetri,
rincorrevi i tuoi figli
uno a uno e faccia a faccia,
e indovinando i loro sogni
o i tuoi, dicevi
con segreta speranza: “medico,
ingegnere, donna di casa, contadino,
albero, spiga, poeta”.
Madre: ti abbiamo tradito.
Siamo i più celebri
vagabondi della terra.”
Marino Muñoz Lagos, “Perdonate i traditori”, da “I volti della pioggia”, 1970
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Honoré Daumier, “Madre”, 1855
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Ci vorrebbe proprio

“Ci vorrebbe proprio tutto
il tempo di cucire un bottone.
Quel fermarsi
in quel punto della camicia
su e giù con l’ago
e il filo lungo che va in alto e scende.
Quel andare al di là e tornare, basterà?

Il viaggio di una madre
il puntino luminoso della sua mano
che dal cielo scende
e sale un filo che fra le dita
sembra attraversare niente.

Io ti avevo stretto la mano
nella panca della chiesa dei Servi
sentivo che piangevi
non sapevo come ricucire
il fiore sdraiato del tuo respiro
con tutte quelle radici al vento.

Non mi lasciare nel traffico
nel buio sordo di un attimo
quando non ti volti più
e caschi fra i rami
come un tramonto colpito
nel petto da uno sparo
non lasciarmi andare sotto i portici
che non hanno braccia
non farmi credere che la piazza
sia più bella dei tuoi occhi
che i gradini siano le tue ginocchia.”

Francesca Serragnoli, da “Il rubino del martedì”,  2010

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Mia madre lavandaia
“Teneva fra le mani una scodella.
La rivedo così, una domenica sera.
Sorrideva in silenzio, esitando
un po’ nella penombra.
Portava a casa la sua cena
guadagnata sotto i padroni
e a letto, più tardi, io pensavo
che quelli ne mangiavano pentole piene.
Mia madre era gracile e morì giovane:
le lavandaie muoiono presto,
le gambe tremano sotto i carichi
e la testa fa male dallo stirare.
Dense nuvole di vapore,
montagne di biancheria sporca
e per cambiar aria
il solaio.
La rivedo mia madre, piegata sul ferro da stiro.
Il suo esile corpo, sempre più sottile,
fu spezzato dal capitale.!
Pensateci, o proletari! …
A furia di lavare s’era fatta curva
e io non sapevo che ancora fosse giovane.
Sognava d’avere un grembiule pulito
e che il postino le dicesse buon giorno.”
Attila Jozsef (poeta ungherese)
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Jean-Baptiste-Siméon Chardin, “La lavandaia”, 1730 
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Potature
“Oggi ho tagliato i rami
cresciuti davanti alla tua finestra
non vedevi più fuori
non entrava la luce
madre per te avrei voluto una casa
con un cortile più grande e un orto da coltivare
non c’erano soldi abbastanza
così ho liberato il cielo sopra il tuo giardino
misura solo cento metri quadri, non molto
ma almeno sono fatti di infinito”
Francesco Tomada, da “Portarsi avanti con gli addii”, 2014
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La madre
“E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia.
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.”
Giuseppe Ungaretti, “La madre”, da “Sentimento del tempo”
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My Mother in Three Photographs
“Il suo viso perfetto
mi guarda
la sua sensualità folgorante
in un abito corto e calze velate satinate
le ragazze degli anni Sessanta
belle da non credere.
Lei scruta attraverso l’obiettivo
come se il suo posto fosse qui e oltre
incantevole e incantata
dai tempi in cui i sogni di libertà erano ancora giovani
le ricchezze dell’Uganda
calde e frizzanti.
Mia madre negli anni Settanta
più cupa, ma dalla pelle
Ancora perfetta
gli anni ruvidi, delicati sulla sua giovinezza.
Il corpo coperto fino alle caviglie
da un abito di nylon
con le maniche lunghe che le accarezzano i polsi
un dolore si cela nella postura
l’ampio abito
non è perché lei sia vedova (per mano del Governo)
ma perché l’ha decretato il Governo.
La sua magnificenza e la sua eleganza
sembrano onorare il nome dato al vestito
Amin nvaako*.
Mia madre negli anni Novanta
un taglio corto e curato
a domare i suoi ricci intricati.
Indossa un busuuti**
caratteristico di quegli anni
un ritorno a casa, il ritrovamento
di una pace incerta
la maturazione di una donna e della sua nazione
una conferma del riconoscimento delle difficoltà superate
una pausa per contare le sue sconfitte e le sue gioie
e un passaggio di consegne al futuro.”
* Amin Nvaako significa “Amin lasciami essere” o “Amin lasciami in pace”
(La dittatura di Idi Amin in Uganda va dal 1971 al 1979)
**Busuuti, lungo e colorato abito tradizionale
Susan Kiguli (poetessa ugandese), “My Mother in Three Photographs” – Traduzione di Giovanna Molinelli e Marta Zonca
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Immagine ratta dal web
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Mothers Sing a Lullaby
“Le madri cantano una ninna nanna
Mentre la notte cala sugli alberi
Tagliando fuori le ombre.
Le voci suadenti s’insinuano e si attorcigliano
Attorno agli arbusti e all’erba alta
Che celano montagne di corpi decapitati
E il luccichio dei machete
Che hanno squarciato gole urlanti.
In questi campi privi di felicità
Le madri tengono viva la melodia della vita
Catturando un vento malinconico
Per infondere forza con il canto
Negli animi di bimbi
Che non hanno mai conosciuto
Il sapore dei fiocchi d’avena al mattino
Nè udito il frinire dei grilli alla sera.
Le madri cantano una ninna nanna
Per quei volti allucinati
Che si ritraggono impauriti quando odono dei passi
I cui compagni di gioco sono scheletri ridenti.
Le madri si fanno ninna nanna
Mettendo a tacere le sirene del dolore
Restituendo compassione alla nazione.”
Susan Kiguli (poetessa ugandese), “Mothers Sing a Lullaby” (Poesia scritta dopo il genocidio del 1994 in Ruanda)  -Traduzione di Giovanna Molinelli e Marta Zonca
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Nella foto: la madre di Susan Kiguli
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“Il suo viso perfetto
mi guarda
la sua sensualità folgorante
in un abito corto e calze velate satinate
le ragazze degli anni Sessanta
belle da non credere.
Lei scruta attraverso l’obiettivo
come se il suo posto fosse qui e oltre
incantevole e incantata
dai tempi in cui i sogni di libertà erano ancora giovani
le ricchezze dell’Uganda
calde e frizzanti.
Mia madre negli anni Settanta
più cupa, ma dalla pelle
Ancora perfetta
gli anni ruvidi, delicati sulla sua giovinezza.
Il corpo coperto fino alle caviglie
da un abito di nylon
con le maniche lunghe che le accarezzano i polsi
un dolore si cela nella postura
l’ampio abito
non è perché lei sia vedova (per mano del Governo)
ma perché l’ha decretato il Governo.
La sua magnificenza e la sua eleganza
sembrano onorare il nome dato al vestito
Amin nvaako*.
Mia madre negli anni Novanta
un taglio corto e curato
a domare i suoi ricci intricati.
Indossa un busuuti**
caratteristico di quegli anni
un ritorno a casa, il ritrovamento
di una pace incerta
la maturazione di una donna e della sua nazione
una conferma del riconoscimento delle difficoltà superate
una pausa per contare le sue sconfitte e le sue gioie
e un passaggio di consegne al futuro.”
* Amin Nvaako significa “Amin lasciami essere” o “Amin lasciami in pace”
(La dittatura di Idi Amin in Uganda va dal 1971 al 1979)
**Busuuti, lungo e colorato abito tradizionale
Susan Kiguli (poetessa ugandese), “My Mother in Three Photographs” –
Traduzione di Giovanna Molinelli e Marta Zonca
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Nell’immagine: Foto di Hassan Ghaedi, “Mother”. La foto (che ha vinto il “Siena International Photo Awards) è stata scattata a Homs, in Siria: una madre torna nella sua casa, sventrata dai bombardamenti,  per recuperare un giocattolo di suo figlio.

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