Linguaggi

Donne si diventa

16.11.2021
“On ne naît pas femme: on le devient.”
(Non si nasce donne: si diventa)
Simone de Beauvoir, da “Il secondo sesso”, 1949

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Foto di Hardi Budi

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A me stessa

“Quando sei sola
sei come il silenzio,
immobile e sincera.
Dischiusa come un bocciolo
hai l’odore della notte.”

Stefania Onidi, da “Quadro imperfetto”

 

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Ultimo nodo

“Possa io abitarmi
in questo respiro profondo
che addestra nuvole a piovere
e stelle a splendere.

Stefania Onidi, “Ultimo nodo”, da “Quadro imperfetto”

 

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Un giorno mi perdonerò

“Un giorno mi perdonerò
del male che mi sono fatta,
del male che mi sono fatta fare
e mi stringerò così forte,
da non lasciarmi più.”
Emily Dickinson

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Rivendico il diritto

“Rivendico il diritto di essere gentile
la commozione della tenerezza
la capriola sublime della bellezza
l’acrobazia difficile della semplicità
la magica centrifuga trita banalità.
Rivendico il diritto a esistere col cuore
quello di offrire parole d’amore
l’ostinazione della poesia
il mal di pancia della nostalgia
Lieve la danza della naturalezza
il salto mortale dell’interezza.”

Laura Ricci, “Rivendico il diritto”, da “La strega poeta”

 

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Enzo Iorio, “Tenerezza”

 

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The not poem

 

“Tu non sei i tuoi anni,
né la taglia che indossi,
non sei il tuo peso
o il colore dei tuoi capelli.
Non sei il tuo nome,
o le fossette sulle tue guance,
sei tutti i libri che hai letto,
e tutte le parole che dici
sei la tua voce assonnata al mattino
e i sorrisi che provi a nascondere,
sei la dolcezza della tua risata
e ogni lacrima versata,
sei le canzoni urlate così forte,
quando sapevi di esser tutta sola,
sei anche i posti in cui sei stata
e il solo che davvero chiami casa,
sei tutto ciò in cui credi,
e le persone a cui vuoi bene,
sei le fotografie nella tua camera
e il futuro che dipingi.
Sei fatta di così tanta bellezza
ma forse tutto ciò ti sfugge
da quando hai deciso di esser
tutto quello che non sei.”
Erin Hanson (poetessa australiana), “The not poem” (attribuita erroneamente a Ernest Hemingway)
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Geologia dell’io

“Io sono il sesto giorno di dicembre del 1970.
Sono l´ora poco dopo le dodici.
Sono le urla di mia madre che mi dà vita,
le sue urla che le danno vita.
Il suo grembo che mi lascia affiorare,
il suo sudore che realizza la mia probabilità.
Sono lo schiaffo del medico che mi rianimò.
(Ogni schiaffo successivo che provò a rianimarmi, mi distrusse.)

Sono gli occhi della famiglia su di me,
gli sguardi del padre, del nonno, delle zie.
Sono tutti i loro possibili scenari,
sono i sipari aperti, i sipari celati
e le mura che dietro di essi, verranno,
e sono colei che non ha nome, e non ha mano per ciò che verrà.
Sono le aspettative, i sogni falliti,
i vuoti sospesi al mio collo come amuleti.
Sono lo stretto cappotto rosso che mi faceva piangere,
e ogni costrizione che mi fa piangere ancora.
Sono la bambola dai capelli scuri e gli occhi di plastica,
sono quella bambola respinta che rifiutai di cullare,
ignorata, ancora sanguinante alla nuca
(due gocce nei giorni feriali e tre in quelli di riposo e di vacanza).
Sono il triste buco nelle calze della mia maestra
che continua a guardarmi come il rimprovero di Abele nella mia anima,
raccontandomi la sua povertà e la mia impotenza,
lo sfinimento della mia pazienza e il terrore della sua disperazione.
Sono le tabelline che non ho imparato finora,
sono il due che si somma a uno, sempre a uno.
Sono la teoria delle linee curve che non si uniscono mai,
e sono le loro applicazioni.
Sono il mio odio della storia, dell´algebra e della fisica.
Sono il mio credere, da bambina, che la terra girasse intorno al mio cuore
e il mio cuore intorno alla luna.
Sono la bugia di Babbo Natale,
a cui credo ancora.
Sono l´astronauta che sognavo di diventare.
Sono le rughe di mia nonna che si è suicidata,
la mia fronte posata sulle sue ginocchia assenti.
Sono il ragazzo (si chiamava Jack?) che mi ha tirato i capelli ed è scappato via.
Sono colui che mi ha fatto piangere, facendomi innamorare ancora di più.

Io
sono il mio gattino,
e la bicicletta del figlio dei vicini che mi ha investito senza che protestassi.
(Ho venduto le anime del mio gattino per uno sguardo da quel bel ragazzo.) Sono il ricatto, il mio vizio inaugurale.
E sono la guerra
il cadavere dell´uomo che i combattenti trascinavano davanti a me,
e la sua gamba strappata che cercava di seguirlo.

Io
sono i libri che ho letto da bambina e che erano inadatti a me
(che ora scrivo e che continuano a essere inadatti).
Sono l´adolescenza del mio seno destro,
e la saggezza del sinistro.
Il potere dei due sotto una maglietta aderente
poi la mia consapevolezza del loro potere: l´inizio della discesa.
Sono la mia noia veloce, la mia prima sigaretta, la mia ostinazione tardiva,
e le stagioni trascorse.
Sono la nipote della bambina che fui,
la sua mancanza della mia rabbia,
le mie delusioni e le mie vittorie,
i miei labirinti e i miei desideri,
le mie bugie e le mie guerre,
le mie cicatrici e i miei giri sbagliati.
Sono la tenerezza che ho a dispetto di me stessa,
sono il mio Dio e la mia avidità,
le mie assenze colmate dai miei morti,
sono i miei morti che non dormono mai,
i miei cadaveri che non dormono mai,
sono i loro ultimi sospiri sul cuscino, a ogni alba.

E io
sono il mio risentimento, il mio contagio,
il mio pericolo,
la mia fuga dalla viltà al peggio.
Sono la mia attesa senza conoscere il tempo
e il mio non capire lo spazio.
Sono il silenzio che ho imparato.
E il silenzio che non ho imparato finora.
La solitudine che, come un insetto, percorre la mia anima.
Sono la nipote della bambina che fui:
la mia mancanza della sua innata indifferenza,
della sua perfezione altruista.
Sono il disastro dell’amore
e avvengo.
Sono il lupo della poesia che mi scorre nel sangue
e sono io che corro scalza con lui,
sono colei che cerca il suo cacciatore
non trovando il suo cacciatore.
Sono le acque spumeggianti della mia lussuria,
la successione delle lingue che irrigano la sua spuma,
e il mio rossetto che anticipa ogni sete.
Sono anche le mie unghie: quello che c´è sotto e quello in cui sprofondano.
Sono la memoria delle loro ferite,
la memoria della loro rabbia,
la memoria della loro debolezza,
la memoria della loro forza, oltre ogni prova,
e sono i pezzetti di carne strappati dalle spalle degli uomini nei momenti di estasi.
Sono i miei denti
le mie cosce delicate
i miei desideri osceni.
Sono i miei peccati, e quanto li amo,
sono i miei peccati, e quanto mi assomigliano.
Sono la mia amica che mi ha tradito…
e per questo la ringrazio.
Sono la mia spina dorsale che urla in faccia ai traditori.
Sono i miei occhi che cercano l´oscurità che mi appartiene.
Sono il mio dolore
il mio dolore, sì.
Sono il mio grido nel pieno della notte
(soppresso al momento opportuno).
Sono quello che mi dicono di non dire
di non sognare
di non pensare
di non osare
di non prendere.
Sono quello che mi dicono di non essere.
Sono quello che nascondo,
quello che non voglio nascondere, ma nascondo lo stesso
quello che voglio nascondere, e non nascondo.
Sono il “dimmi quanto mi ami’
e il “non ti credo’.
Sono la testa connessa al corpo, sconnessa dal corpo.
Sono la mia morte prematura – lo dico senza dramma –
e qualsiasi devastazione lascerò dietro di me.
Sono la follia e l’assenza che mi hanno preceduta.

E le piccole, irrilevanti cose che svelano:
i francobolli, i ritagli di lettere,
i biglietti sotto il vetro della scrivania, il mio sorriso in vecchie foto.
Sono la somma degli uomini che mi hanno amata e che non ho amato.
Sono quelli che ho amato e che non mi hanno amata,
quelli che non ho amato e non mi hanno amata,
quelli che ho immaginato di amare
e quelli che hanno immaginato di non amarmi.
Sono la somma dell’unico uomo che amo.
Sono la sposa la cui immagine piangeva nella foto del suo primo matrimonio (solo l´immagine).
Sono le mie proiezioni, le mie sconfitte, le mie vane vittorie.
Sono la mia salvezza dall´annegamento una volta (se veramente fu salvezza).
Sono la noia di una briciola sul tavolo.
Sono i sette giorni e i secoli che furono necessari a crearmi.
Sono i pesci, gli uccelli e gli alberi
il fumo delle fabbriche,
l´asfalto della strada e il fischio delle bombe,
e sono il vento, i ragni e la polpa della frutta.
Sono ogni vulcano sulla cima di ogni montagna in ogni paese in ogni continente in ogni pianeta.
Sono ogni buco scavato in ogni terra di ogni paese in ogni continente in ogni pianeta.
Sono il secondo che ho impiegato per distruggermi
e tutti i miei corpi
e le strade umide della mia città
e sono chi ero e sono chi avrei potuto essere.
Sono il vestito blu che mia madre non si comprò per pagarmi le tasse della scuola.
Sono la libreria di mio padre, i suoi occhi e il suo cuore petulante.
Sono gli sguardi che non mi sono permessa, le parole che non ho detto e le labbra che non ho baciato
e le tracce che non lascerò dietro di me:
tutte le cose stupide che non ho fatto
tutte le grandi cose che non ho fatto ancora
tutte le partenze da cui non sono tornata.

Io
sono mia figlia che non ho messo al mondo e che potrei
e la donna che sarò.
Sono quasi quella donna
e sono quasi l´uomo
che non sono diventata completamente
che non voglio diventare
e che mi salva ogni giorno da me stessa.
Sono la donna che non sono adesso,
tutte le cose e le persone che ero ieri,
che sarò domani,
e che compongono
scompongono
e ricompongono me.”

Joumana Haddad

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Tamara de Lempicka, “Rafaela su fondo verde” (“Il sogno”), 1927
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Quando sono diventata un frutto
“Femmina e maschio fui concepita all’ombra della luna
ma Adamo fu sacrificato alla mia nascita,
immolato ai mercenari della notte.
E per colmare il vuoto della mia altra essenza
mia madre mi ha lavato con acqua torbida
e mi ha portato sul pendio di ogni montagna
consegnandomi al rombo delle domande.
Mi ha consacrato all’Eva della vertigine
e mi ha impastato con il buio e la luce
perché fossi donna-centro e donna-lancia
gloriosa e trapassata
angelo dei piaceri senza nome.”

Joumana Haddad, “Quando sono diventata un frutto”

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Parole note

“La donna che aspetta,
intuisce che quello che c’è
non è quello che avrebbe potuto essere,
ma nemmeno quello che sarà.

La donna che aspetta
vede il segreto oltre il buio
il viaggio oltre il passo
il bacio oltre le labbra.

Vede se stessa
oltre la loro immagine
di lei.

La donna che aspetta
tocca quello che non possono vedere
canta quello che non possono sentire
e ogni giorno incide un sorriso nuovo
nella carne dell’alba.

La donna che aspetta
ha il cuore nel palmo della mano
offerto come una fontana di sangue.

Goccia dopo goccia,
battito dopo battito,
sfida il tic tac del tempo e
avanza.

La donna che aspetta
non si guarda dietro
non si guarda davanti.
Si guarda dentro
e cresce.

La donna che aspetta
invoca il vento, le stelle, i mari,
e culla nei suoi occhi
i sogni che fanno girare la terra.

La donna che aspetta
sa che non è la barca,
quel che lei aspetta;
ma che è la barca
che sta aspettando lei.”

 

Joumana Haddad, “Parole note”

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Miniatura che risale ai primi del Quattrocento e che raffiguraTamiri (o Timarete), un’artista ateniese del V secolo a.C. figlia del pittore Micone. 

 

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Spuma di mare

 

“Chi è fatto di pietra, chi è fatto d’argilla –
Io invece sono fatta d’argento e brillo!
La mia occupazione – è il tradimento, il mio nome – Marina,
io – sono l’effimera spuma del mare.
Chi è fatto d’argilla, chi è fatto di carne –
a costoro la bara e le lastre tombali …
-battezzata nella fonte marina – e nel mio
volo continuamente infranta!
Attraverso ogni cuore, attraverso ogni rete
batte il mio arbitrio.
Io – vedi questi ricci scomposti? –
non sono fatta del sale della terra.
Mi frango sulle vostre granitiche ginocchia
e da ogni onda – risuscito!
Evviva la schiuma – l’allegra schiuma –
l’alta schiuma del mare!”
Marina Ivanovna Cvetaeva, “Spuma di mare”
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Ricomincio da zero
“Ricomincio da zero
Per l’abito da sposa
Che non è mai arrivato
Per la carriera universitaria
Che non siamo riusciti a compiere
Per i quindici anni che non ho festeggiato
Per il viaggio che da bambina ho sognato
Per il principe azzurro che non si è presentato
Alla principessa incantata scomparsa
Per la luna di miele sulla spiaggia
Per aver visto l’alba al tuo fianco
E perderci in un’isola da sogno
Per la medaglia che mi è mancata
Per lo sguardo di papà che non ho mai avuto
Alla dottoressa, avvocato, scienziato
Che non sono
Per l’abbraccio e il reggiseno di mamma
Che ancora oggi spero
Per la casa che ho sognato
E che ancora oggi
Non ho
Per il sogno di invecchiare
Insieme e riempire la casa
Di figli, di nipoti, delle feste
Di compleanno e di Natale
Per il figlio che tanto desiderava la mia anima
Alla bambina o bambino che non ho mai avuto
Per ogni sogno che non si è realizzato
Lo libero, altrimenti
Mi intrappola nel dolore
Nella nostalgia e non mi permette
Di sognare di nuovo, di andare avanti
Lo onoro, ha dato un senso alla mia vita
Mi perdono se non ce l’ho fatta
Non ce l’hanno fatta
Non era nel mio destino
Amo quei sogni da bambina
Per andare avanti e perché ne arrivino di nuovi
Devo lasciarli andare
E ricominciare da zero
Per tutti i sogni che non si sono realizzati
Crescere è riconoscere
Che non saranno né sono mai stati”

Susy Landal

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Gaetano Bellei (1857-1922), “Colpo di vento” 

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Hai bisogno di te

“Hai bisogno di te
Non hai bisogno di caffè; hai bisogno di dormire.
Non hai bisogno di nicotina; hai bisogno di camminare.
Non hai bisogno di alcol; hai bisogno di ridere a crepapelle.
Non hai bisogno di trangugiare; hai bisogno di parlare.
Non hai bisogno di stupefacenti; hai bisogno di pensare.
Non hai bisogno di stimolanti; hai bisogno di abbracci.
Non hai bisogno di allucinogeni; hai bisogno di arte.
Non hai bisogno di TV; hai bisogno di poesia.
Non hai bisogno di comprare; hai bisogno di natura.
Hai bisogno di te.
Al di sopra di tutto hai bisogno di pace interiore, il che richiede armonia tra l’interno e l’esterno.
Fai quello in cui credi, e credi in quello che fai.”

Magas Cantoras – Circulo de Mujeres

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Sono stata

“Sono stata cavalla
mucca farfalla
Sono stata una cagna
una vipera un’oca
Sono sempre stata tutte le cose mansuete
e ampie della terra
il vuoto del corno che chiama alla guerra
l’oscuro tunnel dove sferraglia il treno
la caverna a notte dei pirati
Sono sempre stata quella che sempre deve essere là
una certezza quadrata
Sono stata tutto ciò che poteva servirti
a prendere il volo
sono stata anche tigre
cima e voragine
strega
sacra e terribile bocca dentata
Come avresti potuto altrimenti
essere tu il cacciatore
l’esploratore
l’eroe dalle mille avventure?
Sono stata persino terra e luna
Perché tu potessi metterci
il piede sopra
E adesso
questa ruota si è fermata
devo adesso fare una cosa
mai fatta forse mai esistita
una cosa per te ma
soprattutto per me
per me sola
tanto autentica e nuova
che trema persino il volto della vita”

Bianca Garufi, da “Se non la vita”

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 Ettore Tito, “Con la rosa tra le labbra”, 1895
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Tu sei…
“Tu sei i giocattoli con i quali hai giocato, il dialetto che hai parlato,
tu sei i nervi a fior di pelle durante i test di ammissione all’università, i segreti che hai portato dentro di te,
tu sei la tua spiaggia preferita, Garopaba, Maresias, Ipanema,
tu sei la rinascita dopo un incidente scampato, quell’amore confuso che hai vissuto, il discorso serio che hai avuto con tuo padre,
tu sei ciò che ricordi.
Tu sei la nostalgia che senti di tua madre, il sogno rotto quasi sull’altare, l’infanzia che ricordi, il dolore di non esser riuscito con certezza, di non aver parlato al momento giusto,
tu sei quello che fu amputato nel passato, l’emozione di un frammento di libro, la scena della strada che ti ha strappato lacrime,
tu sei ciò che piangi.
Tu sei un abbraccio inaspettato, la forza data all’amico che ne ha bisogno,
tu sei il pelo del braccio che si rizza, la sensibilità che grida, l’affetto che scambi,
tu sei le parole dette per aiutare, le grida sbloccate dalla gola, i pezzi che unisci,
tu sei l’orgasmo, la risata, il bacio,
tu sei ciò che tu sfoghi.
Tu sei la rabbia di non esser riuscito, l’impotenza di non riuscire a cambiare,
tu sei il disprezzo per gli altri che mentono, la delusione per il governo, l’odio che tutto ciò crea,
tu sei chi rema, chi stanco non rinuncia,
tu sei l’indignazione per i rifiuti buttati dall’auto, l’ardere della rivolta,
tu sei ciò che bruci.
Tu sei quello che rivendichi, ciò a cui riesci a dare origine tramite la tua verità e la tua lotta,
tu sei i diritti che hai, i doveri ai quali ti obblighi,
tu sei la strada sulla quale corri indietro, strisci, apri varchi, cerchi,
tu sei ciò che difendi.
Tu non sei solo ciò che mangi o vesti. Tu sei ciò che pretendi, riunisci, scarabocchi, tracanni, godi e leggi. Tu sei ciò che nessuno vede.”

Martha Medeiros

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Quattro cose

“Quattro cose conosco molto bene:
ozio, dolore, un amico e un nemico.
Di quattro cose avrei poi fatto senza:
amore, curiosità, lentiggini e dubbio.
Tre cose non potranno essere mai mie:
soddisfazione, invidia e champagne a sufficienza.
Tre cose avrò finché rimango in vita:
riso, speranza e un pugno nell’occhio.”

Dorothy Parker

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Giovanni Boldini, “Nudo sdraiato con calze nere”, 1885

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Sono caduta più volte

“Sono caduta più volte.
Oh, no, non sto dicendo
che mi sono rialzata. Non subito.
Ho accettato la nuova condizione
e fatto pace con il suolo
fino ad abbracciarlo come
un nemico a tregua dichiarata.
Ho strisciato, sbucciato i gomiti
sporcato le mani di fango
sono andata anche più giù
nel sottosuolo della mente.
Sono venuta a patti con la terra
e ho scavato per trovare un nido
che rendesse tollerabile l’angolo
rovesciato della mia prospettiva.
Finché non ho visto
che dal basso verso l’alto
le gioie perfette altrui, indossate
con ostentata eleganza,
avevano l’orlo scucito
in più punti rammendato
con filo di spago e non di seta.
Mi sono rialzata con l’abito insudiciato
da qualche lezione sonora
impartita a cinque dita dalla vita
e l’anima ancora bianca.”

Mirela Stillitano

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Sorelle!

“Un vento insidioso spazza l’erba

e fruga tra i piccoli steli
che tremano d’eccitazione.
Ricordo quella sensazione:
un affanno, un brivido
l’emozione d’un gesto potente.
Pensavo: Sorelle!
E cercavo dintorno
sguardi furtivi d’intesa
Sorelle!
Ma si cresce da sole
nude alle istanze
del corpo fremente
spoglie nel vento d’attese
compagne ai fiori del maggio
nell’obbedire ai gesti di natura
sole sul limitare incerto
dove s’affaccia la vita futura
e il richiamo dell’ombra si fa raggio.
Sì, ricordo.”

Silvana Sonno, “Sorelle!”

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Filippo Palizzi, “Gli Scavi di Pompei”, 1870

 

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Sono una donna

“Sono una donna
la mia situazione è questa
non mi candido all’universalità.
Dal mio gradino mi rappresento il mondo
vedo un’altra e un’altra e altre ancora
non mi fanno da specchio
la mia immagine non ne è ingrandita.
Io sono io e sto qui
nella mia situazione
ma un insopportabile silenzio
accompagna i passi delle donne.
Le loro labbra muovono frasi inespresse:
episteme e violenza che il mondo
mal accorda lungo lo snodarsi delle vite
lacrime calde scendono
ma anche il mio lamento non esce
pur se nel petto cresce l’amarezza.
Sono una donna
la mia situazione è chiara
ora la conosco.
Qualcuno mi ha messa su questo gradino
l’universo non mi rappresenta
ma la Storia mi è stretta
io ho bisogno di largo, invece
e di respiro profondo
e di inspirare nel corpo i tremiti del vento
il rumore che fanno le foglie
ma anche il moto impazzito delle cellule
nel chiasso profondo delle mie emozioni
ha bisogno di aver posto alla luce del giorno.
La mia lingua ha bisogno di tutte le parole
per dire di me e degli altri il romanzo che vive.
Parole di donna che ancora non conosco.
Sono una donna
e i miei bambini sono i pensieri
che il mondo non accoglie.
Da questa situazione guardo alla vita
e scendo il mio gradino
cerco qualcosa che sa di fieno
e voli di rondini e brillìo di stelle
cerco una strada e sono pronta a andare
dove mi condurrà. Il mio piede è libero
le mie mani distese, e da ogni palmo
scivola un piccolo rivo che si spande
e disseta la pelle tra le dita.
Gocce rotonde cadono per terra
e diventano traccia, nella polvere
e fili d’erba.
Non sono candidata all’universale
ma la Storia dovrà ben fare i conti con me.”

Silvana Sonno, “Sono una donna”, da “Dissonanze”

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Tu mi vorresti come uno dei tuoi gatti
“Tu mi vorresti come uno dei tuoi gatti
castrati e paralleli: dormono in fila infatti
e fanno i gatti solo di nascosto
quando non li vedi. Ma io non sarò mai
castrata e parallela. Magari me ne vado,
ma tutta di traverso e tutta intera.”

Patrizia Cavalli, da “Pigre divinità e pigra sorte”

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Se posso perdonare
“Se posso perdonare, allora devo
riuscire a perdonare anche me stessa
e smetterla di starmi a giudicare
per come sono o come dovrei essere.
Qui non si tratta di consapevolezza
ma è la superbia che mi tiene stretta
in una stolta morsa che mi danna.
Eccomi infatti qui dannata a chiedermi
che cosa fare per essere perfetta.
Tenersi all’apparenza, forse descrivere
soltanto cose in mutua tenerezza.”
Patrizia Cavalli, da “Vita meravigliosa”, 2020
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Henri de Toulouse-Lautrec, “A Montrouge (Rosa la Rouge), 1886 – 1887

 

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Io conosco storie di donne che entrano in un cuore

 

“Io conosco storie di donne che entrano in un cuore
grande come un pugno
e che lasciano impronte nei respiri
in letti da rifare
in cucine dal profumo di spezie
in discorsi che restano sospesi
(nel fumo di sigarette tra le dita)
In liste della spesa
(calligrafie minute in fogli bianchi
appena stropicciati in un angolo)
in un’attesa che dura quanto un figlio
(che è cresciuto e andato via)
Donne senza bombole d’ossigeno
senza una base a dar loro coordinate
che fluttuano in un’apnea d’amore
tra stelle interrotte dal buio e silenzi
intercalati da parole: quelle sbagliate.
Donne nella cui anima si annidano speranze
E restano lì
Come gusci vuoti in memoria.”

Carla Lebwoski Cavallini

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Io non sono una donna

“Io non sono una donna.
Sono una cosa neutra.
Sono un bimbo, un paggio
e una decisione ardita.
Sono un raggio ridente di sole scarlatto.
Io sono una rete per tutti i pesci voraci,
sono un calice a onore di tutte le donne,
sono un passo verso il caso e la rovina,
sono un salto nella libertà e nel sé.
Io sono il sussurro del sangue
nell’orecchio dell’uomo,
sono una febbre dell’anima,
della carne voglia e rifiuto.
Sono una targa d’ingresso a nuovi paradisi.
Io sono una fiamma, che cerca vivace,
sono un’acqua, fonda,
ma audace fino al ginocchio,
sono fuoco e acqua in rapporto leale,
e senza condizioni.”

Edith Södergran (poetessa finlandese), “Io non  sono una donna”

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Roberto Fernandez Balbuena, “La stiratrice”, 1920

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La notte mi chiede chi sono

“La notte mi chiede chi sono
Sono il segreto della profonda nera insonnia
sono il suo silenzio ribelle
ho mascherato l’anima di questo silenzio
ho avvolto il cuore di dubbi
immota qui
porgo l’orecchio
e i secoli mi chiedono
chi sono
E il vento chiede chi sono
sono la sua anima inquieta rinnegata dal tempo
come lui sono in nessun luogo
continuiamo a camminare e non c’è fine
continuiamo a passare e non c’è posa
giunti al baratro
lo crediamo il termine della pena
e quello è invece l’infinito
Il destino chiede chi sono
potente come lui piego le epoche
e ridòno loro la vita
creo il passato più remoto
dall’incanto di una vibrante speranza
e lo sotterro ancora
per forgiarmi un nuovo ieri
di un un domani gelido
Il sé chiede chi sono
come lui vago, gli occhi fissi nel buio
nulla che mi doni la pace
resto ancora e chiedo, e la risposta
resta nascosta dietro il miraggio
ancora lo credo vicino
al mio raggiungerlo
tramonta
dissolto, dispare.”

Nazik al-Mala’ika (poetessa irachena)

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Io sono verticale

“Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo più perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.”

Sylvia Plath

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Amedeo Modigliani, “Jeanne Hébuterne con collana e cappello”, 1917

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Orlo

“La donna è la perfezione.
Il suo morto
Corpo ha il sorriso del compimento,
un’illusione di greca necessità
scorre lungo i drappeggi della sua toga,
i suoi nudi
piedi sembran dire:
abbiamo tanto camminato, è finita.
Si sono rannicchiati i morti infanti ciascuno
come un bianco serpente a una delle due piccole
tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha riavvolti
Dentro il suo corpo come petali
di una rosa richiusa quando il giardino
s’intorpidisce e sanguinano odori
dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.
Niente di cui rattristarsi ha la luna
che guarda dal suo cappuccio d’osso.
A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.”

Sylvia Plath, “Orlo”

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Kokeshi

“Io cerco dei vestiti che
siano perfetti per me, ma non li trovo da nessuna parte
forme, tessuti e
colori capaci di esprimere tutto quello che ho dentro
vestiti che dicano che
sono viva qui, in questo momento
provo a mettere insieme tutte le immagini
che conosco, ma non funziona
in questo paese, oggi, nemmeno i miei genitori
riescono a trovarli.
Come una bambola kokeshi
come un uovo sodo senza il guscio
come un feto in attesa di venire alla
luce
aspetto qualcosa
come un pulcino appena nato ancora bagnato
ho
il presentimento delle cose lieti e delle cose tristi che stanno per accadere
neanche questo riesco a esprimere in parole, non ancora
ma mi batte il
cuore, sono viva.
In questo paese,
indipendentemente da dove si nasce
siamo pressati, incalzati, costretti in
una forma
anche nella più remota campagna , è un susseguirsi di stradoni
diritti e anonimi
ed enormi negozi di cattivo gusto
ma se guardo il
verde delle montagne fitte di alberi mi vengono le lacrime agli occhi
una
piccola cascata che mi sembra un giocattolo
il colore grigio del mare
tranquillo come un lago
amo questa natura delicata che c’è solo qui da noi.
Sono tempi in cui può
accadere di tutto
si organizzano con grande impegno convegni in difesa degli
uccellini
mentre i bambini uccidono i gatti
la gente partecipa con gioia
a un’antica festa popolare portando a spalle
il palanchino sacro, e intanto
qualcuno mette il veleno nel cibo di tutti
molti dicono che non sanno più in
cosa credere.
Forse non c’entra molto, ma
c’è la madre di una mia amica che ha sempre
le unghie perfettamente in
ordine
la sua cucina, che non viene mai usata, è tutta scintillante
da
loro si mangiano solo cibi comprati già pronti
in raffinati negozi di
gastronomia
e pane francese che si fanno recapitare a casa appena sfornato
ma la mia amica è amata.
Mia madre è di famiglia
contadina, la mia cucina è sempre schizzata di grasso
lei fa da mangiare
riso bianco, tempura e verdure in salamoia, è una cuoca fantastica
anch’io
sono amata.
Più che gli aspetti negativi delle differenze
conta la
possibilità di coltivare l’amore e di capirsi l’uno con l’altro
la
possibilità di crescere
in quest’epoca che si muove vertiginosamente, non
faccio che vedere gente,
tante persone tutte diverse
e posso incontrarle
senza paura, da qualunque posto vengano,
qualunque sia il loro aspetto
seguendo l’istinto, abbandonando i pregiudizi
la nostra anima diventa
sempre più meravigliosa.
Mi piace
mangiare,
prendermela comoda,
stare in salute,
essere approvata dagli altri, il
denaro,
evitare di vedere le cose brutte,
ma non è per questo che vivo.
Per fare quello che mi interessa davvero
posso anche non mangiare, avere
guai,
ammalarmi,
essere criticata, restare senza un soldo,
vedere un
sacco di cose brutte
fa lo stesso.
Sono fiera di questa mia convinzione,
per infantile che sia
vivere è vedere entrambi i lati delle cose
non è
mica roba da poco
vorrei che tv e giornali smettessero di raccontare solo
cose tristi
in questo mio nuovo viaggio
che è ancora appena
all’inizio.”
Banana Yoshimoto, “Kokeshi”

*****

Jean-François Millet, “Le spigolatrici”, 1857

*****

Mi sono alzata presto in questi anni

“Mi sono alzata presto in questi anni
a dormire – tardi.
E le mie mani diventavano scalpelli
gli scalpelli – spade, il petto come scudo
mentre a schiena china
scolpivo il legno duro della vita
e permettevo a me stessa di somigliare
alla donna che in me vedevi, senza che io mi accorgessi.
Mi sono alzata presto in questi anni
mi sono sporcata le mani
rieducato – il cuore.
Ho tenuto ben saldo nella mente
di chi sono figlia.”

Anileda Xeka

*****

Dove sono le donne

“Dove sono le donne
mentre voi camminate per le strade in branchi regolari
la domenica mattina
col passo degli sfaccendati?
Fanno la spesa
le faccende di ogni giorno
lavano i piatti del sabato sera
e badano ai bambini
mentre voi camminate per le strade
la domenica mattina
col passo degli sfaccendati.
Dove sono le donne
mentre voi rifate il mondo a misura vostra
un mondo rosso un mondo nero
la sera
intorno al tavolo?
Cucinano
apparecchiano
mettono i piatti sulla tavola
li riempiono di cibo
mentre voi rifate il mondo a misura vostra.
Dove sono le donne
quando voi fate loro l’amore?
Lontano da voi
pensano al giorno dopo
alla spesa
ai piatti da lavare
alle faccende
ai figli
alla cucina
alle posate
alla tavola
ai piatti
pensano al giorno dopo, loro.”

Anne Sexton

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Teofilo Patini, “Bestie da soma, 1886

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Lei era fatta di parole

“Lei era fatta di parole:
occhi di luce,
cuore di pioggia,
piedi di insonnia,
fronte di pieghe,
mani di farfalla,
ventre di luna.
Nei giorni nuvolosi
era solita restare nella stanza
e, per ammazzare il tempo,
giocava a ricrearsi:
cuore di luce,
occhi di pioggia,
fronte d’insonnia,
piedi di pieghe,
mani di luna,
ventre di farfalla.”

Flor Marina Yáñez Lezama (scrittrice e musicista venezuelana)

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Abito…

“Abito nella tua voce
e quando tace
il silenzio è alato.
Abito sotto la violenza
delle tue ali
e quando il silenzio
è sommerso dai rumori
essi sono il cuore del mondo.
Abito nel mondo
e le piume del mondo
sanno che la bellezza esiste.
Quando arriverà il tuo passo
metterò una conchiglia sopra la soglia
e nell’aprirla
i frantumi volando
reciteranno il tuo nome.”

Chandra Livia Candiani

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Dove ti sei perduta

“Dove ti sei perduta
da quale dove non torni,
assediata
bruci senza origine.
Questo fuoco
deve trovare le sue parole
pronunciare condizioni
di smarrimento dire:
«Sei l’unica me che
torna a casa».”
Chandra Livia Candiani, da “La domanda della sete”
*****

Jean-Honoré Fragonard, “La lettrice”, 1776

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Non innamorarti di una donna che legge

“Non innamorarti di una donna che legge,
di una donna che sente troppo,
di una donna che scrive.
Non innamorarti di una donna colta,
maga, delirante, pazza.

Non innamorarti di una donna che pensa,
che sa di sapere e che inoltre è capace di volare,
di una donna che ha fede in se stessa.
Non innamorarti di una donna che ride
o piange mentre fa l’amore,
che sa trasformare il suo spirito in carne e, ancor di più,
di una donna che ama la poesia (sono loro le più pericolose),
o di una donna capace di restare mezz’ora davanti a un quadro
o che non sa vivere senza la musica.

Non innamorarti di una donna intensa, ludica,
lucida, ribelle, irriverente.
Che non ti capiti mai di innamorarti di una donna così.
Perché quando ti innamori di una donna del genere,
che rimanga con te oppure no, che ti ami o no,
da una donna così, non si torna indietro.
Mai.”

 

Martha Rivera Garrido, “Non innamorarti di una donna che legge”

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Cambiare è un verbo piccolo

 

“Ho imparato a riconoscere chi c’è e chi non c’è,
a fare da sola, a essere forte,
ad avere una soluzione per ogni problema,
o almeno fingere di averla.
Ho imparato a contenere, a disarmare,
a costruire e a smontare.
Ho imparato ad avere certezze per poterle raccontare
e a camminare sul filo a occhi chiusi, sorridendo.
Ho conosciuto l’ansia e la paura
e non mi hanno più abbandonata,
ho conosciuto la felicità e il terrore di perderla,
ho conosciuto la vertigine dell’eternità
che dà un senso agli anni che passano.
Se sono cambiata?
Cambiare è un verbo piccolo
quando ti passa sopra un tir.”

 

Claudia De Lillo, “Cambiare è un verbo piccolo”

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La grande paura

 

“La storia della mia persona
è la storia di una grande paura
di essere me stessa,

contrapposta alla paura di perdere me stessa,
contrapposta alla paura della paura.
Non poteva essere diversamente:
nell’apprensione si perde la memoria,
nella sottomissione tutto.

Non poteva
la mia infanzia,
saccheggiata dalla famiglia,
consentirmi una maturità stabile, concreta.
Né la mia vita isolata
consentirmi qualcosa di meno fragile
di questo dibattermi tra ansie e incertezze.
All’infanzia sono sopravvissuta,
all’età adulta sono sopravvissuta.
Quasi niente rispetto alla vita.

Sono sopravvissuta, però.
E adesso, tra le rovine del mio essere,
qualcosa, una ferma utopia, sta per fiorire.”

 

Piera Oppezzo, “La grande paura”

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 Angelo Morbelli, “Per 80 centesimi, 1895

 

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Donne mie

 

“Donne mie illudenti e illuse che frequentate le università liberali,
imparate latino, greco, storia, matematica, filosofia;
nessuno però vi insegna ad essere orgogliose, sicure, feroci, impavide.
A che vi serve la storia se vi insegna che il soggetto
unto e bisunto dall’olio di Dio è l’uomo
e la donna è l’oggetto passivo di tutti
i tempi? A che vi serve il latino e il greco
se poi piantate tutto in asso per andare
a servire quell’unico marito adorato
che ha bisogno di voi come di una mamma?

Donne mie impaurite di apparire poco
femminili, subendo le minacce ricattatorie
dei vostri uomini, donne che rifuggite
da ogni rivendicazione per fiacchezza
di cuore e stoltezza ereditaria e bontà
candida e onesta. Preferirei morire
piuttosto che chiedere a voce alta i vostri
diritti calpestati mille volte sotto le scarpe.

Donne mie che siete pigre,
angosciate, impaurite,
sappiate che se volete diventare persone
e non oggetti, dovete fare subito una guerra
dolorosa e gioiosa, non contro gli uomini,
ma contro voi stesse che vi cavate gli occhi
con le dita per non vedere le ingiustizie
che vi fanno. Una guerra grandiosa contro chi
vi considera delle nemiche, delle rivali,
degli oggetti altrui; contro chi vi ingiuria
tutti i giorni senza neanche saperlo,
contro chi vi tradisce senza volerlo,
contro l’idolo donna che vi guarda seducente
da una cornice di rose sfatte ogni mattina
e vi fa mutilate e perse prima ancora di nascere,
scintillanti di collane, ma prive di braccia,
di gambe, di bocca, di cuore,
possedendo per bagaglio
solo un amore teso, lungo, abbacinato e doveroso
(il dovere di amare vi fa odiare l’amore, lo so)
un amore senza scelte, istintivo e brutale.

Da questo amore appiccicoso e celeste
dobbiamo uscire
donne mie,
stringendoci fra noi per solidarietà
di intenti, libere infine di essere noi
intere, forti, sicure, donne senza paure.”

 

Dacia Maraini, “Donne mie”

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Artemisia Gentileschi, “Giuditta e la sua ancella”, 1618-1619 circa

 

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Consigli per una donna forte

 

“Se sei una donna forte proteggiti dai parassiti che vorrebbero mangiare il tuo cuore. Essi usano tutti i
travestimenti dei carnevali della terra:
si vestono da colpe, da opportunità, da prezzi che bisogna pagare.
Ti frugano l’anima, insinuano il trapano dei loro sguardi o dei loro pianti
nel più profondo magma della tua essenza
non per accendersi con il tuo fuoco
ma per spegnere la passione, l’erudizione delle tue fantasie.

Se sei una donna forte devi sapere che l’aria che ti nutre,
trasporta anche parassiti, mosconi, minuti insetti che cercheranno di abitare nel tuo sangue e nutrirsi di quanto è solido e grande in te.
Non perdere la compassione, ma temi ciò che conduce a negarti la parola,
a nascondere chi sei, ciò che ti obbliga ad addolcirti
e ti promette un regno terrestre in cambio del sorriso compiacente.

Se sei una donna forte preparati alla battaglia:
impara a stare sola, impara a dormire nella più assoluta oscurità senza paura,
impara che nessuno ti lancia corde quando ruggisce la tempesta,
impara a nuotare controcorrente.

Allenati alla riflessione e all’intelletto.
Leggi, fai l’amore con te stessa, costruisci il tuo castello,
circondalo di fossi profondi, però fai ampie porte e finestre.
È necessario che coltivi grandi amicizie,
che coloro che ti circondano e ti amano sappiano chi sei
fatti un cerchio di roghi e accendi nel centro della tua stanza
una stufa sempre ardente, dove si mantenga l’ardore dei tuoi sogni.
Se sei una donna forte proteggiti con parole e alberi
e invoca la memoria di donne antiche.
Devi sapere che sei un campo magnetico
verso il quale viaggeranno urlando i chiodi arrugginiti
e l’ossido mortale di tutti i relitti.
Proteggi, dà rifugio, però prima proteggi te stessa.
Mantieni le distanze.
Costruisciti. Abbi cura di te.
Conserva il tuo Potere.
Difendilo.
Fallo per Te
Te lo chiedo in nome di tutte noi.”

 

Gioconda Belli, “Consigli per una donna forte”

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Jean-Gabriel Domergue (1889 – 1962), “Ballerine di cancan”

 

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Frenesia di danza

 

“Canterò la mia frenesia illuminata,
me ne libererò
per poterti amare
in modo che ogni bacio non
sia il mio corpo disteso e nudo
sulla pietra rituale.
Ho amato uomini belli,
violenti, dolci, tristi e gioiosi.
In tutti ho cercato la luna
i flussi e i riflussi, la marea.
Sono stata un vulcano focoso
che erutta lava
e un gabbiano che vola a pelo d’acqua.
Una colomba che nutre i suoi piccoli
una leonessa che percorre maestosa le foreste.
Ho attraversato sentieri di ogni specie
e ho sudato e sorbito la vita che mi han dato.
Ho conosciuto inverni tormentosi
ed estati aride in cui la pelle si crepa con la terra.
Ho camminato in lungo e in largo
usato macchine di tutti i tipi.
Ho conosciuto la morte
e l’ho amata coperta di muschio e di lacrime.
Ma eccomi qui a sollevare sabbia su castelli d’acqua.
Eccomi qui a danzare follemente specchi senza immagini.
Albero che si scrolla inquieto i fiori
per rimanere nudo e solo all’imbrunire.
Schivo stormi di uccelli migratori
che cercano di inseguirti nello spazio.
Evito i rami del mondo in fiamme
e ti do da bere il sudore della folla.
Provo sdegno e accarezzo i riccioli neri della chioma.
Taccio o mi lancio in accese discussioni.
Mi servo di incantesimi di donna o di freddi ragionamenti da saggi.
Esaurisco le munizioni in un combattimento di nemici invisibili.
Un giorno o l’altro uscirai dal labirinto.
Camminerai per giardini quieti preso dai ricordi.
Io mi struggerò la notte
e il tesoro delle mie meraviglie sottomarine
sarà sommerso nella valle dove nasce l’uragano.
Ora esco con la pelle nuda
a percorrere strade
in una sfrenata corsa di cervi.
Ora si rasserenerà il mio cuore
tessitore di fortuna e di ragnatele.
Ora mi scuoteranno i terremoti
per creare tenui città
paesaggi delineati nella spuma.
Un giorno o l’altro morirò di esser morta.
Ti lascerò tatuato di usignoli.
Farò crescere campanule attorno
alle tue notti lontane.
Le spirali di questo tempo che sta sfumando
ti riporteranno nel profumo delle azalee
questa donna che cantò
contro Penelope
per un sordo Ulisse navigante.”

Gioconda Belli, “Frenesia di danza”

*****

Sempre questa sensazione d’inquietudine

 

“Sempre questa sensazione d’inquietudine
di attesa d’altro.
Oggi sono le farfalle e domani sarà la
tristezza inspiegabile.
La noia o l’ansia sfrenata
di rassettare questa o quella la stanza,
di cucire, andare qua e là a fare commissioni,
e intanto cerco di tappare l’Universo con un dito,
creare la mia felicità con
ingredienti da ricetta di cucina,
succhiandomi le dita di tanto in tanto,
di tanto in tanto sentendo che mai potrò essere sazia,
che sono un barile senza fondo,
sapendo che “non mi adeguerò mai”,
ma cercando assurdamente di adeguarmi
mentre il mio corpo e la mia mente si aprono,
si dilatano come pori infiniti
in cui si annida una donna che avrebbe
voluto essere uccello, mare, stella,
ventre profondo che dà alla luce Universi
splendenti stelle nove…
e continuo a far scoppiare Palomitas nel cervello
bianchi bioccoli di cotone,
raffiche di poesie che mi colpiscono
tutto il giorno e
mi fanno desiderare di gonfiarmi come un
pallone per contenere
il Mondo, la Natura, per assorbire tutto e stare
ovunque, vivendo mille e una vita differente…
ma devo ricordarmi che sono qui e che
continuerò
ad anelare, ad affermare frammenti di chiarore,
a cucirmi un vestito di sole,
di luna, il vestito verde color del tempo
con il quale ho sognato di vivere
un giorno su Venere.”
Gioconda Belli
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Vilhelm Hammershøi, “Interno con piano e donna vestita di nero”, 1901 
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E Dio mi fece donna

“E Dio mi fece donna,

con capelli lunghi,

occhi,

naso e bocca di donna.

Con curve

e pieghe

e dolci avvallamenti

e mi ha scavato dentro,

mi ha reso fabbrica di esseri umani.

 

Ha intessuto delicatamente i miei nervi

e bilanciato con cura

il numero dei miei ormoni.

Ha composto il mio sangue

e lo ha iniettato in me

perché irrigasse tutto il mio corpo;

nacquero così le idee,

i sogni,

l’istinto

Tutto quel che ha creato soavemente

a colpi di mantice

e di trapano d’amore,

le mille e una cosa che mi fanno donna

ogni giorno

per cui mi alzo orgogliosa

tutte le mattine

e benedico il mio sesso.”

 

Gioconda Belli, “E Dio mi fece donna”

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Mi dichiaro colpevole

 

“Mi dichiaro colpevole di fidarmi dell’altro
di sognare a voce alta
di cercare la poesia.
Mi dichiaro colpevole
di dire quello che sento
di scommettere sul sentire
di credere nel detto.
Mi dichiaro colpevole
di sentire che è possibile
piangere un’assenza
un incontro.
Mi dichiaro colpevole
di vivere un altro tempo
di fidarmi di un gesto
di insistere per la verità
Mi dichiaro colpevole
Si.
Mi dichiaro colpevole.
Non me ne pento”

 

Araceli Mariel Arreche, “Mi dichiaro colpevole”

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Achille Beltrame, L’infermiera volontaria Ina Battistella, illustrazione  realizzata per la “Domenica del Corriere”, dicembre 1918

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Tutto e niente

 

“Non mi nascondo dietro un sorriso
né all’ombra di un ramo sterile e anemico
non mi rifugio in sogni inaccessibili
e non conto le lucciole la sera
l’eco dei miei passi non si perde nell’inganno del vento
e la strada che calpesto non è fatta di specchi
ho mille cicatrici sulle mie labbra
una ad una parlano per me
e tutte valgono la mia vita
non voglio sentire il rumore di parole inutili
né voglio parlare a chi non ha udito
ho mille porte aperte nella mia casa
ma solo una rampa di scale praticabile
il resto è una giostra di facce indifferenti
il resto è un giorno che scivola nella notte
già alle prime luci dell’alba.”

 

Antonella del Guerra, “Tutto e niente”

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Una donna

 

“Una donna è una cosa che canta
in mezzo alla bufera del mondo
coi lunghi capelli sparsi
su oscure catene
una donna mi ispira i colori
e il sonno delle ombre
tu che sei donna ascolta:
non avrai una spiaggia sicura
né un porticciolo di vento
ma amerai uomini in festa
perché la tua bellezza
è voce del vento.
sei scura come la menzogna
e ti crederanno bugiarda
verrai arsa sul rogo d’impazienza
ma tu non brucerai mai
perché sei bella.”

 

Alda Merini, “Una donna”

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Io nasco adesso

 

“La terra oscuro utero caldo e umido
Mi sta partorendo
Nuova e millenaria
Fresca di sudore
Sporca di sabbia
Donna corteccia inespugnabile
Donna di radici profonde ed intricate
Con voracità geocentrica, cercandosi,
Io nasco
Donna di rami frondosi
Donna di spore furiose e migratorie
Donna di canto di uccelli, nido e volo
Donna di succosi frutti
Nasco
Del letto tiepido di una trincea
Apertura vaginale
Di una terra che geme
Insanguinata e dolente
Attraverso la bocca, ferita , imbavagliata o morta
Di mille e mille donne
E da loro si dissangua
E da loro traspira.
Io capite,
la strega bruciata sui righi
inquisitori o no
ma pure e sempre roghi,
Io , la pazza dai lunghi capelli
Solo lunghi capelli sul piccolo cranio
Dalle idee folli
E la strana audacia di un idea
Io, la puttana
Crivellata da indici accusatori e pietre
Che non sempre furono le prime
Dei senza colpa.
Io, capite , nasco
E nella mia espulsione
Muore un epoca e inizia un altro tempo.
Nasco
Salda sui miei piedi
Deformati dai rozzi scarponi
Con i capelli arruffati
E l’uniforme sporca
Che mi sta grande.
Nasco pura, senza belletti
Senza annunci commerciali martellanti.
Nasco gigante
Con una bellissima bruttezza
Di cui non mi curo
Nasco in piedi
E con un fucile fra le mani
Accarezzando o additando astri
Lontani ma non raggiungibili
Che puoi cogliere come frutta matura.

Io nasco per inventare sentieri
E arare solchi nuovi
Giocando alla felicità sconosciuta
Scommettendo tutto:
io nasco donna e basta…”

 

Mariana Yonusg Blanco (poetessa venezuelana), “Io nasco adesso”, da “Io nasco donna, e basta”

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Graffito di Aya Tarek (in arte Beauty Queen of Azarita), la prima street artist egiziana

 

*****

Questo vogliamo

 

“Prendere d’assalto il cielo
Espropriare il futuro
Sconfiggere la morte
Distruggere a colpi e morsi rabbiosi
La diga che racchiude le vita
Affinché questa scorra e scorra
E inondi tutto
Assolutamente tutto!
Abbiamo il fermo proposito
Di instaurare l’allegria
Come unica forma di vita:
l’unica morte possibile
sarà morire di felicità.
Abbiamo il fermo proposito
Di difendere la luce
Per noi e per voi
Che verrete
Che dovrete venire
Infallibilmente
Uomini puri, semplici e buoni
Uomini nuovi.”

Mariana Yonusg Blanco, “Questo vogliamo”, da “Io nasco donna, e basta”

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Vorrei essere una donna

 

“Vorrei essere una donna
che non si può addizionare
né sottrarre
né moltiplicare
né dividere
né cancellare
né diffidare
né tramortire.”

Maram al-Masri, da “Anime scalze”

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Il Maestro delle mezze figure femminili (anonimo pittore olandese del XV secolo), “Le tre suonatrici” 

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Tutto quello che mi serve

“Tutto quello che mi serve
è una camera
una camera con una finestra
affinché lo spazio possa penetrarvi,
la luna
il sole
e le stelle
e le parole del mondo.

Un tetto che mi protegga dalle piogge
e dei muri per attaccarci le foto
e la mia ombra per non restare sola.

Una camera, anche piccola.
Potrei farla diventare più grande
facendo mille passi sul posto
girando su me stessa nella danza.

Una camera in cui potrei spiare
l’arrivo del tempo delle ciliegie.
Potrei sognare la felicità
e ridisegnare i miei sorrisi.

Una camera
che conterrebbe
la mia libertà.”

Maram Al Masri, da “Anime Scalze”

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Sono tornata da me

“Sono tornata da me,
perché sono stanca di cercare qualcosa che non so,
di chiedere a chi non può offrire
o di aspettare chi è già occupato a illuminare se stesso,
di desiderare un corpo che non è mio,
di avere aspettative che mai arriveranno
perché comunque lontane dalla mia natura,
di fingere di capire o essere sempre tollerante e disponibile
con chi non comprende il mio valore.

Sono tornata da me,
perché non posso più dedicare il mio tempo, occhi e speranza
in cuori che non desiderano battere con il mio,
a chi non crede nella magia,
a chi dedica il suo momento e il suo pensiero a lamentarsi di ciò che non va,
o ad anelare cose che non gli appartengono,
e a criticare in ogni dove.

Sono tornata da me,
come unica destinazione possibile,
come strada disponibile,
come quel ritorno a casa
in sospeso da tanto tempo.
Sono tornata da me,
ho visto quanto ho corso contro il tempo,
i dolori della mia anima assetata di verità
in cerca di acqua.

Mi sono ospitata e sono entrata,
mi sono chiamata,
mi sono abbracciata e accarezzata,
e mi sono imbattuta in una me stessa.
Mi stava aspettando con il cuore ricolmo di speranza,
diversa è vero ma sana.

Ho visto che ero comunque intatta e non frammentata come pensavo di essere,
ho ritrovato la magia nei miei occhi,
e l’ho voluta rivedere ancora e ancora.

Ho scoperto di aver sempre posseduto le chiavi,
ed è stato bellissimo ritrovarmi.

Da qui, da dove abito scelgo me,
scelgo chi e scelgo cosa desidero,
muoio e resuscito ogni giorno e sono pur sempre viva.
Ho capito che questa è resilienza
e la trovo solo dove abita me stessa.”

Carla Babudri

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Hans Baldung Grien, “Eva, il Serpente e la Morte”, 1520

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Sono una donna pericolosa

“Sono una donna pericolosa
non porto bombe né bambini in grembo
non porto fiori né miscugli incendiari
porto scompiglio nella tua ragione, nelle tue teorie,
nel tuo realismo
perché non giacerò nelle tue trincee
né scaverò trincee per te
né mi unirò alla tua lotta armata
per trincee più belle e più grandi.
Non camminerò con te né per te,
non vivrò con te, né morirò per te
ma neppure cercherò di negarti
il tuo diritto a vivere e morire.
Non dividerò con te neppure un centimetro di
questa terra
finché tu sarai maledettamente proteso verso la distruzione,
ma neppure negherò che siamo fatti della stessa terra
nati dalla stessa Madre,
non ti permetterò di legare la mia vita alla tua
ma ti dirò che le nostre vite sono legate insieme
e esigerò che tu viva per comprendere
questa cosa importante
che sono una donna pericolosa.
Perché devi sapere, signore, che
sono una donna pericolosa
perché non tacerò niente di tutto questo
non colluderò con te
non avrò fiducia in te né ti disprezzerò.
Sono pericolosa perché non rinuncerò, non tacerò
né mi adatterò alla tua versione della realtà.
Tu hai congiurato per svendere la mia vita
e io sono molto pericolosa
perché non potrò perdonare né dimenticare
né mai congiurerò per svendere la tua
in cambio.”

Joan Cavanagh, “Sono una donna pericolosa”

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Non ho cercato la chiave

“Non ho cercato la chiave
in una tasca rotta
in una scarpa vecchia
Ho cercato nei miei occhi
le sette lune
sveglia nella nebbia
Mi sono scrollata con forza
fino a buttar fuori la muffa del silenzio
Ho aperto l’armadio
tarlato
quello che mi ha regalato la nonna
per conservare le mie lacrime
Ho buttato cose vecchie
Idee, comandamenti, catene…
Mi sono tolta le maschere
mi sono vista
Ho stretto i pugni
ho rotto le finestre
Ho aperto la porta

e mi sono presa la strada.”

Nora Murillo

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Jean-Jacques Feuchere, “Amazzone che doma un cavallo selvaggio, 1825

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Vorrei essere donna

“Vorrei essere donna
come la neve è neve,
flemmatica e misurata,
nel mio viaggio verticale,
pronta a deviare al soffio, al volo,
ma senza addomesticare
il bianco
della natura e uno sfarfallio
che non è paura,
sicura e serena, senza ostentare
capace, in misura uguale,
di prendere amore e di farmi odiare.

Devota alla mia sostanza,
alleata fedele della mia
condizione,
di me stessa per prima
amante e sposa,
essere donna
come neve che non sa e non deve
fare che neve
sullo straccio
e sulla rosa.”

Beatrice Zerbini, da “In comode rate – Poesie ed Eventuali”

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Come fossero alberi di mele
“Scusa se non sono stata attenta,
stavo sognando un prodigio.
Non ci riesco più amico mio
a pensare a me stessa come
quella donna che vive
per assolvere i suoi doveri.
Meglio smettere di pensare
di essere insostituibile,
accettare di vivere senza paura
qualunque cosa ti capiti.
Essere inutili
a volte è un privilegio.
Non c’è niente di più urtante
che parlare con quelle persone
che hanno sempre un problema
più grande del tuo.
Se gli racconti che sei stato all’inferno
che stavi per morire bruciato dalle fiamme,
ti rispondono che non è niente
in confronto ai loro tormenti.
Scusa se non ti ascolto mentre parli
ma io voglio diventare contadina,
coltivare prodigi come se fossero
alberi di mele,
innaffiarli con la luce del mattino,
sedersi vicino alle radici
ad aspettare la fioritura
bianca e profumata,
cogliere i frutti ad uno ad uno,
darli ai bambini che non ho avuto
e che pure erano miei.
Scusa amico mio
ma sto facendo un lavoro
piuttosto impegnativo
e ho appena cominciato.
Sto sognando prodigi
forti e resistenti come mattoni
e con quelli costruirò casa mia.
Mura che non si abbattono.”
Anna Spissu, “Come fossero alberi di mele”, da “La vita trasparente”
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Mi espando e vivo

“Mi espando e vivo
illegalmente
in aree che gli altri
non riconoscono reali.
Là mi fermo ed espongo
il mio mondo perseguitato,
là lo riproduco
con amarezza ribelle,
là lo affido
a un sole
senza forma, senza luce,
immobile,
personale.
Là accado.

A volte però
tutto questo s’arresta.
E mi restringo,
a forza rientro
(rassicurante)
nell’area ammessa
e legale,
nell’amarezza terrena.

E mi smentisco.”

Kikí Dimulà, poetessa greca (1931-2020 ), da “L’adolescenza dell’oblio”

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Un giorno ti svegli

“Un giorno ti svegli
– e con un po’ di cautela –
inizi a toglierti
gli insulti di dosso
come pezzi di corteccia

 Ti togli l’ansietà
come fini garze di seta.

 Ti strappi il disprezzo
che si è incrostato sulle tue vene.

 Ti confronti con lo specchio
come fosse la prima volta.
Vesti il tuo corpo con manti di tenerezza
e perdoni.

 Non c’è tempo
per scagliare pietre”

 Silvia Cuevas-Morales

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Frida Kahlo, “La colonna spezzata“, 1944

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Una donna
“Sono una donna bella, di una bellezza che non svanisce.
L’ho meritata, scoperta, raccolta come un gioiello nella polvere,
l’ho liberata e fatta splendere.
Non l’ho riconosciuta per anni, sebbene sentissi che era là.
Ora abbaglia e prospera.
Sono sana, capace, indipendente, forte eppure ancora così fragile, sconfitta da un sospiro.
Il mio corpo è quello di una creatrice: angoli che incontrano curve, durezza che sfocia nel morbido.
Sono madre, figlia, sorella, amante di me stessa. Accogliente e coraggiosa, io espando il mio cuore.
Il mio corpo è la mia casa, la mia casa un santuario alla vita, confortevole, caldo e ricco di tesori.
Mio è l’aroma di spezie calde catturato nel vento, mia la risata
che vola attraverso la porta.
Condivido me stessa soltanto con quelli che mi rispettano
per come sono e proteggo me,la mia casa ed il mio tempo dagli invasori.
Cerco il mio centro nel mezzo del caos, addestro alla pace i cani selvatici che mi urlano nella mente.
Uso il potere per il bene più grande, lascio libera la rabbia in situazioni neutrali, senza alcun innocente sulla linea del fuoco.
Sto imparando come persistere e quando lasciare andare;
sono pronta a sentire la profondità e l’ardore di tutte le emozioni svegliarsi in ogni nervo e non ho più paura.
La mia bellezza e la mia forza trascendono età, tempo e forse anche questa vita.
Ogni giorno sono nuova, ancora più a casa dentro di me.
Attimo per attimo, io creo il mio mondo.”
Karen Andes
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Libero cor nel mio petto soggiorna
“Libero cor nel mio petto soggiorna,
Non servo alcun, né d’altri son che mia,
Pascomi di modestia, e cortesia,
Virtù m’essalta, e castità m’adorna.
Quest’alma a Dio sol cede, e a lui ritorna,
Benché nel velo uman s’avolga, e stia;
E sprezza il mondo, e sua perfidia ria,
Che le semplici menti inganna, e scorna.
Bellezza, gioventù, piaceri, e pompe,
Nulla stimo, se non ch’a i pensier puri,
Son trofeo, per mia voglia, e non per sorte.
Così negli anni verdi, e nei maturi,
Poiché fallacia d’uom non m’interrompe,
Fama e gloria n’attendo in vita, e in morte.”
Moderata Fonte (pseudonimo di Modesta Pozzo de’ Zorzi, poetessa del ‘500), da “Il Merito delle Donne”, 1600
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      Charles William Mitchell, “Ipazia”, 1885
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Osso
“Un tempo fui
un osso
nella pianura
tra gli altri scheletri.
In un deserto remoto
tra rocce e ciottoli.
Ero nuda, ero bianca.
Il vento venne,
un soffio d’aria
spinse l’anima
dentro di me.
Fui fatta donna,
forgiata da una
costola d’Adamo.
La tempesta venne,
soffiò con forza
sentii la tua voce
un richiamo nel tuono.
Fui fatta Eva
madre della razza.
Vendetti la mia primogenitura
per il bene dei miei figli.
Barattai una mela
per il più antico dei desideri.
Sono un osso
ancora.”
Nuala Nì Dhomhnaill, “Osso”, (poetessa irlandese)
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Non sopporto il mio stato mentale
“Non sopporto il mio stato mentale:
sono scontenta, garrula, asociale.
Odio i miei piedi, odio le mie mani,
non m’interessano lidi lontani.
Temo il mattino, la luce del giorno;
odio, la notte, al letto far ritorno.
Maldico chi agisce onestamente
non tollero lo scherzo più innocente.
Non mi appagano un quadro, una lettura:
per me il mondo è soltanto spazzatura.
Sono cinica, vuota, scombinata.
Non so come non mi abbiano arrestata
per quel che penso. I vecchi sogni andati,
l’anima a pezzi, i sensi torturati.
Non mi è chiaro nemmeno come sto
ma certo non mi piaccio neanche un po’.
E litigo, cavillo, gemendo di paura:
penso alla morte, alla mia sepoltura.
L’idea di un uomo mi lascia sconvolta…
Sto per innamorarmi un’altra volta.”
Dorothy Parker Rothschild (scrittrice, poetessa e giornalista statunitense)

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Egon Schiele, “Kneeling Female in Orange-Red Dress”, 1910

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Usucapione
“A volte, quando allo specchio nuda
m’asciugo o mi preparo o mi curo,
mi tiene assieme un unico pensiero:
che quella superficie è altrui,
che ogni forma è donna perché un corpo
un giorno, o più volte, l’ha avuta.
Mi sento, allora, come chi gratuitamente
vive in casa d’altri a patto di curarne la tenuta.
M’asciugo e mi preparo e mi curo
sperando di restituirmi a te e d’essere abitata.
Mi amo, allora, nella misura in cui
ogni mia forma attende d’essere amata.
Mantengo acceso il fuoco della tua assenza,
lucido i vetri, tengo sgombro il salone:
in questa casa senza eredi nulla
deve mancare in una lunga permanenza.
Occupo, col terrore dell’usucapione.”
Anna Belozorovitch, “Usucapione”, da “Il pesce rosso”, 2018

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Sorelle, a voi non dispiace
“Sorelle, a voi non dispiace
ch’io segua anche stasera
la vostra via?
Così dolce è passare
senza parole
per le buie strade del mondo –
per le bianche strade dei vostri pensieri –
così dolce è sentirsi
una piccola ombra
in riva alla luce –
così dolce serrarsi
contro il cuore il silenzio
come la vita più fonda
solo ascoltando le vostre anime andare –
solo rubando
con gli occhi fissi
l’anima delle cose –
Sorelle, se a voi non dispiace –
io seguirò ogni sera
la vostra via
pensando ad un cielo notturno
per cui due bianche stelle conducano
una stellina cieca
verso il grembo del mare.”
Antonia Pozzi – Milano, 6 dicembre 1930

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Illustrazione di Catrin Welz-Stein

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Lei era fatta di parole

“Lei era fatta di parole:
occhi di luce,
cuore di pioggia,
piedi di insonnia,
fronte di pieghe,
mani di farfalla,
ventre di luna.
Nei giorni nuvolosi
era solita restare nella stanza
e, per ammazzare il tempo,
giocava a ricrearsi:
cuore di luce,
occhi di pioggia,
fronte d’insonnia,
piedi di pieghe,
mani di luna,
ventre di farfalla.
Oppure,
occhi d’insonnia,
cuore di luna,
piedi di farfalla,
fronte di luce,
mani di pieghe,
ventre di pioggia;
oppure…”
Flor Marina Yánez Lezama (Venezuela)

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La donna vuota
“La donna vuota offriva giocattoli!
In casa le sue sorelle
Avevano bambini e bambine.
La donna vuota indossava cappelli.
Con piume.
Pettini imperlati
In chiome ondulate. Corteggiava gatti
E piccioni.
Faceva la spesa.
Con diligenza acquistava balocchi per
Nipotini e nipotine.
E caramelle,
Preparava il popcorn e odiava le sorelle, non
Avevano né piume né permanenti ma sapevano
Guarire il vaiolo, pulire nasi, svuotare vesciche
Sapevano ignorare ogni giorno le pettegole
E quei ragazzi soldati, e tutto il giorno
Dicevano “Dio mio!” – stanche di permanenti
E di gambe grosse e di muscoli esposti e di
Sacchi da scuola anneriti e di babushke e di
Calze bucate, e di parrucche splendenti e boriose.”
Gwendolyn Brooks, “La donna vuota”
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VakseenArt
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Mille martiri
“Mille martiri
ho collezionato
sacrificati al mio desiderio;
mille bellezze ho tradito
che si lagnano nel fuoco eterno.
Ho tra le mani un cuore indomabile
e affermo un pensiero selvaggio, apolide.
Non giuro e non sospiro invano:
accolgo le false promesse altrui.
Alla fiera piace farci soffrire
e credo a tutto ciò che desidera.
Benché confidi nella ferita d’amore
soltanto il piacere ha scalfito il mio cuore.
Soltanto gloria e razzia voglio:
mi fate ridere, mi annoiate:
modesti trofei, trionfi ottenuti senza fatica,
al di là dell’inferno, della gioia del paradiso.
E mentre vagabondo per le vie del caos
disprezzo i cretini che piagnucolano d’amore.
Aphra Behn (1640-1689), poetessa, scrittrice, spia al soldo di Carlo II (nome in codice “Astrea”), “Mille martiri”
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Quando nacqui mia madre
“Quando nacqui mia madre
mi fece un dono antichissimo,
il dono dell’indovino Tiresia:
mutare sesso una volta nella vita.
Già dal primo vagito comprese
che il mio crescere sarebbe stato
un ribelle scollarsi della carne,
una lotta fratricida tra spirito
e pelle. Un annichilimento.
Così mi diede i suoi vestiti,
le sue scarpe, i suoi rossetti;
mi disse ‹‹prendi, figlio mio,
diventa ciò che sei
se ciò che sei non sei potuto essere››.
Divenni indovina, un’altra Tiresia.
Praticai l’arte della veggenza,
mi feci maga, strega, donna
e mi arresi al bisbiglio del corpo
– cedetti alla sua femminea seduzione.
Fu allora che mia madre
si perpetuò in me, mi rese
figlia cadetta del mio tempo,
in cui si può vivere bene a patto
che si vaghi in tondo, ciechi
– che si celi, proprio come Tiresia,
un mistero che non si può dire.”
Giovanna Cristina Vivinetto, da “Dolore minimo”, 2018
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Pietro Della Vecchia, “L’indovino Tiresia trasformato in donna”, 1602-1603
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Semplicemente, io non sono di questo mondo
“Semplicemente,
io non sono di questo mondo.
Io abito con frenesia la luna.
Non ho paura di morire,
ho paura di questa terra aggressiva.
Non riesco a pensare a cose concrete,
non mi interessano.
Io non so parlare come tutti.
Le mie parole sono strane
e vengono da lontano,
da dove non è,
dagli incontri con nessuno.
Cosa farò quando mi immergerò
nei miei fantastici sogni
e non potrò più risalire?
Perché prima o poi dovrà succedere.
Me ne andrò e non saprò tornare.”
Alejandra Pizarnik
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Due donne ho trovato dentro di me, scavando nel profondo
“Due donne ho trovato dentro di me, scavando nel profondo;
una è forte, decisa, lucida: lei sa cosa è giusto, sa cosa deve fare.
La muove la passione, la spinge l’emozione. Non si accontenta di ciò che ha e sa quanto vale.
Segue la sua strada, risoluta, lascia indietro ciò che non le è utile.
Non ama: vive. E non chiede nulla.
L’altra è come il mosto: profuma di primavera, di giornate di sole.
Piange nella pioggia per non farsi vedere.
È fatta di mancanze e di malinconia.
Il suo cuore è malato: non è a pezzi, ma gonfio da esplodere.
… mi sgomenta, questa duplice me stessa;
e forse è per questo che,
chi mi cammina accanto,
resta in attesa di scorgere un sorriso sul volto di entrambe,
e riconoscermi di nuovo intera.”
Erica Muscarella (responsabile e fondatrice di “News On Stage”, weblog dedicato agli scrittori emergenti) –
Fonte: Wordshelter
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Loui Jover
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E non lo so dire
“Io sono spaccata,
io sono nel passato prossimo,
io sono sempre cinque minuti fa,
il mio dire è fallimentare,
io non sono mai tutta, mai tutta,
io appartengo all’essere
e non lo so dire,
non lo so dire,
io appartengo e non lo so dire
io sono senza aggettivi,
io sono senza predicati,
io indebolisco la sintassi,
io consumo le parole,
io non ho parole pregnanti,
io non ho parole cangianti,
io non ho parole mutevoli,
non ho parole perturbanti,
io non ho abbastanza parole,
le parole mi si consumano,
io non ho parole che svelino,
io non ho parole che puliscano,
io non ho parole che riposino,
io non ho mai parole abbastanza, mai abbastanza parole,
mai abbastanza parole
ho solo parole correnti,
ho solo parole di serie,
ho solo parole fallimentari,
ho solo parole deludenti,
ho solo parole che mi deludono,
le mie parole mi deludono,
sempre mi deludono,
sempre mi deludono,
sempre mi mancano
io non sono mai tutta,
mai tutta,
io appartengo all’essere
e non lo so dire, non lo so dire,
io appartengo e non lo so dire,
non lo so dire,
io appartengo all’essere,
all’essere e non lo so dire.”
Mariangela Gualtieri, “E non lo so dire”, da “Fuoco centrale e altre poesie per il teatro”, 2003
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Carl Cauer, “Strega”, 1874 (particolare)
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Frequentando gli angeli
“Ero stanca di essere donna,
stanca di pentole e cucchiai,
stanca di bocca e seni,
stanca di cosmetici e sete.
C’erano ancora uomini alla mia mensa,
seduti in cerchio intorno alla coppa dell’offerta.
La coppa era piena d’uva nera,
e le mosche ci ronzavano attorno
attratte dall’odore,
e venne anche mio padre in candida erezione.
Ma io ero stanca del sesso delle cose.
La notte scorsa ebbi un sogno,
e gli dissi…
“tu sei la soluzione,
tu sopravvivrai a mio marito e a mio padre”.
Nel sogno apparve una città di catene,
dove Giovanna fu messa a morte vestita da uomo
e la natura degli angeli era inspiegabile,
non c’erano due ad una maniera,
uno aveva un naso, un altro un orecchio sulla mano,
uno masticava una stella misurandone l’orbita,
ognuno una poesia che obbedisce alle proprie leggi,
svolgevano la funzione di Dio, erano un popolo a parte.
“Tu sei la risposta” dissi, ed entrai,
giacqui alle porte della città.
Poi fui messa in catene,
e persi il buon sesso e l’aspetto finale.
Avevo Adamo alla mia sinistra,
ed Eva alla mia destra,
entrambi in contrasto con il mondo razionale.
Ci stringemmo le braccia,
e cavalcammo sotto il sole.
Non ero più donna, né nessun’altra cosa.
O figlie di Gerusalemme,
il Re mi ha condotto nelle sue stanze.
Nera è bello.
Sono stata aperta e spogliata.
Non ho né braccia né gambe.
Sono in un’unica pelle
come un pesce.
Non sono più una donna
di quanto Gesù fosse un uomo.”
Anne Sexton, da “Poesie su Dio” – Traduzione di Rosaria Lo Russo, 2003
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Edgar Degas, “La stiratrice”
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Una volta stiravo tutto
“Una volta stiravo tutto:
il mio ferro volava su asciugamani e lenzuola
come una slitta inseguita dai lupi sulla neve,
il filo ritorto e attorcigliato
finché la guaina consumata non scopriva,
come nervi, i cavi elettrici. Me ne stavo lì come un cavallo
dallo zoccolo fumante
invitando chiunque osasse
stendersi sul mio asse foderato d’argento
a farsi ridurre allo spessore
di una bambola ritagliata su carta.
Mi sarei impadronita di una gru
se avessi potuto, convinto i saldatori dei cantieri di Jarrow
a scaldarmi un ferro grande come un rimorchiatore
per spianare la casa.
Poi per anni non stirai più nulla.
Il ferro lo misi in un armadietto in alto,
convertita alla grinzosità.
E ora ho ripreso a stirare: spruzzo
scure gocce d’acqua sulla seta
sgualcita, m’introduco nelle maniche, giro intorno
ai bottoni, respiro l’odore caldo dolce
che il metallo rovente produce sul tessuto fresco
di bucato, finché l’azzurro della camicetta
asciutta non è lucido, levigato,
una forma lieve, spaziosa, in cui infilare
braccia, petto, polmoni, cuore.”
Vicki Feaver, da “Poesia”, Traduzione di Giorgia Sensi
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 In evidenza:  Foto di Sonia Simbolo

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