Linguaggi

L’odore del dolore

21.11.2021
“Il dolore quasi sempre ti regala coraggio.
E’ il suo modo per farsi perdonare.”
Fabrizio Caramagna
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Foto di Letizia Battaglia
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Di tutto resta un poco
“Di tutto resta un poco
Dicono alcuni,
Nel barattolo un po’ di caffè
Nella cassetta un po’ di pane
In ognuno un po’ di dolore…”
Turgut Uyar (poeta turco)
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Senza esclamativi
“Com’è alto il dolore.
L’amore, com’è bestia.
Vuoto delle parole
che scavano nel vuoto vuoti
monumenti di vuoto. Vuoto
del grano che già raggiunse
(nel sole) l’altezza del cuore.”
Giorgio Caproni, “Senza esclamativi”, da “Il muro della terra”
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C’è un tempo
“C’è un tempo
difficile per tutti.
E ognuno ha
la sua ora penosa,
nella quale ogni azione
risulta
sterile e inutile.”
Montserrat Abelló i Soler (poetessa catalana), da “Parole non dette”, 1981
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Porto con me la bestia e la foresta intera
“Porto con me la bestia e la foresta intera
battendo la mia pelle di tamburo.
Il dolore è basso. Cammina
dentro le piante dei piedi.
Mi bruca la pancia.
Ma nell’ombelico profondo
mia madre canta.”
Anna Maria Farabbi
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Vincenzo Vela, “Desolazione”
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Spesso il male di vivere ho incontrato
“Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.”

Eugenio Montale, da “Ossi di seppia”, 1925

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Sono una creatura

Valloncello di cima Quattro, 5 agosto 1916

Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede”

Giuseppe Ungaretti, “Sono una creatura” da “Porto Sepolto” 1916 

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Il Signor Cogito medita sulla sofferenza
“Tutti i tentativi di allontanare
il cosiddetto calice amaro —
con la riflessione
l’impegno frenetico a favore dei gatti randagi
gli esercizi di respirazione
la religione —
sono falliti
bisogna accettare
chinare mitemente il capo
non torcersi le mani
ricorrere alla sofferenza con misura e dolcezza
come a una protesi
senza falso pudore
ma anche senza inutile orgoglio
non sventolare il moncherino
sulle teste degli altri
non picchiare col bastone bianco
alle finestre dei sazi
bere l’estratto d’erbe amare
ma non fino in fondo
lasciarne avvedutamente
qualche sorso per l’avvenire
accettare
ma al tempo stesso
distinguere dentro di sé
e possibilmente
trasformare la materia della sofferenza
in qualcosa o qualcuno
giocare
con essa
ovviamente
giocarci
scherzare con essa
con grande cautela
come con un bambino malato
per strappare alla fine
con sciocchi giochetti
un esile
sorriso”
Zbigniew Herbert (poeta e saggista polacco), da “Rapporto dalla città assediata”

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Yuri Petrovich Kugach, “Mother with child accompanies her husband”

 

 

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L’odore del dolore

 

“Che odore ha il dolore?
Come il freddo, la solitudine, la paura
o la morte,
anche il dolore ha un odore.
Tante volte ho provato a decifrarlo
ma si nasconde, si diluisce,
si camuffa. Offre piste fasulle.
Ha qualcosa di canfora, di chiuso, di rancido,
qualcosa di narcotico,
potrebbe essere alcool, adrenalina o mercurio,
come potrebbe essere ammoniaca,
vertigine o nausea.
Porta stimmate di chiarezza ulcerata,
poggia senza essere visto sulle sedie
e oscilla osceno sulle grucce della tristezza.
Poiché esiste, odora; sì, il dolore odora
nelle occhiaie violacee, nei calici dell’insonnia
e nelle cicatrici paonazze dell’attesa
o dell’angoscia.
Odorano i corpi nel dolore,
odorano la febbre e l’ombra
come odorano la stanchezza, la miseria o la fame.
Odora il dolore e ci opprime
la bocca uno spago,
una spugna nella gola,
quando riconosciamo nitido, pungente,
riconoscibile e insieme indecifrabile,
il suo aroma.”

Xulio L.Valcárcel, “L’odore del dolore”, da “A melancolía dos corpos”

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Paul Cézanne, “Maria Maddalena”, 1865

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Sefinì

“Basta per questa notte
chiudo la porta
mi metto la giacca
sistemo i pezzetti di carta nei quali non faccio altro che parlare di te
di mentire su dove sei
corpo che continuerai a tremare.
Mettiamo una cosa in chiaro
se sono triste sono triste.
Sono triste perché non piove e perché sei lontana.
Sono triste perché il tè è ormai freddo e non trovo le chiavi della mia casa
perché non trovo né le mie chiavi né le mie porte.
Sono triste perché l’aria sussurra da lontano
e si fa attendere come fa il futuro
sono triste perché il destino mi ha proposto
un richiamo dei desideri impossibili
e mi rifiuto di ignorare la proposta
e perché la vita si rifiuta di lasciare che se ne vadano chissà dove.
Sono triste perché non riesco a smettere di credere nel coraggio dei deboli e dei codardi
che è come dire che vinceremo.
Sono triste perché il mondo continua a fare i suoi giri
e io mi rifiuto di girare la schiena e di guardare il passato con occhi solenni
con capricci di esilio
e per quelli che non riescono a fare la pace con i miei prima e i loro prima
oggi distanti
Sono triste per quelli che non mi lasciano riposare nei loro oblii
perché non posso andarmene in qualche posto lontano senza lasciare spazi vuoti
sono triste perché sei umano e così ti voglio
con i tuoi sbagli, le tue partenze strepitose, le tue cadenze eterne
Sono triste perché fallisci
perché confermi la mia morte, e a volte la mia vita
ma la cosa più importante
sono triste perché non piove
perché il tè si è raffreddato
e perché oggi mi congedo da te senza occhi solenni né voglie di esilio
e perché la nostalgia si fa attendere e non arriva
Se sono triste sono triste, non cercate di convincermi del contrario.
Dopo tanto tempo torno a comparire… questo sono io.”

Juan Gelman, “Sefinì”, (Trad. di Milton Fernàndez)

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Foto di Dorotea Lange

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Il tramonto in attesa della sera
Alzheimer – A mia madre

“Talvolta, nell’oscuro profondo della tua ragione,
dove il tempo e lo spazio sono verbi senza senso,
si apre uno squarcio e riemergi d’improvviso:
il fragore d’un tuono,
ti riporta la tua vita per attimi infiniti.
Girandola di ricordi come fuochi artificiali
s’innalzano nel cielo dell’incoscienza
e ti ridanno quadri del passato,
dipinti astratti dei giorni in cui c’eri.
Oh Mamma quanta tenerezza attraverso gli occhi ti raggiunge!
Rivivi l’ebbrezza
di ricordare il tuo nome e lo gridi finché hai voce!
Riconosci volti e voci di chi hai amato
e lacrime d’amore ti cadono sul seno.
Rendi grazie a Dio sull’Altare dei Templi.
Poi, lo squarcio d’improvviso richiude,
di tanto colore resta altrettanto buio
e lascia dentro te steccati senza varchi,
fino al nuovo arcobaleno ad unire schiarite e temporali.
Ridiscendi nell’inferno del silenzio,
resti sospesa al filo delle esistenze consumate,
senza sapere chi sei e neanche chi eri.
Il tuo Tramonto Mamma… in attesa della sera.”

Sara Rodolao

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Foto di Mark Fearnley

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Sensazione

“I miei pensieri sono qualcosa
che la mia anima teme.
Fremo per la mia allegria.
A volte mi sento invadere da
una vaga, fredda, triste, implacabile
quasi-concupiscente spiritualità.
Mi fa tutt’uno con l’erba.
La mia vita sottrae colore a tutti i fiori.
La brezza che sembra restia a passare
scrolla dalle mie ore rossi petali
e il mio cuore arde senza pioggia.
Poi Dio diventa un mio vizio
e i divini sentimenti un abbraccio
che annega i miei sensi nel suo vino
e non lascia contorni nei miei modi
di vedere Dio fiorire, crescere e splendere.
I miei pensieri e sentimenti
si confondono
e formano una vaga e tiepida anima-unità.
Come il mare che prevede una tempesta,
un pigro dolore e un’inquietudine
fanno di me il mormorio
di un incalzante stormo.
I miei inariditi pensieri si mescolano
e occupano le loro interpresenze,
e usurpano gli uni il posto degli altri.
Non distinguo nulla in me
tranne l’impossibile amalgama
delle molte cose che sono.
Sono un bevitore dei miei pensieri.
L’essenza dei miei sentimenti
inonda la mia anima.
La mia volontà vi si impregna.
Poi la vita ferma un sogno
e fa sfiorire la bellezza
nel dolore dei miei versi.”

Fernando Pessoa, “Sensazione”

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Quel che mi duole

“Quel che mi duole non è
Quello che c’è nel cuore
Ma quelle cose belle
Che mai esisteranno.
Sono le forme senza forma
Che passano senza che il dolore
Le possa conoscere,
O sognarle l’amore.
Come se la tristezza
Fosse albero e, una ad una,
Le sue foglie cadessero
Tra il sentiero e la bruma.”
Fernando Pessoa
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Foto di Rosana Di Antonio

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Quei giorni così

“Che, delle volte,
ti senti proprio a pezzi.
Che tutti intorno,
hanno mille cose da fare:
riti, impegni, celebrazioni,
liturgie familiari, scadenze,
e tu te ne stai lì,
a chiederti: la forza, oggi,
dove la prendo.
Troppo occupato il mondo.
Pieno. Saturo.
Su tutto domina la dittatura
delle cose da fare,
del colpo più subdolo:
quello che in nome dell’esserci
ci nega l’essere.”

Gianluigi Gherzi, “Quei giorni così”, da “Ti aspetto nella mia casa a disordinare”

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Sul dolore

“Il dolore è lo spezzarsi del guscio
che racchiude la vostra conoscenza.
Come il nocciolo del frutto deve spezzarsi
affinché il suo cuore possa esporsi al sole,
così voi dovete conoscere il dolore.
E se riusciste a custodire in cuore la meraviglia
per i prodigi quotidiani della vita,
il dolore non vi meraviglierebbe meno della gioia;
accogliereste le stagioni del vostro cuore
come avreste sempre accolto le stagioni
che passano sui campi.
E vegliereste sereni durante gli inverni del vostro dolore.
Gran parte del vostro dolore è scelto da voi stessi.
È la pozione amara con la quale il medico che è in voi
guarisce il vostro male.
Quindi confidate in lui e bevete il suo
rimedio in serenità e in silenzio.
Poiché la sua mano, benché pesante e rude,
è retta dalla tenera mano dell’Invisibile,
e la coppa che vi porge,
nonostante bruci le vostre labbra,
è stata fatta con la creta che il Vasaio
ha bagnato di lacrime sacre.”

Kahlil Gibran, “Sul dolore”

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Adolfo Tommasi, “Maddalena penitente”, 1893

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Aprile

“Nessuna disperazione è come la mia disperazione…
Non avete luogo in questo giardino
di pensare cose simili, producendo
i fastidiosi segni esterni; l’uomo
che diserba cocciuto tutta una foresta, la donna che zoppica, rifiutando di cambiar vestito
o lavarsi i capelli.
Credete che mi importi
se vi parlate?
Ma voglio che sappiate
mi aspettavo di più da due creature
che furono dotate di mente: se non
che aveste davvero dell’affetto reciproco
almeno che capiste
che il dolore è distribuito
fra voi, fra tutta la vostra specie, perché io
possa riconoscervi, come il blu scuro
marchia la scilla selvatica, il bianco
la viola di bosco.”
Louise Glück, “Aprile”
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Ieri ho sofferto il dolore

“Ieri ho sofferto il dolore,
non sapevo che avesse una faccia sanguigna,
le labbra di metallo dure,
una mancanza netta d’orizzonti.
Il dolore è senza domani,
è un muso di cavallo che blocca
i garretti possenti,
ma ieri sono caduta in basso,
le mie labbra si sono chiuse
e lo spavento è entrato nel mio petto
con un sibilo fondo
e le fontane hanno cessato di fiorire,
la loro tenera acqua
era soltanto un mare di dolore
in cui naufragavo dormendo,
ma anche allora avevo paura
degli angeli eterni.
Ma se sono così dolci e costanti,
perché l’immobilità mi fa terrore?”

Alda Merini, “Ieri ho sofferto il dolore”

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Per evolversi la vita deve fare male

“Per evolversi la vita deve fare male.
Il dolore è una terraferma.
L’uomo sicuramente può contare sul dolore perché è l’unica cosa,
da sempre.
La gioia è errabonda.
Da tempo ho una febbre insolita,
una febbre che brucia.
Sono diventata adiposa e grassa come una qualsiasi donna ansiosa,
e non so più fare miracoli,
proprio perché non so più soffrire.
E’ il dolore che ci fa crescere ed è il dolore che ci fa morire.
Se togliamo il dolore,
togliamo il tavolo sul quale mangiamo ogni giorno.
Senza dolore finiremmo costretti a mangiare per terra…”

Alda Merini

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Ma il dolore non ha uno scopo, bambina mia

 

“Ma il dolore non ha uno scopo, bambina mia.
Succede e basta, e non puoi farci nulla.
Però puoi decidere come usarlo, questo sì. Devi lasciarlo parlare, senza aver paura di ascoltare quello che dice. Di solito urla, sappilo.
E poi, dopo che ha urlato, e ha bruciato, e ha spezzato, quando di lui è rimasta solo una brutta cicatrice che fa male col vento, da cui escono fantasmi durante la notte – usalo.
È una leva.
Può servire per scardinare gabbie, per saltare fossi – o anche solo per sbattere via la polvere dalle tue ali come se fossero tappeti.
Ti ha mangiato un pezzo di anima – li senti gli spifferi gelidi che entrano? Te ne serve uno nuovo, deve ricrescere.
E non può ricrescerti un pezzo di anima nuova se continui ad alimentarla di cose vecchie.
Il dolore è come il ghiaccio d’inverno, e tu sei un seme rannicchiato nel terreno: puoi morirci in quella morsa fredda, oppure puoi diventare più forte, e sbocciare a primavera.
Scegli tu.”

Catherine Black

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Andrew Wyeth

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Un giorno potremo

“Un giorno potremo
dire che un dio
ci ha abitato, un dio
che voleva parlare
col mondo
e sentire il piacere
attraverso la carne,
il dolore, il limite
che non gli appartiene
vedere il cuore
che sbianca, la voce
tremare, l’accendere
i sensi, il morire.”

Filomena Shedir Di Paola

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In mattinata si manifestarono due o tre malinconie
“In mattinata si manifestarono
due o tre malinconie
a cui nel pomeriggio
sopraggiunse una terza,
a sera quando si temeva
che le malinconie si tramutassero
in tristezza irreversibile,
la memoria senza nostalgia
cominciò a produrre anticorpi”.
Vito Riviello
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Musica di sottofondo

“Ci sono pene che finiscono
col farci vergognare:

insipida, disonorata, monocorde
come il ronzio
del calabrone contro il vetro o come
una vecchia zia che si insedia in casa
e tesse e tesse borbottando,
così

questa pena che mai se ne andò
e che macchia di fuliggine le mattine.

Nel cinema, nella doccia, nel mercato,
nel mezzo della sera o della notte
la pena dice identiche parole

senza angosce,
senza sfumature,
sorda,
monotematica,
invincibile.

A volte, tuttavia, il feroce
scorpione nascosto si sveglia,

salta
sopra il mio cuore.
Il suo morso
torna a farlo sanguinare.
Dal dolore deduco che non sono morta.”

Piedad Bonnett (poetessa colombiana), da “Fuoco Fatuo”

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I malpensieri
“Arrivano nella notte i malpensieri,
erigendo picchi di insormontabili
problemi, cumuli d’angosce, oscure
colpe, sentimenti neri, Arrivano
nella notte i malpensieri. E non c’è
modo di uscire dalla loro rete
a maglie strette. Il sonno s’allontana
e dentro al portacenere si assommano
i resti di due, tre, cinque, dieci
sigarette. Gonfiano il loro ventre
i malpensieri, come rospi giganti
che minacciano la luna. E proprio quando
sembra che arrida loro la fortuna,
ecco lo schianto: tardivo, Morfeo rapisce
al sonno un corpo esausto di stanchezza,
mentre l’aurora cancella con un alito
di vento quel mare di fantasmi di cupezza.”
Franco Marcoaldi, “I malpensieri”
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Foto di Letizia Battaglia

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Il dolore è paziente ma io risorgo

“Il dolore è paziente ma io risorgo
respiro l’aria e corro per le strade:
fame che devia in lussuria
il mio petto si gonfia come la marea.

Mi sembra di stare in piedi su una nave
la chiglia incatenata a nodi di nebbia
mentre sfreccia il vento
e le luci infiammano la riva.

Non sono che un gioco di corde
il vizio di una tempesta improvvisa:
bisogna fondersi nell’Uno
benedetti dal desiderio.”

Jens Peter Jacobsen

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Il dolore

“Il dolore è un postino grigio, muto,
col viso scarno, gli occhi azzurro-chiari;
gli pende giù dalle fragili spalle
la borsa, scuro e logoro ha il vestito.
Dentro al suo petto batte un orologio
da pochi soldi; timido egli sguscia
di strada in strada, si stringe alle mura
delle case, sparisce in un portone.
Poi bussa. Ed ha una lettera per te.”
Attila József (poeta ungherese), “Il dolore”
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Il dolore è paziente ma io risorgo
“Il dolore è paziente ma io risorgo
respiro l’aria e corro per le strade:
fame che devia in lussuria
il mio petto si gonfia come la marea.
Mi sembra di stare in piedi su una nave
la chiglia incatenata a nodi di nebbia
mentre sfreccia il vento
e le luci infiammano la riva.
Non sono che un gioco di corde
il vizio di una tempesta improvvisa:
bisogna fondersi nell’Uno
benedetti dal desiderio.”
Jens Peter Jacobsen (maestro di Rilke)
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Sapessi quanto è duro tirare fino a sera
“Sapessi quanto è duro tirare fino a sera,
calcarla,
sospingersi in avanti,
pensar che restano ancora
rimasugli di giorno per non pensarti,
banchine bassoventre.
Sapessi com’è duro il coraggio a volte,
alzarsi,
affrontare il mattino
con tanta notte dentro,
sedersi alla finestra
a intrecciare distanze,
a vagheggiar telefoni,
consegne e rituali.
Sognarti,
nella simmetrica consuetudine
dell’abbraccio,
amarti senza affanni,
odiarti senza imbrogli,
temere che nulla resti,
sapere che nulla avremo,
guardarci senza quasi,
lasciarci senza ieri.
Sapessi come duole
stare senza te
a volte.”
Milton Fernández
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Una disperata vitalità
“Come in un film di Godard: solo
in una macchina che corre per le autostrade
del Neo-capitalismo latino – di ritorno dall’aeroporto –
[là è rimasto Moravia, puro fra le sue valige]
solo, «pilotando la sua Alfa Romeo»
in un sole irriferibile in rime
non elegiache, perché celestiale
il più bel sole dell’anno –
come in un film di Godard:
sotto quel sole che si svenava immobile
unico,
il canale del porto di Fiumicino
una barca a motore che rientrava inosservata
i marinai napoletani coperti di cenci di lana
un incidente stradale, con poca folla intorno…
come in un film di Godard – riscoperta
del romanticismo in sede
di neocapitalistico cinismo, e crudeltà –
al volante
per la strada di Fiumicino,
ed ecco il castello (che dolce
mistero, per lo sceneggiatore francese,
nel turbato sole senza fine, secolare,
questo bestione papalino, coi suoi merli,
sulle siepi e i filari della brutta campagna
dei contadini servi)…
sono come un gatto bruciato vivo,
pestato dal copertone di un autotreno,
impiccato da ragazzi a un fico,
ma ancora almeno con sei
delle sue sette vite,
come un serpe ridotto a poltiglia di sangue
un’anguilla mezza mangiata
le guance cave sotto gli occhi abbattuti,
i capelli orrendamente diradati sul cranio
le braccia dimagrite come quelle di un bambino
un gatto che non crepa…
… La morte non è
“nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi.”
Pier Paolo Pasolini, da “Poesie in forma di rosa”, 1964
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Musica di sottofondo
“Ci sono pene che finiscono
col farci vergognare:
insipida, disonorata, monocorde
come il ronzio
del calabrone contro il vetro o come
una vecchia zia che si insedia in casa
e tesse e tesse borbottando,
così
questa pena che mai se ne andò
e che macchia di fuliggine le mattine.
Nel cinema, nella doccia, nel mercato,
nel mezzo della sera o della notte
la pena dice identiche parole
senza angosce,
senza sfumature,
sorda,
monotematica,
invincibile.
A volte, tuttavia, il feroce
scorpione nascosto si sveglia,
salta
sopra il mio cuore.
Il suo morso
torna a farlo sanguinare.
Dal dolore deduco che non sono morta.”
Piedad Bonnett (poetessa colombiana), “Musica di sottofondo”, da “Fuoco Fatuo”
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E ci sono sempre strane piogge di ricordi
“E ci sono sempre strane piogge di ricordi
che si attaccano alla pelle
e bisognerebbe essere brave persone
per staccarli senza dolore
le brave e belle persone
oppure quelle come me
che ci passano la mano sopra
e li appiccicano ancora di più
e li tirano via lentamente con brandelli di pelle
e un dolore che sa di stupidità
che è uno dei dolori per i quali non si può far nulla
il dolore della stupidità”
m.c.m. (Maria Carmela Micciché) – Fonte: Il Caffè di Marek
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Foto di Simone Venditti
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Per voi
“Per voi uomini d’Europa che vi arrangiate ogni giorno,
per voi donne dell’Est che lavate per terra o accompagnate
a prendere aria i vecchi dell’Occidente,
per voi immigrati che dormite sulle panchine
e vi svegliate
con un’immensa nostalgia,
per voi barboni che non volete padroni
e vivete in pace con l’universo,
per voi prostitute che offrite il vostro sesso a negri, bianchi,
gialli, fino al sangue,
per voi ciechi che siete abbandonati al buio più profondo ed eterno,
per voi malati e disoccupati, come solidarietà e misericordia,
per voi missionari che portate consolazione ai deboli prima di morire,
per voi contadini che fate pascolare il gregge e arate
i campi da nord a sud,
per voi folli che c’insegnate gratis la follia,
per voi che siete soli e fuggite come me
scrivo questi versi in italiano
e mi tormento in albanese.”
Gëzim Hajdari (poeta albanese), “Per voi”, da “Poesie scelte”
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Usatelo bene, il vostro dolore
“Usatelo bene, il vostro dolore
ché non diventi mercanzia
né attiri corvi al pasto della pietà.
Badate di nasconderlo con cura
allora procuratevi bende pesanti
cerotti che tengano
stampelle che fingano passi
medicamenti di carità.
Tenetelo via dall’affollamento del mondo
e non parlatene se non sotto minaccia
di un’arma carica o avvelenata alla punta.
Non fatene commercio di misericordia
non spartitelo per debolezza
né tenetelo da soli
se le mani non ubbidiscono.
In casa basterà fornirsi d’una luce scarsa
– lampadine a risparmio energetico
meglio se d’un tipo scadente
che sfrigolino nello sforzo di mostrare
senza riuscire –
che non promettano durata o allegria.
Alimentatelo di stenti quando sia insopportabile
o di delizie, se vi dà di che vivere
o morire.
Se dovesse sanguinare, dolere o ulcerare
o diventasse dichiaratamente malattia
abbiatene comunque la cura dei figli
spruzzatelo di gocce a benedirlo
e spezzate il vetro delle fiale sui comodini.
Il giorno in cui guarirà
gioitene moderatamente
come si fa coi miracoli
che non concedono per sempre
non risolvono
perché lo sanno anche i santi veri
quelli senz’altare
che la carità quaggiù
non esiste.
Elisa Ruotolo, da “Corpo di pane”, 2019
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Foto di Sonia Simbolo
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Quando fu che incontrasti
(A T. M.)
“Quando fu che incontrasti
il tuo dolore e imparasti
a vedere che ogni donna
lo tiene ripiegato contro il seno.
Quando fu che improvviso
faccia a faccia il suo viso
sfrangiato ti si oppose
e fissasti i suoi occhi di corallo.
Fu scrutando la fronte
tra le sbarre nell’ ombra
ristagnante nel cortile.
O nei segni di gesso
del percorso inventato
pel gioco sotto casa
insoluto tracciato
di rincorse snodato
nella sera.
O nel muto cadere
della palla sull’ erba
nera di pioggia.
Come fu che imparasti a trasmutare
quel dolore di donna che le membra
contorce in quel bianco calore
che dal seno
alle spalle ti commuove.
Tu cancelli il tremore delle labbra
con lacche rosse con risa ma nei silenzi
lo si sente gridare nelle dita
di quei rami protesi
contro i muri notturni che tu ami
nelle lame sferrate nel fogliame
lame aguzze di neon che le tue mani
brevi mani agitate di ragazzo
tagliano
ma tu neghi il dolore con merletti
e mi guardi negli occhi dove l’ asfalto
si scompone in un cielo
nero di pece.
Aperture fugaci
su tramonti per viali
inquinati dalla notte
ridicono di pianti
smarrimenti, mentre
ferma mi guardi
e ti nascondi.
E se attenta mi chino
sul tuo viso tu
scrolli i capelli sulla fronte
per celare al mio amore il tuo spavento.”
Goliarda Sapienza, da “Ancestrale”
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In evidenza: Foto di George Natsioulis

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