Linguaggi

Le porte del passato

21.11.2021
“Certi errori sono senza perdono. Sono porte chiuse, murate, sul passato”.
Stefania Auci, da “L’inverno dei leoni”
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“Non serve a niente una porta chiusa: la tristezza non può uscire e l’allegria non può entrare”.
Luis Sepúlveda
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Non sapendo quando l’alba possa venire
“Non sapendo quando l’alba possa venire
lascio aperta ogni porta,
che abbia ali come un uccello
oppure onde, come spiaggia.”
Emily Dickinson
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Quando troverò la verità
“Quando troverò la verità sarò ancora in tempo
per prendere la mia infanzia e
fissarla come un poster
alla parete della cucina.”
Mario Benedetti, da “Il diritto all’allegria”
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Ricordo della mia infanzia privata
“Per queste porte che si serrano, si aprono…
Sono porte che lungo l’anima colpiscono.
Non parlarmi di quelle porte, amico, non parlarmi;
perché io riconosco i loro cardini coronati d’ira,
le loro spranghe limate dal cielo,
la loro tacita insonnia nelle notti più alte,
in cui alcune volte attraversò il nostro amato
come attraverso il grido duole fino all’osso l’anima,
con tremore di pesanti membra oscure e proibite.
Sono passata ad ogni ora
per queste porte umide che si serrano, si aprono,
e ho sorriso scuotendo le spalle
nel sentire i loro fondi legnami alterati,
perché passava un bimbo corale tra le fasce
come fiumi di cigno senza bordo.
Però ricordo anche, sotto la mia infanzia,
in un segreto aprile con abitanti,
con oceani,
con alberi,
una porta d’azzurra carpenteria
dove alcune volte cominciava mia madre,
iniziavano le sue labbra,
le braccia che partivano da onde,
la sua voce in cui entrava la sera
e appena le mie due gambe che correvano
disordinando l’aria.
Adesso la ricordo
con le mie belligeranze infantili,
porte di pietre giovani,
mia madre
coi suoi passi di vitella boreale, trapassandola,
si incorporava alla settimana
cingendosi il profilo,
la treccia,
la memoria,
la cintura in maceria di colomba,
e mi cercava
tra gli abitanti di quell’aprile
con oceani,
con alberi,
ed io correvo,
correvo,
con le mie gambe di bambina
per essere trovata
con la voce
nella sera.”

Eunice Odio (1919-1974), poetessa costaricense, “Ricordo della mia infanzia privata”

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Esperienza! Esperienza!

“Esperienza! Esperienza!
(lascia che vada, lascia che venga):
fui ammaccata in questo mondo
come il parafango di una Plymouth;
la prima volta fu
sbarre glaciali di culla,
poi bambole,
la devozione alle loro bocche di plastica;
poi fu la scuola,
piccole file di seggioline,
scarabocchiavo di continuo il mio nome,
ignara e ingolfata,
una i cui gomiti non funzionavano.
Poi ci fu la vita,
le sue case crudeli
e le persone che si toccavano di rado
– anche se il tocco è tutto –
eppure fortificavo
come un maiale con l’impermeabile fortificavo;
e poi furono molte strane apparizioni,
pioggia uggiosa, il sole che trasmuta in veleno
e tutto, tutto un lavorio di seghe nei cavi del cuore,
ma io fortificavo, fortificavo
portavo rubini e compravo pomodori.
E adesso, di mezz’età,
con la testa d’una diciannovenne,
io sto remando, remando,
con gli scalmi arrugginiti che s’inceppano
e la marea che ammicca e biancheggia
come un occhio esorbitato
ma sto remando, remando,
anche se il vento mi respinge
e so che l’isola non sarà perfetta,
avrà i difetti della vita,
le assurdità della tavola da pranzo.
Ma ci sarà una porta
ed io l’aprirò
e mi sbarazzerò del ratto che ho dentro,
il ratto pestilenziale che mi rode.
Dio lo prenderà fra le sue mani
e lo abbraccerà.
Come dice l’africano:
questa è la mia storia, e ve l’ho raccontata;
che sia brutta, che sia bella,
portala altrove e lasciala in parte
tornare da me.
Mi transito dall’esperienza ancora che remo.”

Anne Sexton, da “Il tremendo remare verso Dio”, 1975

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Mille porte fa

“Mille porte fa
quando ero una ragazzina solitaria
in un’enorme casa con quattro
garage e se ben ricordo
era estate,
di notte mi sdraiavo in giardino,
il trifoglio raggrinzito sotto di me,
le sagge stelle distese sopra di me,
la finestra di mia madre un imbuto
da cui usciva un calore giallo,
la finestra di mio padre, socchiusa,
un occhio dove passa chi dorme,
e le assi della casa
erano lisce e bianche come cera
e probabilmente milioni di foglie
navigavano come vele sui loro strani gambi
mentre i grilli ticchettavano all’unisono
e io, nel mio corpo nuovo di zecca,
non ancora di donna,
facevo domande alle stelle
e credevo che Dio potesse veramente vedere
il calore e la luce colorata,
i gomiti, le ginocchia, i sogni, la buonanotte.”

Anne Sexton, da “La zavorra dell’eterno”

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             Balthus, “Nude Before a Mirror”, 1955 

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Un’adolescente

“Io – un’adolescente?
Se qui, ora, d’improvviso, mi comparisse davanti,
dovrei forse salutarla come una persona cara,
benché mi sia estranea e lontana?
Versare una lacrimuccia, baciarla sulla fronte
per la sola ragione
che la nostra data di nascita è la stessa?
Siamo così dissimili
che forse solo le ossa sono uguali,
la calotta cranica, le orbite oculari.
Perché già i suoi occhi sembrano un po’ più grandi,
le ciglia più lunghe, la statura più alta
e tutto il corpo è fasciato
da una pelle liscia, senza un’imperfezione.
In verità ci legano parenti e conoscenti,
ma nel suo mondo, di questa cerchia,
vivi lo sono quasi tutti,
mentre nel mio quasi nessuno.
Siamo così diverse,
così diversi i nostri pensieri e le parole.
Lei sa poco –
ma con caparbietà degna di miglior causa.
Io so molto di più –
ma non in modo certo.
Mi mostra qualche poesia,
scritta con una grafia nitida, accurata,
come ormai non scrivo più da anni.
Leggo quelle poesie, le leggo.
Be’, forse quest’unica,
se solo si accorciasse
e correggesse qua e là.
Il resto non promette nulla di buono.
La conversazione langue.
Sul suo modesto orologio
il tempo è ancora incerto e costa poco.
Sul mio è molto più caro ed esatto.
Per commiato nulla, un sorriso abbozzato
e nessuna commozione.
Solo quando sparisce
e nella fretta dimentica la sciarpa.
Una sciarpa di pura lana,
a righe colorate,
che nostra madre
ha fatto per lei all’uncinetto.
La conservo ancora.

Wisława Szymborska, “Un’adolescente”

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Sono nato al di qua di questi fogli

“Sono nato al di qua di questi fogli
lungo un fiume, porto nelle narici
il cuore di resina degli abeti, negli occhi il silenzio
di quando nevica, la memoria lunga
di chi ha poco da raccontare.
Il nord e l’est, le pietre rotte dall’inverno
l’ombra delle nuvole sul fondo della valle
sono i miei punti cardinali;
non conosco la prospettiva senza dimensione del mare
e non era l’Italia del settanta Chiusaforte
ma una bolla, minuti raddensati in secoli
nei gesti di uno stare fermi nel mondo
cose che avevano confini piccoli, gli orti poveri, le cataste
di ceppi che erano state un’eco di tempo in tempo rincorsa
di falda in falda, dentro il buio. E il gatto che si stende
in questi posti, sulle lamiere di zinco, alle prime luci
di novembre, raccoglie l’aria di tutte le albe del mondo;
come i semi dei fiori, portati, come una nevicata leggera
ho sognato di raggiungere i miei morti
dove sono le cose che non vedo quando si vedono
Amerigo devoto a Gina che cantava a voce alta
alla messa di Natale, il tabacco comprato da Alfredo
e Rino che sapeva di stallatico, uomini, donne
scampati al tiro della storia
quando i nostri aliti di bambini scaldavano l’inverno
e di là dalle montagne azzurrine, di là dai muri
oltre gli sguardi delle guardie confinarie
un odore di cipolle e di industria pesante premeva,
la parte di un’Europa tenuta insieme
da chiodi ritorti e bulloni, martelli e chiavi inglesi.
Il futuro non è più quello di una volta, è stato scritto
da una mano anonima, geniale
su di un muro graffito alla periferia di Udine,
il futuro è quello che rimane, ciò che resta delle cose convocate
nello scorrere dei volti chiamati, aggiungo io.
E qui, mentre intere città si muovono
sulle piste ramate degli hardware
e il presente irrompe con la violenza di un tavolo rovesciato,
mio padre torna per sempre nella sua cerata verde
bagnata dalla pioggia e schiude ai figli il suo sorridere
come fosse eternamente schiuso.
Se siamo ancora cosa siamo stati,
io sono lo stare di quell’uomo bagnato dalla pioggia,
che portava in casa un odore di traversine e ghisa
e, qualche volta, la gola di Chiusaforte allagata dall’ombra
si raduna nei miei occhi
da occidente a oriente, piano piano
a misura del passo del tramonto, bianco;
e anche se le voci del mondo si appuntiscono
e qualcosa divide l’ombra dall’ombra
meno solo mi pare di andare, premendo un piede
dopo l’altro, secondo la formula del luogo,
dal basso all’alto, seguendo una salita.”

Pierluigi Cappello, da “I vostri nomi”, in “Mandate a dire all’imperatore”

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Della perduta vita non so niente

“Della perduta vita non so niente,
ché sempre se ne va per chissà dove,
resa o voltata a un angolo del giorno,
mesi che può la notte cancellare
sulla soglia gelata del mattino.
Non c’è altro che adesso e adesso ancora:
se appena lo pronunci si dissolve
in un adesso che non è più niente.
Siamo quest’oggi chiaro che si spegne,
luce che lascia gli occhi con dolcezza,
uomini che di spalle vanno piano,
seguito della storia, sogno, nube,
ombre che di ogni età fanno silenzio,
onde che si cancellano nel mare.”

Francesco Scarabicchi, da “L’esperienza della neve”

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Foto di Enrico Carpegna, dalla serie “Sombras de tango”

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Il mio passato

“Spesso ripeto sottovoce
che si deve vivere di ricordi solo
quando mi sono rimasti pochi giorni.
Quello che è passato
è come se non ci fosse mai stato.
Il passato è un laccio che
stringe la gola alla mia mente
e toglie energie per affrontare il mio presente.
Il passato è solo fumo
di chi non ha vissuto.
Quello che ho già visto
non conta più niente.
Il passato ed il futuro
non sono realtà ma solo effimere illusioni.
Devo liberarmi del tempo
e vivere il presente giacché non esiste altro tempo
che questo meraviglioso istante.”

Alda Merini, “Il mio passato”

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Argentina

“Non tengo niente del passato,
quel che è andato è andato
e quel che serve che rimanga
mi seguirà per sempre
prendendo piede
nelle mie nuove orme
Oggi mi sono svegliata con addosso
la malinconia, una sorta di vestaglia
rosa, di quelle esauste e appese
dietro alle porte dei bagni delle zie
Verso l’ora del pranzo
me la sono levata e ho indossato
un formidabile gonnellino di banane
Così è la vita,
un piede nella fossa dei serpenti
ed uno nel tango,
che porta il nome della mia risata”
Cecilia Resio, “Argentina”, da “L’odore dei Leoni”
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Infanzia

“Si dovrebbe riflettere a lungo per parlare
di certe cose che così si persero,
quei lunghi pomeriggi dell’infanzia
che mai tornarono uguali –  e perché?

Dura il ricordo -: forse una pioggia,
ma non sappiamo ritrovarne il senso;
mai fu la nostra vita così piena
di incontri, di arrivederci, di transiti

come quando ci accadeva soltanto
ciò che accade a una cosa o a un animale:
vivevamo la loro come una sorte umana
ed eravamo fino all’orlo colmi di figure.

Eravamo come pastori immersi
in tanta solitudine e immense distanze,
e da lontano ci chiamavano e sfiorivano,
e lentamente fummo – un lungo, nuovo filo –
immessi in quella catena di immagini
in cui duriamo e ora durare ci confonde.”

Rainer Maria Rilke, “Infanzia”

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Ricordi

“Non apro i vecchi cassetti
Né la memoria del telefonino
Custodiscono fantasmi.
Sono quieti, impotenti
Per nulla affatto esigenti
Ma non accennano ad andarsene.
Hanno precisi contorni, sono anzi
Un solo bruno contorno,
Come il guscio secco
Di un frutto svuotato.
Ognuno di noi porta con sé
Un cimitero abbandonato.”

Mario Andrea Rigoni, “Ricordi”

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L’infanzia è il regno in cui nessuno muore

“L’infanzia non è un tempo della vita
che ha principio coi giochi e si conclude
quando, adulti oramai, ce ne disfiamo.
L’infanzia è il regno in cui nessuno muore.

Nessuno d’importante, si capisce.
Ci sono lontani parenti che muoiono,
che abbiamo visto solo per un’ora
e che ci regalarono dei dolci
in una scatola a strisce verdi e rosa,
o un coltellino, ma presto sparirono,
non puoi dire che siano stati “vivi”.

E muoiono anche i gatti, che agitavano
la coda sul tappeto, il pelo reticente
all’improvviso scosso, percorso da pulci
che nessuno vi avrebbe immaginato,
lucente e bruno, i gatti che sapevano
tutto quello che c’è da sapere,
emigranti nel mondo dei vivi.
Tu prendi una scatola da scarpe,
che ora è troppo piccola per lui,
né può là dentro raggomitolarsi:
ne prendi una più grande, lo seppellisci nel cortile, e piangi.

Ma non ti svegli dopo un mese o due, nel mezzo della notte,
né dopo un anno, né dopo due anni,
a piangere, mordendoti le dita, a gridare:” Mio Dio,mio Dio, mio Dio!”.

L’infanzia è il regno dove nessuno d’importante muore –
madri e padri non muoiono.
E se tu hai detto: “Per l’amor del cielo,
devi proprio baciarmi di continuo?”
o “Vorrei tanto che smettessi di battere contro la finestra”.
Domani o il giorno dopo, in pieno gioco,
avrai il tempo per dire “Scusa, mamma”.

Diventi adulta quando siedi a tavola
in compagnia di morti,
persone che non parlano e non sentono;
che non bevono il tè, che pur dicevano
essere il primo dei piaceri umani.

Corri in cantina a prendere per loro
il vasetto più fresco di lamponi:
non li tenti.
Lusingali, allora: non abboccano.
Gridagli in faccia, alzati, arrossisci,
strappa alle sedie quelle palle rigide,
scuotile, strilla pure;
rimangono impassibili, nemmeno imbarazzati; scivolano solo indietro sulla sedia.

Ora è freddo il tuo tè.
Lo bevi in piedi
e poi lasci la casa.”

Edna St. Vincent Millay, “L’infanzia è il regno in cui nessuno muore”

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Il confine

“Cerco il principio del male
come da bambina cercavo i margini della pioggia.
Con tutte le forze correvo per trovare
il luogo dove
sedermi a terra a contemplare
da una parte pioggia, da una parte niente pioggia.
Ma sempre la pioggia smetteva prima
che ne scoprissi i confini
e ricominciava prima
di capire fin dove è sereno.
Invano sono cresciuta.
Con tutte le forze
corro ancora per trovare il luogo
dove sedermi a terra e contemplare
la linea che separa il male dal bene.
Ma sempre il male smette prima
che ne scopra il confine
e ricomincia prima
di capire fin dove è bene.
Io cerco il principio del male
su questa terra
volta per volta
grigia e assolata.”

Ana Blandiana, “Il confine”

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Cronometraggio

“In passato un uccello, una foglia o una stella
ci portavano di tanto in tanto il buon vaticinio,
ci distoglievano dal nero. Passeggiavamo nei giardini
nella quieta armonia dei fiori. Ora
è un tempo sordomuto, – un chiodo nel muro,
vetri rotti per le strade. Di sera
ti impallidiscono le guance. Non aver paura
tu che hai camminato nel deserto orgogliosamente solo,
tu che battevi la verga sulla roccia
e scaturiva un grande cipresso d’acqua,
non aver paura; prima di dormire ricorda
che anche tu hai piantato un albero storico nel bosco secolare.”

Ghiannis Ritsos, “Cronometraggio”, da “Molto tardi nella notte”

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L’alba ci dice: – coraggio.

“L’alba ci dice: – coraggio.
Questa luce che sale
ci spinge ad ascoltare
dissolve ciò che deve.
Dice: – ora comincia
a perlustrare te per prima
scollando dalla mente
la pelle del passato
prendendo senza ira
il tuo nulla fra le dita.”

Antonella Anedda, da “Osservazione”

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Eppure non ha senso

“Eppure non ha senso
rimpiangere il passato,
provare nostalgia per quello che
crediamo di essere stati.
Ogni sette anni si rinnovano le cellule:
adesso siamo chi non eravamo.
Anche vivendo – lo dimentichiamo –
Restiamo in carica per poco.”

Antonella Anedda, da “Historiae”

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Ciascuno porta un ricordo impalpabile

“Ciascuno
porta un ricordo palpabile,
un sasso, una libellula disseccata,
un pezzo di legno di una nave
naufragata da tempo.
Ciascuno
porta il proprio tempo
tra le ciglia,
un dolore accumulato
tra le cornici dell’esistenza.”

Carmen Yanez, da “Latitudine dei sogni”

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Tra tutti i mari

“Tra tutti i mari,
io resto con questo:
mare d’umile inesistenza,
arreso davanti allo sguardo navigante
di territori più sottili.
Né la sua danza, gambe di schiuma
né senza musica, graffi di roccia
né il suo volto, frammento mortale di cielo,
mi commuovono.
Direi, rischiando d’essere imprecisa,
non c’è stato mare né spiaggia né un bianco gabbiano,
né pioggia, né strati di antiche montagne,
quel pomeriggio.
Tra me e la mia memoria,
solo due paia di occhi sorpresi per la bellezza del caso.”
Melissa Cobo Campo
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Ho un rapporto strano con le porte

“Ho un rapporto strano con le porte.
Non le chiudo mai a chiave. Piuttosto le accosto.
È un difetto, credo.
Mancanza di coraggio, forse.
Ma mi succede di non chiudere le porte.
Lascio che siano gli eventi a farlo. Dopotutto chi sono io per stabilire chi deve uscire per sempre dalla mia vita?
In genere chi prende un’altra strada lo fa da solo.
Piano piano. Un passo alla volta. Una scelta dopo l’altra.
Così, io lascio aperto.
Perché non si sa mai.
Magari un giorno chi era uscito, si presenta davanti a quell’uscio, e trovando aperto, si siede per un caffè.
E se sarà passato abbastanza tempo, abbastanza orgoglio, e abbastanza dolore, chiederò
– Con quanto zucchero?”

Paola Felice

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La porta che si chiude

“Tu lo vedi, sorella: io sono stanca,
stanca, logora, scossa,
come il pilastro d’un cancello angusto
al limitare d’un immenso cortile;
come un vecchio pilastro
che per tutta la vita
sia stato diga all’irruente fuga
d’una folla rinchiusa.
Oh, le parole prigioniere
che battono battono
furiosamente
alla porta dell’anima
e la porta dell’anima
che a palmo a palmo
spietatamente
si chiude!
Ed ogni giorno il varco si stringe
ed ogni giorno l’assalto è più duro.
E l’ultimo giorno
– io lo so –
l’ultimo giorno
quando un’unica lama di luce
pioverà dall’estremo spiraglio
dentro la tenebra,
allora sarà l’onda mostruosa,
l’urto tremendo,
l’urlo mortale
delle parole non nate
verso l’ultimo sogno di sole.
E poi,
dietro la porta per sempre chiusa,
sarà la notte intera,
la frescura,
il silenzio.
E poi,
con le labbra serrate,
con gli occhi aperti
sull’arcano cielo dell’ombra,
sarà
– tu lo sai –
la pace.”
Antonia Pozzi, “La porta che si chiude”
*****
Foto di Sonia Simbolo

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