Epistolario

Mamma, ti spiego il Pride

01.12.2021
“Cara mamma, sta per finire il mese di maggio, il tuo mese preferito. Un po’ perché sbocciano le rose, e un po’ perché è il mese della Madonna.
Giugno invece, è il mio mese preferito. In realtà viene dopo settembre, perché a settembre sono nato, e forse per questo mi porto dentro tutti i colori dell’autunno, tutta la magia e il mistero della natura che cambia, e custodisco nel cuore la sua velata malinconia, che mi accompagna e mi fa fermare dalle cose che faccio all’improvviso, portandomi per qualche istante altrove…
Ma giugno è strepitoso. Primo perché ci è nato Pier e poi è il mese del pride. Anzi, DEI pride, che ormai si sono espansi in tutta la nazione e colorano strade e piazze, un po’ a macchia di leopardo, da nord a sud, dalle città importanti ai comuni più piccoli.
Per un giorno corsi e viali si riempiono di tonalità che la natura non conosce, di canzoni degli Abba e di glitter ma soprattutto di gioia. Perché se non è gaio, che Pride è?
Ti chiedi perché proprio a giugno?
Perché è in questo mese che è accaduto qualcosa destinato a creare un prima e un dopo nella storia e nella cultura mondiali.
Era il 28 giugno 1969. C’era un locale nel Greenwich Village di New York. Si chiamava Stonewall Inn.
Ma ci torno più tardi su quello che è successo.
Ti ricordi mamma quando ti ho detto che sono gay?
Nemmeno io. Perché in effetti non c’è stato un momento preciso in cui ti ho preso, ti ho guardato negli occhi, e ti ho detto cosa avevo capito di me.
Questa cosa si chiama Coming Out. No mamma. Non Outing. Lo so che lo chiamano tutti così in televisione, ma sbagliano. Come quando dicono mass MIDIA e non mass media. Perché ignorano che sia una locuzione latina, e pensano l’abbiano inventata gli americani.
C’è una grossa differenza tra OUTING e COMING OUT.
Il coming out è quando tu spontaneamente decidi di dire a chi ami, a chi conosci, o a tutto il mondo di essere omosessuale. E quando decidi di farlo, è perché sei pronto. Perché hai bisogno e desiderio di essere te stesso senza fingere, mentire, nascondere. Perché quello che sei – lo hai capito – non è sbagliato né sfigato, anzi! Semplicemente è una realtà in minoranza rispetto alla massa.
L’outing invece è quando a dire che sei gay è qualcun altro, senza il tuo consenso. E chi lo fa vuole farti del male, ritenendo l’omosessualità una vergogna, una colpa, o chissà cosa. Ma comunque lo fa per isolarti, umiliarti. Contando sul fatto che il resto del mondo la pensi come lui o lei.
In comune queste due espressioni, che hanno valore e significato ma soprattutto esiti diversissimi, hanno la particella OUT, che in inglese significa fuori.
Fuori da cosa? Dall’armadio.
Lo so che ti sembra senza senso, ma poi ti spiego anche questa faccenda dell’armadio.
No, non l’ho ancora sistemato il mio armadio. Sono sempre disordinato. Come quando ero piccolo.
Lo so mamma che ci resti male. Prometto che lo sistemo prima dell’estate.
Ma ascoltami ancora un attimo che ti spiego.
Io non ti ho mai parlato direttamente perché quando ho capito di me, ero in una situazione un po’ complicata. Ero appena ritornato a casa dopo due anni in Francia.
Sì, è per questo che sono uscito dal monastero.
Ma no mamma, nessuno mi ha molestato! E poi ero grande, avevo 19 anni. Anche se ero piccolo per sostenere il peso di quella situazione da solo. Tornavo a casa con un grosso fallimento sulle spalle, una nuova consapevolezza che mi spaventava e un’incognita gigante sul mio futuro. A ripensarci mi faccio tenerezza da solo.
Dopo quegli anni in oratorio, impegnato nel volontariato, alla ricerca di un senso da dare alla mia vita, di un progetto che mi facesse battere il cuore, che mi riempisse di emozione, avevo sentito di essere chiamato alla vita consacrata. E con il fuoco dentro, a diciannove anni, avevo lasciato tutto ed ero andato a chiudermi in quel convento poverissimo e strabordante di gioia nell’estremo nord della Francia, ai piedi di montagne da cui in inverno soffiava il vento gelido della foresta nera.
Una vita, all’improvviso scandita dai ritmi dell’ora et labora. Delle levatacce prima che sorgesse il sole, delle veglie notturne di preghiera, del lavoro faticoso e del silenzio. Le giornate erano durissime, ma le passavo canticchiando le melodie che suonavano in chiesa quattro volte al giorno. Canti antichi, latini, salmi in ebraico, ritornelli in francese, inglese, in una spiritualità ecumenica che mi faceva sentire al centro della Chiesa, nonostante fossimo a una latitudine sconosciuta ai più. Ricordo il fervore della giovane età, i sogni fatti in grande: dove vuoi che vada Signore? A evangelizzare la Cina? A dissodare la terra in Africa? Chiuso in una biblioteca a studiare i testi sacri? O a consumarmi di intercessioni per il mondo in una clausura?
Vivevo con una tale intensità ogni singolo giorno, che alla sera, stremato, crollavo spesso ancora vestito, e a volte mi appisolavo durante il tempo della meditazione in silenzio, svegliato dai morsi della fame nei giorni di digiuno a pane e acqua, due volte a settimana.
E mentre mi addestravo alla vita monastica, Dio si premurava di render vero l’antico detto ebraico che recita: “L’ uomo pianifica, il Signore ride!”, finché un giorno ha deciso di rispondere al mio continuo “Fammi capire, fammi capire”.
C’è il luogo comune per cui chiudersi in convento corrisponda a fuggire dal mondo. Niente di più falso!
È qui, tra le mille distrazioni, che siamo capaci di rimandare a vita le cose importanti. Come con l’armadio, mamma. Sai, mi dico sempre: adesso lo sistemo. Ma prima finisco la serie su Netflix. E Netflix è infinito! Cos’è Netflix? Mamma, tipo la tv ma senza pubblicità, e senza la D’Urso. Si lo so che ti fa ridere la D’Urso. Ma certo che è bravissima. Vabbè, non divaghiamo che voglio arrivare al punto. Mi passi un’altra fetta di torta alle mele? L’hai fatta tu? Ah no, ecco, infatti. Dell’Esselunga? Davvero? Ma è squisita!
Comunque, è in quel convento che mi rendo conto di provare dei sentimenti per una persona lì dentro. E che si tratta di un uomo. Mamma, per me è stato come cadere dal decimo piano.
Non era qualcosa che credevo di desiderare. Ed era in totale contrasto con i miei progetti! Ne parlai con il mio direttore spirituale, che mi invitò a pensare che avrei potuto fare quella vita di rinuncia anche in quanto omosessuale. Ma per fortuna – o meglio, grazie a Dio – capii con lucidità che non affrontare davvero questa nuova consapevolezza l’avrebbe trasformata in un fantasma che mi avrebbe inseguito per sempre.
Ecco perché mollai tutto, senza pensare, senza fare calcoli di convenienza sul futuro che mi si stava prospettando da uomo consacrato. Ecco perché tornai a casa. Senza sapere cosa davvero fossi, e senza avere le parole per spiegarlo a te e a papà. Mi sentivo come una persona finita. Sbagliata. E soprattutto era come se fossi stato lasciato dall’amore della mia vita sull’altare. Ero disperato. È stato in quella disperazione che ho deciso di guardare chi fossi veramente, e inseguire ciò che sentivo. Dando a Dio una sola chance per tirarmi fuori da quel fondo nero. Ero molto arrabbiato, e deluso, al punto da tentare tutto per ricominciare. Anche un’audizione per un’accademia di danza, senza avere mai ballato. Vabbè, questa storia te la racconto un’altra volta. O se vuoi è nel libro.
Comunque. È stato da qui che ho cominciato a cercare di conoscere persone come me, che condividessero lo stesso orientamento sessuale, che potessero confrontarsi con me rispetto a desideri, paure, pulsioni fisiche. Lo so che non vuoi parlare di sesso con me, era per spiegarti. Giuro che non entro nei dettagli! Ma se c’è amore, poi è normale che ci sia anche del sesso, no? Ti dico che ero così solo e spaventato che ho chiamato il numero amico di Arcigay per sapere cosa fare, dove andare. Non c’era internet! Da qui ho imparato a conoscere chi fossi, anche grazie alle storie delle tante persone che ho incontrato, amato, e che mi sono state – e qualcuna lo è tuttora – amiche. Era la fine degli anni Novanta, e i locali gay non erano clandestini. E ci si poteva ritrovare, essere se stessi, e magari rimorchiare. Nel sessantanove invece, non era così. Come per il tuo diritto di votare, o di scegliere se abortire, anche per essere liberi di essere gay qualcuno ha dovuto combattere. E non ti immagini chi! In quella notte, quella del giugno del ’69, dopo l’ennesima retata della polizia con relativa schedatura dei nomi – per intimidire, per farli vergognare di quel che erano – sono state le transessuali, le drag queen, e di seguito altri presenti, ad alzare la testa e a cercare di mandar via quegli uomini in divisa a suon di tacchi e sparruccate.
Mai prima gli omosessuali erano usciti allo scoperto con così tanta rabbia, e con la pretesa di essere riconosciuti nella loro dignità, in quanto cittadini COME tutti gli altri. Per lo stesso motivo Cristina Bugatty ed io, partecipando a Pechino Express, ci siamo voluti chiamare “i contribuenti”. Da questa testa alta, da questa schiena dritta, vien da sé il concetto di orgoglio. Per quello che si è. E il desiderio di smettere di guardare al proprio orientamento affettivo, sessuale e relazionale come uno scheletro da tenere nell’armadio, ma semmai un abito da indossare con fierezza e gioia.
Ecco, ti ho spiegato anche la questione del coming out. Fuori dagli armadi! In molti paesi il Pride è come il momento in cui tutti stendono i panni su un unico filo. Ecco perché è importante che si diffonda, anche nei piccoli centri, nei paesini di provincia. Da noi ancora manca quel plusvalore dato dalla presenza ufficiale delle categorie professionali, dei pompieri, della polizia. In America, ma non solo, ci sono proprio i carri apposta. Il che rende una parata allegra un segno politico forte. Perché è nella vita quotidiana, sul posto di lavoro, che si gioca l’uguaglianza di tutti i giorni. Ecco, questo, qui, ancora non c’è, ma spero che arrivi. Come spero che nasca un comitato che unisca tutti i discriminati, affinché non si debba scendere in piazza solo per i diritti del proprio orticello. Harvey Milk diceva che se non combatti per i diritti di un altro, quando saranno in pericolo i tuoi, nessuno sarà al tuo fianco. Ecco, io sogno che, come ci sono tanti eterosessuali a marciare per il gay pride, ci siano sempre più gay nelle piazze per lo “Ius soli”, e poi tutti insieme per pretendere l’eliminazione delle barriere architettoniche. Perché per esserci uguaglianza, nessuno deve sentirsi escluso.
Ecco mamma. Ci facciamo un caffè?”

Diego Passini

Fonte: Kobo.com

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