Affabulazioni

Il verbo degli uccelli

03.12.2021
Presentazione degli uccelli
“Salute a te, o tortora, che conoscesti le gioie dell’intimità! Tu partisti felice ma tornasti gravata dall’angoscia avendo come Giona abitato in un’angusta prigione. O tu, che fosti ingoiata dal pesce della concupiscenza, fino a quando subirai la malignità della carne? Schiaccia la testa del pesce del male così da elevarti fino alla corona della luna. Se la tua anima saprà affrancarsi dal pesce della concupiscenza, tu diverrai l’intima compagna di Giona.
Salute a te, colomba! Intona un canto melodioso che sparga sopra di te sette scrigni di perle! Poiché la collana della fede cinge il tuo collo, l’esserti infedele sarebbe orrendo misfatto. Ma se di te continuasse ad esistere anche una sola piuma, io non esiterei a chiamarti la “perfetta infedele”. Soltanto entrando e al contempo uscendo da te stessa, potrai trovare la via che conduce al reale, se saggezza ti guida. Quando l’avrai scoperta, potrai ottenere da Khizr l’acqua di vita.
Salute a te, o falco, che ti levasti in volo in atto di rivolta, ma dovesti ritornare a testa china! Non inalberare il capo orgogliosamente, giacché fosti costretto ad abbassarlo. Riposa le tue membra insanguinate! Tu che resti ancora avvinghiato alla carogna del mondo, sei ignaro della vita futura.
Fuggi dal mondo presente e da quello venturo, liberati dal tuo cappuccio e finalmente guarda! Se allora la tua mente avrà dimenticato i due mondi, potrai trovare conforto tra le braccia del Bicorne.
Benvenuto, o cardellino, vieni con gioia, sii ardente nell’azione, guizza come fuoco, brucia ogni cosa a te vicina e distogli gli occhi dell’anima dalle meraviglie del creato! E quando avrai reso cenere tutto ciò che possiedi, la luce della verità scenderà su di te, ogni istante più chiara.
Il tuo cuore conobbe i segreti della verità; intraprendi senza indugio la ricerca di Dio! E quando nella tua ricerca avrai raggiunto le vette della perfezione, cesserai di esistere e allora esisterà solo Dio.
Salute a te, o quaglia, che udisti il divino richiamo d’Alast! Tu vedesti la corona d’Alast sul capo del Balī. Quando nel profondo della tua anima risuonerà l’eco dell’Alast d’amore, tu rifiuterai disgustata il Balī della carne. Se non riuscirai a strapparti da un vortice di sciagure, come ti sarà possibile agire rettamente? Ma tu brucia codesta carne, imita Gesù che non esitò a bruciare il suo asino. Come Gesù accendi la tua lampada per l’amato! Brucia l’asino del corpo e dona forza all’uccello dell’anima affinché Gesù, lo Spirito di Dio, ti venga incontro gioiosamente.
Benvenuto, o usignolo del giardino d’amore, innalza un dolce lamento dalle dolorose ferite della tua passione! Intona, come Davide, un canto gentile che sgorghi dal profondo del tuo cuore, affinché cento anime innamorate si immolino in ogni istante per te! Apri la tua gola melodiosa ai segreti del reale! Agli uomini indica la via con le note del tuo canto! Fino a quando riuscirai a fronteggiare le minacce della carne? Come Davide trasforma il ferro del tuo cuore in molle cera e allora potrai ardere d’amore come Davide.
Salute, o pavone del giardino delle otto porte! Oh quanto bruciò sulla tua pelle il morso del serpente dalle sette teste! L’intimità che ti concesse fu la causa prima delle tue sofferenze. Per esso tu fosti cacciato dal paradiso dell’Eden, per causa sua il Sidra e il Tūbā scomparvero dalla tua via e avesti il cuore contaminato dalle impurità della natura. Se non ucciderai quest’orrido serpente, non sarai degno di custodire i segreti né potrai essere accolto in paradiso da Adamo.
Salute a te, o bel fagiano dall’acuta vista! Tu potresti contemplare la sorgente del cuore immersa in un mare di luce, e invece languisci in un pozzo di tenebre, chiuso in una prigione di sospetti. Sorgi dal profondo di questo pozzo tenebroso, innalzati sino al trono supremo!
Abbandona, come Giuseppe, la cella del pozzo se vuoi divenire in Egitto la gloria del re.
Se saprai conquistare un simile regno, sarai il confidente di Giuseppe il verace.”
Parla l’upupa
“Vi fu un re di una bellezza straordinaria e senza pari sulla faccia della terra. Il regno del mondo costituiva il libro dei suoi segreti e il suo volto era un miracolo di perfezione. Ogni suo sguardo era aurora luminosa, il volto di un angelo non era che un atomo della sua fragranza e gli otto supremi paradisi, traboccanti di profumi e di colori, non erano che una pallida imitazione del suo aspetto meraviglioso. Nessuno che io sappia aveva mai avuto l’ardire di contemplare una sia pur infima parte di tanta bellezza. La sua fama risuonava in ogni angolo della terra, infinite creature s’innamoravano follemente di lui. A volte, con il volto celato  da  un  roseo  velo,  egli  usciva  a  cavallo  dal  palazzo  per visitare la città. Ebbene, chi avesse osato levare lo sguardo verso quel volto, veniva immediatamente decapitato, e chi fosse stato così temerario da pronunziare il suo nome, ne aveva la lingua mozzata all’istante. Chi avesse soltanto desiderato d’unirsi a lui, smarriva per sempre la ragione e i sentimenti. Morire d’amore per quel volto era considerato preferibile a cento interminabili esistenze. Vi furono giorni in cui morirono migliaia di sudditi straziati dalla passione: questo in verità è amore, questo è azione!  Nessuno  sapeva  vivere  lontano  da  lui  anche  per  un  solo istante, sebbene nessuno potesse sostenerne la vista. Ammirare il  suo  fulgido  volto  significava  morire  tra  infiniti  lamenti.  E  i sudditi  continuavano  a  perire  nella  loro  disperata  ricerca  essendo incapaci – o meraviglia! – di vivere con lui o privi di lui. A  chi  fosse  riuscito  a  sostenerne  la  vista,  quel  re  non  avrebbe negato il suo volto, ma poiché nessuno era capace di tanto altro piacere non era concesso se non udire la sua voce. Nessuno era degno di lui, così in quel regno infiniti sudditi morivano con il cuore lacerato. Finalmente il re decise di far costruire uno specchio, affinché tutti potessero contemplare il suo volto. Venne edificato uno splendido  castello  sulla  cui  sommità  fu  posto  uno  specchio.  E  il  re prese a salire ogni giorno sulla torre per specchiarsi e in tal modo il suo volto, riflesso, poteva essere da chiunque ammirato. Se  tu  ami  la  bellezza  del  divino  Amico,  sappi  che  il  cuore è  lo  specchio  in  cui  si  può  contemplarlo.  Guarda  dunque nel cuore e ammira la sua eterna bellezza, lucida a specchio l’anima tua se vuoi contemplare il suo fulgido volto! Il tuo Re  vive  in  un  castello  di  gloria,  reso  splendente  dalla  luce solare del suo volto. Dal cuore trae origine una via che giunge sino al Re, ma questo non accade se il cuore è smarrito. Ammira  dunque  il  Re  nel  tuo  cuore,  contempla  l’empireo in un atomo! Finalmente il fulgido sole dell’intimità rifulse su di loro e i suoi raggi vennero riflessi dallo specchio delle loro anime. Allora nel riflesso abbagliante del volto del “simurgh” del mondo, essi contemplarono il volto di Simurgh. Osservando più attentamente si accorsero che i trenta uccelli (si-murgh) altro non erano che Simurgh medesimo, e che Simurgh era i trenta uccelli: ne furono tutti stravolti e sbalorditi né poterono comprendere che cosa fossero divenuti. Infatti volgendo nuovamente lo sguardo verso Simurgh, videro i trenta uccelli (si-murgh), e guardando ancora se stessi rividero lui. E se guardavano da una parte e dall’altra al contempo, null’altro appariva che un unico Simurgh. O meraviglia: questo era quello e quello era questo! Quando mai nel mondo si era assistito a un simile prodigio?”

Farīd ad-dīn ʻAṭṭār, da “Il verbo degli uccelli”

*****

 Farīd al-Dīn ‘Aṭṭār, poeta e mistico persiano, visse tra il XII ed il XIII secolo. Di lui si conosce ben poco, tanto più che la sua figura è circondata da un alone leggendario. Sappiamo che era il figlio di uno speziale (e a questo sembrerebbe alludere anche il termine ‘Aṭṭār , che significa “venditore di droghe”) e che fu in possesso di una vasta cultura che spaziava dalla medicina, alla musica, all’astronomia. Una delle tante leggende fiorite sul suo conto narra che fu proprio nella bottega paterna che si verificò l’episodio destinato a convertirlo definitivamente al misticismo. Un giorno nella bottega entrò un  derviscio, che lo invitò a rinunciare a tanta ricchezza per dedicarsi alla vita contemplativa, l’unica in grado di garantirgli la dignità del vivere e del morire.  Quando Farīd gli chiese di mostrargli una prova delle sue affermazioni,  il derviscio si distese a terra e morì. Anche la morte di Farīd è accompagnata da una leggenda: si narra che, caduto nelle mani di un soldato mongolo, sarebbe stato ucciso se  un uomo non avesse offerto una somma di denaro per comprarlo. Farīd, però, suggerì al soldato di non accettare una cifra così modesta, perché il suo valore era di molto superiore. Poco dopo, la scena si ripeté: arrivò un altro uomo che offrì una somma maggiore della precedente, ma ancora una volta Farīd dissuase il soldato ad accettarla.  Ma quando si fece avanti un vecchio che offrì un fascio di legna per averlo,  Farīd disse al soldato di accettare l’offerta poiché “Non c’è nulla che valga più di questo”. A questo punto il soldato andò su tutte le furie e lo uccise. 

Il verbo degli uccelli (Manṭiq aṭ-ṭàir) è l’opera più celebre di Farīd: si tratta di un poema la cui cornice narrativa è costituita da un convegno nel quale gli uccelli, guidati dall’upupa, decidono di andare alla ricerca del Simurgh, l’uccello mitico che sarà il loro sovrano. Per farlo, dovranno attraversare sette valli (la Valle della Ricerca, dell’Amore, della Conoscenza, del Distacco, dell’Unificazione, dello Stupore e, infine, la Valle della Privazione e dell’Annientamento), che stanno a configurare una ricerca iniziatica. Al termine di questo percorso, soltanto 30 uccelli riescono a raggiungere il luogo dove vive il Simurgh, ma ciò che trovano è semplicemente uno specchio che riflette la loro immagine, il che sta a signficare che il Simurgh, ossia Dio, è immanente nell’universo ed in ogni sua creatura.

Lascia un commento