Pensieri

Sibilla

06.12.2021
“Ultimi sonni”, potrei intitolare questi miei sonni di dodici, quattordici ore la notte senza risveglio. Anche di giorno del resto terrei sempre gli occhi chiusi. Deriva dal mio enorme stato di debolezza, neppure il braccio ho più la forza di alzare. Fosse, fosse la fine!”
E’ il 29 dicembre del 1959, Sibilla Aleramo ha ottantatre anni (Rina Faccio, il suo vero nome, era nata ad Alessandria nel 1876) e morirà il 13 gennaio del 1960 dopo le ultime parole, sul Diario (Feltrinelli), tracciate il giorno 2. Su quei battiti estremi si chiude l’esistenza di “una donna” (parafrasando il suo libro più importante del 1906), a Roma, nella clinica Villa Speranza, alla Pineta Sacchetti, dove era entrata il 19 dicembre, alle ore 19. Scende verso la soglia e scompaiono piano tutti gli anni fin lì, i nomi, il mondo attraversato, la storia; i libri, gli amori (Giovanni Cena, Cardarelli, Papini, Dino Campana, Quasimodo, fino all’ultimo, il poeta Franco Matacotta – nato a Fermo nel 1916 e spentosi a Nervi nel 1978 – quando lei aveva già sessant’anni e Franco venti), si annulla la puntuale cronologia che scandisce le età del tempo che l’hanno vista viva.
E’ molto vecchia, non somiglia più a Rina né a ciò che è stata fra i due secoli che l’hanno ospitata come inquilina inquieta, da quando lasciò Porto Civitanova dove si era trasferita con la famiglia nel 1881 (suo padre là dirigeva la filiale milanese di una vetreria). Collabora, in quegli anni, con articoli e cronache mondane, ad alcuni giornali regionali (“L’Ordine” di Ancona e “La sentinella” di Osimo). Nel 1892 subisce una violenza sessuale da un impiegato della fabbrica paterna, Ulderico Pierangeli, che sposerà nel gennaio del 1893; nel 1895 nascerà il figlio Walter, figura che occupa molte pagine del diario e che Sibilla visiterà spesso ad Ancona dove, medico, viveva. Solo nel ’33 lo rivedrà dopo aver abbandonato, sulla fine del febbraio 1902, la casa del marito. Ancona 5 novembre 1947: “Ritrovo mio figlio dopo una decina d’anni che non ci si rivedeva.”; in treno fra San Benedetto ed Ancona, 17 maggio 1949:
Non ero più passata dopo la guerra per questa linea. Civitanova è stata molto battuta nella zona presso la stazione, ove mio padre eresse, più di sessanta anni fa, la fabbrica di vetro ora distrutta […]”;
Ancona, 21 settembre, mattino: ”Impressione profonda ieri percorrendo nella macchina di mio figlio il quartiere di rovine sulla collina a piè del Duomo. Ancona ha perduto il settanta per cento sotto i bombardamenti. […] Dinanzi al panorama del mare, in una luce raggiante tutti i poveri relitti ai miei piedi di case che furono di misera gente parevano una sinistra allucinazione.”;
1959, Ancona 29 maggio, mattino: ”Arrivata ieri sera alle sette, alla stazione c’era mio figlio con il suo dolce sorriso […]”.
Quando avvia il Diario di una donna (1945, Roma, 21 gennaio, sera ) ha sessantanove anni e, dinanzi a lei, “lo spettro della perfetta indigenza”.
Tutto il suo sentiero è costellato di necessità da quando lasciò “[…] la casa maritale (senza portar via nulla!)
L’orologio di Sibilla batte il tempo dei giorni e lascia che quegli istanti cadano senza rimedio, irripetibili, come le ore di tutti. Il suo mondo l’ha preceduta pian piano e lei ha paura perché sente che si compie l’ora del distacco verso cui si approssima nell’umiltà severa di una dignità che illumina lo spazio bianco del silenzio e della pagina.

Francesco Scarabicchi, “Sibilla”

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