Linguaggi

Ohana

19.12.2021
“Ohana significa famiglia e famiglia vuol dire che nessuno viene abbandonato o dimenticato.” 
Da “Lilo & Stitch” (film animato del 2002) 
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Famiglia
“Famiglia è l’opposto di solitudine.
È dove qualcuno
ci aspetta sempre
anche se siamo lontani.
È la porta che si apre
anche a notte fonda,
l’ancora regalata
per non affondare
nelle tempeste.
Famiglia è l’opposto di solitudine
è ogni persona o cosa animata
che amiamo e ci ama.
Famiglia è anche il cane del mio vicino
le piante sul balcone di sua moglie
che crede fioriscano
per il suo amore.
In quanto a me,
adesso che è notte
e fumo una sigaretta
davanti alla luna,
non so come
e neppure perché
mi attraversa il pensiero
che famiglia siano anche
questo cielo nero e immenso
e domani l’alba e il chiarore
e il sole.”

Anna Spissu, “Famiglia”

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Èlavita
“Non ho madre né padre.
Pare ci sia un tempo regolamentare,
poi a un figlio non spettano più.
Lo chiamano Èlavita.
Come spiegazione non mi basta.
Sono rimasto figlio, il padre di nessuno.
Da figlio vorrei qualche volta
fare visita, una telefonata,
portare un regalo.
I loro compleanni
sono i giorni che guardo le fotografie.
Mi piacciono quelle
con loro due giovani
e io neanche un’ipotesi.
Mi piace la loro vita
prima del 1950,
Hanno una serietà ironica
che non ho ricevuto.
Mi pento di avere dato via
le loro scarpe.
Se tornano mi chiederanno conto
di non custodire
la forma dei piedi,
la suola dei passi.
Quando li sogno
non stanno più insieme,
vengono a turno in visita,
non parlano,
si lasciano abbracciare.
Il tempo non mi abitua,
pure oggi è il giorno dopo
della separazione da quei due.
Solo quando mi succede un guaio
dico meglio così,
che non l’hanno saputo.”
Erri De Luca, “Èlavita”
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Foto di Gianni Berengo Gardin

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Famiglia

“Nella mia famiglia non ci sono poeti.

Però mio nonno Gregorio,
quando annaffiava l’orto a Belinchón,
è rimasto così tanti pomeriggi
a osservare il canale, mormorando:
Non beviamo
l’acqua: è essa a berci.
L’acqua
è
la donna.

No, nella mia famiglia non ci sono poeti.

Ma una volta, da bambina, trovai dei gusci
di un uovo azzurro
ai piedi del mandorlo.
Li mostrai a mio padre e mio padre, silenzioso,
mi insegnò a costruirgli un nido
con i rametti;
e mi spiegò perché: ci sono pezzi di vita
che valgono
interi sogni.

Nella mia famiglia, vi dico, non ci sono poeti.

Ma quando la mia bisnonna
Asunción
vide per la prima volta il mare
– la prima e l’unica -,
mi dicono che restò molto seria, tacendo
a lungo, prima di dire:
Grazie
per
gli occhi.

Non so da dove vengo. Nella mia famiglia
non ci sono poeti
cattivi.”

 

Martha Asunción Alonso, “Mutazioni poetiche”, da “Wendy”, 2015

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Adriaen van Ostade, “Famiglia di contadini in un cottage”, 1661

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Ode a nonno H.

“Mio nonno aveva occhi di pervinca,
sapeva di tabacco e parlava poco…
Mio nonno aveva un casco di cuoio
ed una vecchia moto con la sidecar
con la quale portava la nonna
a fare la spesa…

Mio nonno è stato giudicato troppo giovane
per esser arruolato nella prima guerra mondiale
e troppo vecchio per far da soldato in quella seconda:
ma entrambe lo hanno minato nell’anima…

Mio nonno aveva molti fratelli, molti zii e molti cugini…
Due fratelli
Tre zii
Tre cugini
videro il loro ultimo sole sui campi di battaglia
della “grande guerra”:
forse uccisi dal gas nervino…
forse da un colpo di baionetta…
forse da una mitragliata…
forse da stenti…

Mio nonno aveva molte sorelle, molte zie e molte cugine…
Una sorella
Tre zie
Quattro cugine
non videro la bianca colomba di pace:
forse uccise dalla carestia…
forse dalla spagnola…
forse dal crepacuore…

Mio nonno era nato tedesco ed odiava il Kaiser.

Mio nonno era un atleta…
Faceva la lotta greco-romana,
correva come una lepre,
sollevava i pesi,
saltava in alto e tirava di fioretto…

Mio nonno era un pittore…
Dipingeva monti innevati,
campagne fiorite,
mari che non aveva mai visto,
marinai cotti dal sole
che avevano facce dei suoi fratelli morti…

Mio nonno aveva un allevamento di pastore tedesco…
I suoi protetti erano campioni riconosciuti,
ammirati per la bellezza e per l’addestramento…

Mio nonno amava i suoi cani…

Poi vennero i nazisti e smembrarono l’allevamento
portando chissà dove i cani adulti ed i cuccioli…

Mio nonno era nato tedesco ed odiava i nazisti.

Mio nonno aveva una moglie e tre figli
perennemente affamati…
Prigionieri della città
dove si sopravviveva
con scarse razioni di cibo
che non bastavano mai…
E quando il rumore di stomaci vuoti
superava la paura…
mia nonna si faceva il segno della croce,
stirava la camicia di nonno più bella,
spolverava la giacca con risvolti di velluto
e pantaloni alla zuava…
lucidava gli stivali di cuoio…
E lui, mio nonno…
si vestiva di tutto il punto,
prendeva una grossa valigia di cartone
ed un cappello con la piuma,
e saliva sul treno
per andare in campagna
dove per un orologio,
un gioiello della moglie,
le lenzuola di lino del corredo…
il contadino amico
gli donava qualche uovo,
farina, burro, fagioli…
carne, se andava bene…
E, di ritorno, in stazione…
con la valigia che pesava,
di cibo e di terrore…
lui,
con i suoi stivali lucidissimi
che volevano correre…
camminava lento
lentissimo
e faceva “heil hitler”
a tanti soldati in pattuglia
sorridendo
e sudando freddo
rischiando la vita
ogni volta
ogni volta…
perché il procurarsi cibo
per cercare di sfamare i figli…
era un reato
punito con la fucilazione sul posto.

Mio nonno era nato tedesco ed odiava Hitler.

Mio nonno aveva una palazzina in città
ed un terreno in campagna…
Durante la guerra
sul campo stazionavano i carri dei tedeschi
e la casa era occupata dalle loro famiglie…
Dopo la guerra
I nuovi re giudicarono la casa ed il campo
troppo grandi per una sola famiglia
ed in nome della giustizia comunista
assegnarono a nonno
un pezzo d’uno dei suoi appartamenti
ed un piccolo appezzamento di terra…
per le sue coltivazioni private,
dissero…

Mio nonno era nato libero ed odiava le dittature.

Mio nonno ha conosciuto due guerre
ma non si era temprato
dal fragore della morte,
dal terrore delle carni lacerate,
dal sopruso del vincitore,
dall’umiliazione del vinto,
dagli occhi dei bimbi orfani,
mutilati,
violati,
vilipesi.

Gli occhi di mio nonno contenevano il cielo…
anche quello delle ultime battaglie…
casa per casa…
cortile per cortile…
strada per strada…
tra russi e tedeschi
in quel maggio 1945
dove neanche i fiori sbocciati
riuscivano a coprire l’odore di morte.
Arruolarono i vecchi ed i ragazzini
i tedeschi…
nel nome di un nulla,
di una guerra persa,
d’insensata voglia
di altri spargimenti di sangue
inutili
E questi miseri soldati improvvisati
morivano come mosche
nel nome di un nulla
nel nome della follia
nel nome di un Dio
che non guardava più…

Mio nonno nascose mio padre in soffitta
per non correre i rischi…
perché era nato tedesco
e mio padre aveva quasi quindic’anni…
Quindic’anni da compiere…
poteva voler dire “uomo”
per qualche invasato…
E lui…
sotto un vecchio tavolo
respirava la polvere
e si tappava le orecchie
per non sentire il rumore
assordante
dell’artiglieria,
dei cingolati,
dei lanciarazzi russi…
delle mitraglie dei tedeschi…
per non sentire il pianto di terrore
dei suoi fratelli più piccoli
ed il gocciolare, lento, delle sue stesse lacrime…

La gente uscì per strada, festante
La guerra è finita!
Gridavano,
cantavano,
si baciavano…
Festeggiavano…
I soldati russi,
ubriachi di vodka e di vittoria
ballavano per le strade…
tra i cadaveri dei tedeschi,
tra i corpi ammassati dei civili,
tra i miseri resti dei loro commilitoni…
La città aveva la libertà
ma puzzava di morte…

Mio nonno si rimboccò le maniche
e con altri come lui
formarono le squadre di civili
per riportare ordine e vita tra la gente…
E per giorni,
giorni e giorni…
per settimane…
raccolsero i cadaveri
per seppellirli
in fosse comuni…
con la morte nel cuore,
con gli occhi che non vedevano più
per le lacrime,
per l’orrore,
per umana pietà,
per quel mezzo litro di vodka al giorno,
l’unica paga per un lavoro
necessario,
terribile,
massacrante…

E venne il giorno
in cui mio nonno
trovò un mucchio di cadaveri
ai piedi del muro di Špilberk…
ragazzi e vecchi
ragazzi e vecchi…
Ragazzi privati dal futuro
ragazzi dagli occhi grandi
spalancati
azzurri solo dal cielo…
immobili…
Ragazzi in buffe uniformi tedesche
più grandi dei loro corpi
ancora acerbi…
Ragazzi
con un fucile tra le mani
che non era un giocattolo…
Ne riconobbe due…
Due ragazzi
compagni di scuola di suo figlio…
e da allora
quel mezzo litro di vodka
in dotazione
non bastò più
non bastò più
non bastò più…

Mio nonno era nato tedesco ed odiava la guerra.

Mio nonno aveva un orologio a cucù
con i pendoli a forma di pigna,
una pipa di legno rosa
e mani d’oro.
Mio nonno riparava tutto,
tutto rinasceva tra le sue mani
a nuova vita…
a nuova vita…
Mio nonno era un artista…
dipingeva tristi paesaggi…
mari in burrasca…
i ragazzi dai capelli rossi
con le facce di quelli morti
che aveva seppellito…
Già… mio nonno era un artista
quando non beveva
quando non beveva
quando non beveva…

Mio nonno aveva una moglie,
tre figli,
quattro nipoti,
dieci pronipoti, non tutti conosciuti…
ed una bottiglia…
A volte l’ordine cambiava e
mio nonno aveva una bottiglia,
tre figli,
quattro nipoti e dieci pronipoti
che si vergognavano di lui.
La bottiglia mai…
lei ne andava fiera
anche quella volta,
a guerra finita,
quel giorno
che a nonno dissero:
sai, i tuoi cani,
i tuoi bellissimi,
amatissimi,
addestratissimi cani…
facevano da guardia
in campi di concentramento
per non far fuggire i prigionieri
più morti che vivi
ed ancora più terrorizzati
dal ringhiare feroce
dei tuoi cani
dei tuoi cani
dei tuoi cani…

Mio nonno era nato tedesco ed amava i cani…
ma non ne ha mai più voluto uno.”

Vera Somerova Cordublas, “Ode a nonno H”

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Una canzone triste
“Mia nonna è il dipinto di mia nonna.
Mia nonna è l’inquilina di mia nonna.
Per me era il volto della domenica mattina
e qualche nascita e qualche morte e qualche eternità
che rotolavano dentro le rughe di un paese,
senza spingersi mai oltre la vecchia chiesa.
Mia nonna si avvicina lentamente,
molto più lentamente di ogni altra volta.
Mia nonna è il male minore di mia nonna.
Mia nonna mi mette una mano sulla spalla
e i capelli smorzano la carezza che dona.
Mia nonna è quel gesto obliquo con cui le tengo la testa
e ci insegna che niente dà più intimità della sofferenza.
Si ricorda quella canzone triste,
dice che fa: na na-na-na-na na na.
Per la prima volta in una vita intera
le sorrido per davvero.”
Fabrizio Sani, da “Il contrario di abitare”, 2022
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Immagine dal web
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Mio nonno

“Mio nonno era il fiume che fecondava queste terre.
Pieno d’innumerevoli mani e occhi e orecchie.
E, nello stesso tempo, cieco e taciturno come un albero.
Era la barba antica e la voce profonda della casa.
Era il seminatore e il frutto. Il ceppo rugoso.
L ‘indice del tempo e il sangue propizio.
Mio nonno era l’inverno con le mani fiorite.
Era il fiume stesso che popolava le terre.
Era la terra stessa che moriva e rinasceva.
Mia nonna era il ramo incurvato dalle nascite.
Era il volto della casa seduto in cucina.
Era l’odore del pane e della mela conservata.
Era la mano del rosmarino e la voce della preghiera.
Era la povertà dei lunghi inverni
avvolta nello zucchero come un’umile ghiottoneria.
Quindici figli mangiarono dalle sue mani miracolose;
Quindici figli dormivano col suo sonno d’aquila.
In molti nipoti e pronipoti abbiamo continuato
a passare nelle sue braccia secche.
Ma lei è sempre la mano che mescola l’acqua e la farina.
È il silenzio delle notti pieno d’uccelli addormentati.
È il braciere dell’infanzia con la focaccia che scappava.
Mio padre era quello che assomigliava di più alla terra.
Deve essere nato insieme con il frumento o il grano.
Mio padre era bruno.. e dormiva sul cavallo.
Era come il cavaliere lento della primavera.
Gli altri miei zii assomigliavano tutti agli uccelli locali.
Tutti avevano qualcosa degli alberi e delle montagne.
Alcuni erano possenti come i cavalli normanni.
Altri avevano il volto di pietra o di grano tostato.
Ma tutti ricordavano le cose prossime alla terra.
Era uno sciame turbolento che riempiva la casa.
Era una banda di pavoncelle che preannunciava la pioggia.
Erano le cesene che rubavano le ciliegie.
lo nacqui quando erano già vecchi;
quando mio nonno aveva i capelli bianchi,
e la barba l’allontanava come nebbia,
io nacqui quando ardevano i falò di maggio.
E la prima cosa che ricordo è la voce del fiume e della terra.”

Efrain Barquero

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Giovanni Pezzota, “La memoria del nonno”, 1883

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Nonno

 

“Nonno mi diceva spesso
trova una persona
che si innamori di te subito,
che si innamori all’istante
che in cinque minuti possa già aver capito
quanto sarà stupida la sua vita senza te
che in cinque minuti abbia almeno visitato
l’India e l’Africa, la Norvegia e Rio
che sono dentro ai tuoi occhi
che in cinque minuti
ti abbia almeno pensato mezz’ora
e che capisca quanto bella sei
senza dover aspettare
il prossimo tramonto
nonno mi diceva spesso
trova una persona
che si innamori di te subito,
che non ami aspettare d’amare
che dentro di sè possa
dalla prima accensione
ardere forte
il falò del cuore
e che dia subito il tuo volto
alle canzoni d’amore che ha ascoltato
fino a poco fa
nonno mi diceva spesso
trova una persona
che si innamori di te subito,
trova una persona che provi
qualcosa per te prima ancora di poter
provare qualcosa per te,
una persona che non ti metta alla prova,
ma che ti indossi
da subito
come abito buono di domenica
e che in cinque minuti riesca
a descrivere bene il tuo infinito
nonno mi diceva spesso
trova una persona
che si innamori di te subito,
e che in cinque minuti capisca
che innamorarsi di te dopo cinque minuti
è pure troppo tempo,
io mi innamorai di te
dopo soli quattro  secondi.”
Gio Evan (Giovanni Giancaspro)
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Antonio Magnani, “La lezione della nonna”
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A Bruna, madre di mia madre

 

“Aveva dentro racconti di cose mai
viste, sfollamenti, ritorni
mancati e altri, misteriosi,
dai geli della Russia.

E anni senza marito, due figlie

appese al collo sulle navi
tra Genova e l’Etiopia.

Aveva dentro uno spartito
con mille note che io
non ho mai sentito, una gran
copia di emozioni che chi di noi
ha mai vissuto…

Aveva negli occhi il ridere

d’avere conosciuto il suo uomo
davanti alla gabbia dei conigli
in un mattino aspro e gentile
quando lui salutò con due battute
volgarotte e celestiali.

Il suo uomo grande

partito prima di lei, servito
come un re

e come un bimbo poi

accompagnato fino all’ombra.

In lei,

gran madre,

era ospitale

anche il vago cenno

erano vere le apprensioni
persino l’ira che pungeva
a volte in fondo agli occhi.

Per il mondo?

Sì, per quello.

Ad ospitare ogni cosa
si soffre, molto.

Occorre

una felicità dura, di più generazioni.”

 

Davide Rondoni, da “Una felicità dura, di più generazioni”

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Vincenzo Irolli, “Donna alla finestra”

 

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Sta sulla strada la notte quest’uomo

“Sta sulla strada la notte quest’uomo
che è stato una volta mio padre
e io devo raggiungerlo là dove si trova,
perché ero io la sua figlia primogenita.
E così notte dopo notte se ne sta solo al suo posto
e io devo scendere e rimanere là
e avrei voluto chiedere a quell’uomo fino a quando avrei dovuto.
Anche se sapevo dal principio che sempre avrei dovuto.
Là dove si trova c’è presagio di pericolo
come il giorno in cui camminava per strada e un’auto l’ha investito,
e così l’ho conosciuto e ho messo dei segni per ricordare,
che proprio quest’uomo è stato una volta mio padre.
Lui non mi dice nemmeno una parola d’amore
benché sia stato una volta mio padre
benché io sia stata la sua figlia primogenita.
Non può dirmi nemmeno una parola d’amore.”
Dahlia Ravikovitch, da “Il cielo è un abisso di stelle” – Traduzione di Suzy Shammah e Sara Ferrari

 

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Foto di Jolanta Z.Jazdzyk

 

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Mia moglie

“Quando triste rincaso e lei m’aspetta
alla finestra, se la bella e cara
moglie, ad un gesto, il mio male sospetta,
se il disgusto mi legge, od altro, in faccia,
tosto al mio collo le amorose braccia,
come due serpi vigorose, getta;
me solo accusa la sua voce amara.

«E così – dice è così che mi torni.
Non un bacio per me, non un sorriso
per tua figlia; stai lì, muto, in disparte;
si direbbe, a vederti, che tu hai l’arte
di distruggerti. Ed io… guardami in viso,
guarda, se alle parole mie non credi,
questi solchi che v’ha lasciato il pianto.
Ero qui sola ad aspettarti; intanto
la nostra casa io l’ho rimessa, vedi?
come nel primo giorno.
Ma tu già non m’ascolti. Che passione,
e che rabbia mi fai!
Non s’ha il diritto, sai,
quando si vive con altre persone,
di tenere per sé le proprie pene;
bisogna raccontarle, farne parte
ai nostri cari che vivono in noi
e di noi».

«Quanto, quanto m’annoi»,
io le rispondo fra me stesso. E penso:
Come farà il mio angelo a capire
che non v’ha cosa al mondo che partire
con essa io non vorrei, tranne quest’una,
questa muta tristezza; e che i miei mali
sono miei, sono all’anima mia sola;
non li cedo per moglie e per figliola,
non ne faccio ai miei cari parti uguali.”

Umberto Saba

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La nonna

“Un giorno moriremo, ma il canto viene prima.
Nonna tu nei cortili dell’estate, già alzata all’alba,
sola ad aprire imposte e ricevere il sole,
accompagnando la febbre dei miei ultimi sogni con lo strofinio appena udibile dei tuoi passi,
entrando dalla parte del giorno a restituirmi il mondo nella fragranza del caffellatte.
Non dimentico nulla, io crebbi sulla sponda della tua vestaglia e dei tuoi scialletti,
del tuo gusto per il lillà che ti fa come una cenere di colombe fra i capelli e le guance,
e sento un’altra volta il soave andare delle pantofole che ti portai dal Cile.
E sto vedendo la lunghissima treccia che tu lasci libera
quando ti alzi, come un ricordo dei tuoi anni di ragazza.
Tu non lo sai, nonna, però in te finisce il tempo, la successione dei giorni e delle spiagge,
delle aule e dei pianti, dell’amore nei suoi mille specchi,
dell’uomo e del bambino che riconciliano le loro distanze nei tuoi occhi, oh paese della pace.
Ti vedo e sono piccolo e sono proprio io,
e niente impedisce che il piccolo e l’uomo ti diano lo stesso bacio e si rifugino nel tuo abbraccio.
Questi capelli che tu accarezzi e che pettinasti per la prima volta,
questa fronte che stai baciando e che lavasti dal sudore della nascita,
queste mani che vanno per il mondo palpando i suoi bei vuoti,
e che guidasti nel primo incontro con il cucchiaio e la palla,
tornano al posto del riposo, e non se ne vanno, nonna,
sebbene io viva alzato verso tante rotte, e non se ne vanno, nonna.
La nonna spunta con il giorno a visitare l’orto e le galline
spartisce l’acqua e il mais, ammira i pomodori e i loro progressi,
e gode del racemo che si inerpica, del lampadario delle prugne regine claudie,
e va per le profondità della casa distribuendo l’ordine.
A volte mi alzo, l’accompagno e, associato ai suoi riti,
do da mangiare agli uccelli e irrigo le veccie,
sento il tremito dell’acqua sui rampicanti che bucano i muri e che la ricevono crepitando
e si riempiono di scintille.
Ho dieci anni, vivo insieme ai bruchi e alle anatre, sono tenero e crudele,
ammazzo e proteggo, ordino come un re le cose del mio regno,
e sopra di me sta la nonna, le arrivo già all’altezza delle spalle, sulla punta dei piedi arrivo a baciarla,
e i nostri occhi si scoprono nell’allegria comune dei polli nati durante la notte.”

Julio Cortàzar, “La nonna”

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Giuseppe Möder, “Donne di Scanno”, 1955

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Mia nonna

“Mia nonna era il ramo incurvato per i parti.
Era il volto della casa seduto in cucina.
Era l’odore del pane e della mela conservata
Era la mano del rosmarino e la voce dell’incantesimo.

Era la povertà dei lunghi inverni
avvolta  nello zucchero  come un’umile dolcetto

Quindici figli hanno mangiato dalle sue mani miracolose
Quindici figli hanno dormito col suo sonno di aquila…”

Efraín Barquero, “Mia nonna”

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Primogenito
“Le settimane passano. Io le ripongo,
Sono tutte uguali, come barattoli di minestra scorticati…
I fagioli inacidiscono nel pentolino. Guardo la cipolla
isolata
Che galleggia come Ofelia, incrostata d’unto:
Tu svogliato, giochi col cucchiaio.
E adesso? Ti mancano le mie premure? Il tuo cortile matura
In un padiglione di rose, come un anno fa quando suore di servizio
Mi spingevano lungo la corsia…
Tu non potevi guardare. Vidi
L’amore convertito, tuo figlio,
Sbavare sotto vetro, affamato…
Mangiamo bene.
Oggi il mio macellaio spunta il suo coltello esperto
Sul vitello, la tua passione. Io pago con la mia vita.”
Louise Glück
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A mia figlia
“Onora sempre le bolle di sapone
come l’uomo sono fatte di fiato
provengono da un respiro
come il corpo umano sono una tessitura di acqua
con trasparenza mostrano il silenzio.
Un soffio le fa volare nell’aria e vanno
si rincorrono come baci
come la vita non ritornano.”
Giovanni Fierro, “A mia figlia”
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Lisandro Rota
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Verso il padre
“Che devo dirti, padre, sono vecchio
come tu non sei mai diventato
e adesso sono più grande di te
e mi sembra ridicolo
chiederti consigli
ma ho capito da anni
d’essere un uomo ridicolo
e al massimo rideremo di me
mentre lasciamo andare un po’ di tempo.
Questa mattina l’aria non mi giova
ed è come se respirassi a stento.
Ieri, non ho visto la notte
e mi è mancato il suono degli uccelli
che immagino ti parlino di note
quando lasciano il tempo
per visitarti dove tu non sei.
Sono crollato come una stanchezza
sotto un ponte di barche
con una falla mobile
che si propaga da una barca all’altra
come succede ai buchi nelle tasche
e ti perdi le chiavi.
Sott’acqua
tu mi sembravi inutile
e tutto mi appariva trasparire
nella mia trasparenza
tanto che mi vedevo come un vetro
in un’opacità non mai chiarita
che credo ti somigli.
Ieri mattina un angelo s’accosta;
dice: fidati.
Stava seduto in una carrozzella
che trascinava a forza delle braccia
(non aveva le ali, gli angeli sulla terra non ne hanno)
e spingeva il suo peso
mentre invitava me a poggiare il mio
ma come può portarmi se non vola
struscia la terra e “fidati” mi dice
una parola grande quanto il vuoto
dove adesso ti trovi.
Per questo ti ho cercato:
tu mi riempi d’allontanamento
ma in certe condizioni a volte basta.”
Giovanni Baldaccini
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Mia madre

“Mia madre è seduta accanto a me dal dottore
Mia madre c’è e non c’è per davvero.
Le mancano pezzi.
Un giorno ha perso i denti,  poi l’udito.
Ha perso un seno, un polmone, i capelli.

Mia madre ha perso i treni i bottoni e sua madre
e l’infanzia.
Un giorno mia madre ha perso un figlio
(altri li ha lasciati andare).

Mia madre ha in tasca il suo nome
che un tempo contava vessilli.
ha un paese mia madre e una casa
che trabocca farfalle.
Mia madre ha tre uccelli che tiene legati alla vita
con cordoni di vario colore.
Se il vento si alza le sbattono addosso
in azzardo di volo.

Mia madre ha barrette di strass e volute di fumo
tra i capelli d’amianto. Mia madre ha una piega sul viso
e un lucchetto. Mia madre ha un dolore e un rosario.
Un ramo piantato sul collo e un loculo vuoto
tra suo padre e sua madre.

Mia madre ha tre figlie
e versi più belli dei miei.

Mia madre è allo specchio e mi guarda negli occhi.”

Lucilla Trapazzo, da “Ossidiana”

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Dinastia
“Mio nonno abbandonò la Polonia nel 1937, rifugiato dei cavalieri malvagi.
Mio padre abbandonò la Romania nel 1946,
rifugiato della guerra e del freddo.
Mia madre abbandonò l’Argentina nel 1961, rifugiata del grande amore.
E nell’anno 1982 mi obbligarono ad abbandonare PetaH Tikvá
per vivere in Finlandia, Grecia e Ungheria:
tacere nelle nevi, tremare nei terremoti
e condurmi per il Danubio verso il sipario dell’ inferno.
Accadde qualcosa prima di tutto questo, ma
ormai è troppo tardi per chiarire l’accaduto.
Nonostante si conoscano le ragioni
e comprendano i motivi
il viaggio frenetico continuerà.
Così è la sentenza:
schivare lo scontro
per gli effetti dell’obiezione,
sapere che un giorno cambieranno i governi e gli eserciti
e che la parola perdurerà per sempre –
perdurerà nel desiderio di bellezza,
si diluirà nella memoria del sentiero.
E non avrò un figlio, a Caino non nascerà un figlio.
Il semitico seme se ne va anonimamente per il mondo,
il suo corpo è la sua casa.”
Rami Saari (scrittore israeliano), da “Gvarìm Ba-Tzòmet”, (“Uomini al bivio”), 1991
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Rivelazione
“Mi sono risolto.
Mi sono voltato indietro.
Ho scorto
uno per uno negli occhi
i miei assassini.
Hanno
– tutti quanti – il mio volto.”
Giorgio Caproni, “Rivelazione””, da “Il franco cacciatore”, 1982
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Jean Boutillier, La somme rurale, miniature di Loyset Liédet, XV secolo
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So che nei cespugli ci sono le anime
“So che nei cespugli ci sono le anime
dei miei padri,
nel grano
c’è il dolore di mio padre
e nel grande bosco nero.
So che le loro vite, che sono estinte
ai nostri occhi,
hanno un rifugio nelle spighe
nella fronte azzurra del cielo di giugno.
So che i morti
sono gli alberi e i venti,
il muschio e la notte
che la sua ombra
posa sul mio tumulo.”
Thomas Bernhard, da “Auf der Erde und in der Hölle” (“Sulla terra e all’inferno”) 1957
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“Nelle voci
degli alberi vecchi
riconosco quelle dei miei avi.
Vigili da secoli.
Il loro sogno è nelle radici.”
Humberto Ak’abal (discendente della comunità maya k’iche’ di Momostenango, in Guatemala), da “Tessitore di parole”

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Henri Matisse, “Le due sorelle”, 1917

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In lode di mia sorella
“Mia sorella non scrive poesie,
né penso che si metterà a scrivere poesie.
Ha preso dalla madre, che non scriveva poesie,
e dal padre, che anche lui non scriveva poesie.
Sotto il tetto di mia sorella mi sento sicura:
suo marito mai e poi mai scriverebbe poesie.
E anche se tutto ciò suona ripetitivo come una litania,
nessuno dei miei parenti scrive poesie.
Nei suoi cassetti non ci sono vecchie poesie,
né ce n’è di recenti nella sua borsetta.
E quando mia sorella mi invita a pranzo,
so che non ha intenzione di leggermi poesie.
Fa minestre squisite senza secondi fini,
e il suo caffè non si rovescia su manoscritti.
In molte famiglie nessuno scrive poesie,
ma se accade – è raro che sia uno solo.
A volte la poesia scende a cascate per generazioni,
creando gorghi pericolosi nel mutuo sentire.
Mia sorella pratica una discreta prosa orale,
e tutta la sua opera scritta consiste in cartoline
il cui testo promette la stessa cosa ogni anno:
che al ritorno delle vacanze
tutto quanto
tutto
racconterà.”
Wisława Szymborska, “In lode di mia sorella”
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In Via degli Orsini
“Vedo sempre dall’alto
l’antico salotto e mia nonna seduta a cucire
davanti alla finestra.
C’è una luce che passa e
nel cortile
da basso
gloglotta la fontana.
Mi vedo accanto a lei
non il viso chinato sul panno
non la pelle in fiore
ma nuca piegata come stelo
le spalle sottili
e i capelli legati.
Vedo la scena dall’alto
come se la donna morta fossi io, non lei,
e incorporea si librasse al soffitto.
La memoria mi pone dentro e fuori la scena
doppio punto di vista su quella stanza
io e mia nonna in piedi
solo mansuetudine e ombre
e il breve scintillio di due aghi.”
Marina Colasanti (artista e scrittrice eritrea), da “Passageira em trânsito”, 2009 – Traduzione di Mia Lecomte
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Foto tratta dalla pagina FB “Un e avec toi”
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Immagine in evidenza: Nell Campos, “Ritratto di famiglia”

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