Linguaggi

La serenità dei fiori

27.12.2021

“Qual è la differenza tra “Mi piaci” e “Ti amo”?
Buddha risponde: quando ti piace un fiore, lo prendi. Quando ami un fiore lo innaffi tutto il giorno.
Chi comprende questo, capisce la vita.”

Buddha

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Fiori

 

“Che cosa sono i fiori?
non senti in loro come una vittoria?
la forza di chi torna
da un altro mondo e canta
la visione. L’aver visto qualcosa
che trasforma
per vicinanza, per adesione a una legge
che si impara cantando, si impara profumando.

Che cosa sono i fiori se non qualcosa d’amore
che da sotto la terra viene
fino alla mia mano
a fare la festa generosa.

Che cosa sono se non
leggere ombre a dire
che la bellezza non si incatena
ma viene gratis e poi scema, sfuma
e poi ritorna quando le pare.

Chi li ha pensati i fiori,
prima, prima dei fiori.”

 

Mariangela Gualtieri, da “So dare ferite perfette”, in “Mariangela Gualtieri, Senza polvere senza peso”

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Fiori
“Ottobre! Ottobre!
Ho una pietà profonda per quei rossi
Fiori che sono caduti.
La testolina recide alla rosa l’acciaio.
E tuttavia io l’acciaio non temo.
Fiori che camminate sulla terra!
Essi anche l’acciaio fanno più forbito,
Di acciaio varano vascelli,
Di acciaio fanno abitazioni.”
Sergej Aleksandrovic Esenin, “Fiori”
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Vincent van Gogh, Iris, 1889
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Il fiore

“Da dove verrà il fiore,
dove troverà vita?

Dalla mano che muove i baci nella terra
dalla guerra alla guerra
dall’uomo solo incantato da una luna.
Dalla cruna dell’ago dove passa una catena
dalla pena del seme tremante d’apertura.
Forse verrà da li, ma l’attesa è fatica inginocchiata
l’acqua trovata nella vena scura
allaga il sogno e nutre l’utopia
-che quella serve di direzione al dito-
solo se scorre chiara, senza fraintendimento
per cento, mille volte, e all’infinito
fino a quel giorno che succederà.”

Giorgia Satta

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Il fiore sul tetto

 

“Ieri non c’era. Or vive, tra due vecchi
embrici. Se per poco io m’arrischiassi
sovra il muretto del terrazzo, cogliere
lo potrei. Non ardisco. È troppo bello
così: troppo mi piace, erto sul gambo,
dalle muffe dei tegoli sgorgante
senza una fronda, ma col serto d’oro
d’un reuccio da fiaba. È un fior magato.
Il suo germe quassù lo portò il vento.
Il suo nome lo cantano le stelle.
Nulla sa delle selve e dei giardini
sparsi pel mondo: sta, fra tetti e cielo,
felice: al mondo unico fior si crede,
ed io l’amo per questo.
Io far di lui
voglio il mio dolce amico; e tutto dirgli
del mio cuore, e con lui ridere e piangere.
Con lui bagnarmi al lume della luna
che sugli embrici scorre come rivo
di freschissimo latte; abbrividire
alla carezza che li tinge in rosa
sul far dell’alba; immota al solleone
del meriggio sostar, che li trasforma
in colate di lava incandescenti;
gioir con i rondoni, che nel vespro
in giri e giri senza fine stridono
radendo i tetti con l’oblique penne,
e più stridon più impazzano, e d’un tratto
scompaiono, inghiottiti dalle prime
ombre. Con lui, sin che morrà. Sì breve
d’un fior la vita; e, ahimè! la mia sì lunga.
di freschissimo latte; abbrividire
alla carezza che li tinge in rosa
sul far dell’alba; immota al solleone
del meriggio sostar, che li trasforma
in colate di lava incandescenti;
gioir con i rondoni, che nel vespro
in giri e giri senza fine stridono
radendo i tetti con l’oblique penne,
e più stridon più impazzano, e d’un tratto
scompaiono, inghiottiti dalle prime
ombre. Con lui, sin che morrà. Sì breve
d’un fior la vita; e, ahimè! la mia sì lunga.”

 

Ada Negri, “Il fiore sul tetto”

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Fiorire

 

“Fiorire – è lo scopo – chi incontra un fiore
e lo guarda senza pensare
a malapena potrà sospettare
la circostanza minore

Partecipare alla faccenda della luce
così complicata
che poi al meriggio come una farfalla
viene donata –

Disporre il bocciolo – combattere il verme –
ottenere la giusta rugiada –
mitigare il calore – eludere il vento –
sfuggire all’ape furfante

Non deludere la grande Natura
che quel giorno l’attenderà –
essere un fiore, è una profonda
responsabilità –”

 

Emily Dickinson

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Vincent van Gogh, “Girasoli”, 1888, 

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Il girasole

 

“Portami il girasole ch’io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l’ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.”

 

Eugenio Montale, “Portami il girasole, da “Ossi di seppia” (1925)

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Narciso

 

“Narciso.
Il tuo odore.
E il fondo del fiume.
Voglio restare sulla tua riva
Fiore dell’amore.
Narciso.
Onde e pesci addormentati
passano nei tuoi bianchi occhi
nei miei, uccelli e farfalle
si stilizzano
Tu minuscolo e io grande.
Fiore dell’amore.
Narciso.
Le rane quanto sono scaltre
Ma non lasciano tranquillo
lo specchio in cui si guardano
il tuo delirio e il mio delirio.
Narciso.
Il mio dolore…
E mio dolore medesimo.”

Federico Garcìa Lorca, “Narciso”

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Narcisi

 

“Vagabondavo solo come una nuvola
Che alta fluttua su valli e colline,
Quando a un tratto vidi una folla,
Una schiera di dorati narcisi
Lungo il lago e sotto gli alberi
Una miriade ne danzava nella brezza.

Fitti come le stelle che brillano
E sfavillano sulla Via Lattea,
Così si stendevano in una linea infinita
Lungo le rive di una baia.
Una miriade ne colse il mio sguardo
I fiori si lanciarono in una danza gioiosa

Lì presso danzavano le onde scintillanti,
Superate in letizia dai narcisi;
Un poeta non poteva che esser lieto
In così ridente compagnia.
Mirando e rimirando, pensai poco
Al bene che la vista mi recava:

Spesso quando me ne sto disteso,
Senza pensieri, o pensieroso,
Essi balenano al mio occhio interiore
Che rende la solitudine beata.
E allora il mio cuore si riempie di piacere,
e danza con i narcisi.”

 

William Wordsworth 

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Foto dal web

 

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Rosa

 

“Rosa della grammatica latina
che forse odori ancor nel mio pensiero
tu sei come l’immagine del vero
alterata dal vetro che s’incrina.

Fosti la prima tu che al mio furtivo
tempo insegnasti la tua lingua morta
e mi fioristi gracile e contorta
per un dativo od un accusativo.

Eri un principio tu: ma che ti valse
lungo il cammino il tuo mesto richiamo?
Or ti rivedo e ti ricordo e t’amo
perché hai la grazia delle cose false.

Anche un fior falso odora, anche il bel fiore
di seta o cera o di carta velina,
rosa della grammatica latina:
odora d’ombra, di fede, d’amore.

Tu sei più vecchia e sei più falsa, e odori
d’adolescenza e sembri viva e fresca,
tanto che dotta e quasi pedantesca
sai perché t’amo e non mi sprezzi o fori.

Passaron gli anni: un tempo di mia vita.
Avvizzirono i fior del mio giardino.
Ma tu, sempre fedele al tuo latino,
tu sola, o rosa, non sei più sfiorita.

Nel libro la tua pagina è strappata,
strappato il libro e chiusa la mia scuola,
ma tu rivivi nella mia parola
come nel giorno in cui t’ho “declinata”.

E vedo e ascolto: il precettore in posa,
la vecchia Europa appesa alla parete
e la mia stessa voce che ripete
sul desiderio di non so che cosa:

Rosa, la rosa
Rosae, della rosa…”

 

Marino Moretti, “Elogio di una rosa”

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Ambrosius Bosschaert il Vecchio, “Natura morta con fiori”, 1614

 

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Il papavero rosso

“Il papavero rosso
Il massimo
è non avere
mente. Sentimenti:
oh, quelli ne ho; mi
governano. Ho
un signore in cielo
che si chiama sole, e mi apro
per lui, mostrandogli
il fuoco del mio cuore, fuoco
come la sua presenza.
Che altro può essere una simile gloria
se non un cuore? Oh, sorelle e fratelli,
eravate come me una volta, tanto tempo fa,
prima di essere umani? Vi concedeste di aprirvi
una volta per poi non aprirvi
mai più? Perché in verità
adesso io sto parlando
come voi. Io parlo
perché sono distrutta.”
Louise Glück, “Il papavero rosso”, da “The wild iris”, 1992
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Il saggio
“Ero perso con lo sguardo verso il mare
ero perso con lo sguardo nell’orizzonte
tutto e  tutto appariva come  uguale
poi ho scoperto una rosa in un angolo  di  mondo,
ho scoperto i suoi colori e la sua disperazione
di  essere imprigionata fra  le  spine
non l’ho colta ma l’ho protetta con  le mie mani,
non l’ho colta ma con lei ho condiviso  il profumo
e le spine, tutte quante.”
Hafez (Khāje Shams o-Dīn Moḥammad Ḥāfeẓ-e Shīrāzī), poeta e mistico persiano del Trecento, “Il saggio”
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Rose, io lavo le rose

“Rose, io lavo le rose
pulisco le scale, osservo ragnatele
fino a che il ricamo catturi
una mosca

Ombre, io curo le ombre
porto il the a chi dorme per strada
aiuto le donne a portare la spesa
assisto i gatti nella neve d’inverno

Interstizi, io mi occupo di angoli
di spazi lasciati mezzi vuoti e mezzi pieni
senza sguardi, senza speranza
come la mente di certi migranti
che inseguono un nome, un paese, un soggiorno
e rimangono lì, nello spazio sospeso
tra un pensiero, una parola,
un abbraccio che tarda

Rose, io lavo le rose
pulisco le anime, osservo pensieri
fino a che la vita rilasci
Fortuna”

Lino di Gianni, “Rose, io lavo le rose”

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Oggi ho inventato

“Oggi ho inventato
Che Lei
era con me
al mercato
c’erano tanti fiori
avevamo gli occhi
di tutti i colori.”
Vivian Lamarque
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Io inventerò per te la rosa

 

“Quando tutte insieme le parole del mondo ti avrò dato
Tutte le foreste d’America e tutte le messi notturne del cielo
Quando ti avrò dato ciò che brilla e ciò che l’occhio non può vedere
Tutto il fuoco della terra come una coppa di lacrime
Il seme maschile delle specie diluviane
E la mano di un bambino
Quando ti avrò dato il caleidoscopio dei dolori
Il cuore in croce le membra spezzate
L’arazzo immenso delle genti torturate
Gli scorticati vivi sul palco del supplizio
Il cimitero sventrato degli amori sconosciuti
Tutto ciò che trasportano le acque sotterranee e le vie lattee
La grande stella del piacere nell’infermo più miserabile
Quando ti avrò dipinto questo vago paesaggio
In cui le coppie si fanno fotografare alle fiere
Pianto i venti per te cantano fino a spezzarmi le corde
La messa nera dell’Adorazione perpetua
Maledetto il mio corpo e maledetta la mia anima
Bestemmiato l’avvenire e bandito il passato
Fatto di tutti i singhiozzi un carillon
Che dimenticherai nell’armadio
Quando non vi saranno più usignoli negli alberi a furia di lanciarli ai tuoi piedi
Quando non vi saranno più metafore in una mente folle per fartene un fermacarte
Quando sarai sfinita dal culto mostruoso che ti tributo
Quando non avrò più voce né ventre né volto e piedi e mani non avran più spazio per i chiodi
Quando tutti i verbi umani avranno infranto nelle mie dita il loro vetro
E la mia lingua e il mio inchiostro saranno inariditi come una stazione sperimentale per razzi interplanetari
E i mari non si saranno lasciati dietro che il candore accecante del sale
Così che il sole abbia sete e la luce oscilli su quel pavimento di cristallo
Lo scisto spento il firmamento amorfo e l’essere per sempre spossato dalle mutazioni

Io inventerò per te la rosa”

Louis Aragon, “Io inventerò per te la rosa”
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Foto di Sonia Simbolo
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Il giglio
“Con la solitudine arrivi, giglio…
No, arrivo con la primavera.
La tristezza ti fa compagnia, giglio…
No, il candore mi circonda.
Nasci dalla notte, giglio…No, del sole sono pieno.
Tu versi lacrime, giglio…No, è rugiada di stelle.
Guarda il mondo, giglio…Ahi, adesso sì sento dolore!”
Pedro Enriquez – Traduzione di Valentina Meloni
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Georgia O’ Keeffe
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I tulipani
“I tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno.
Guarda com’è tutto bianco, quieto, coperto di neve.
Sto imparando la pace, distesa quietamente, sola,
come la luce posa su queste pareti bianche, questo letto, queste mani.
Non sono nessuno; non ho nulla a che fare con le esplosioni.
Ho consegnato il mio nome e i miei vestiti alle infermiere,
la mia storia all’anestesista e il mio corpo ai chirurghi.
Mi hanno sistemato la testa fra il cuscino e il risvolto del lenzuolo
come un occhio fra due palpebre bianche che non vogliono chiudersi.
Stupida pupilla, deve assorbire tutto.
Le infermiere passano e ripassano, non danno disturbo,
passano come gabbiani diretti nell’interno, in cuffia bianca,
le mani affaccendate, ciascuna identica all’altra,
sicché è impossibile dire quante sono.
Il mio corpo è un ciottolo per loro, lo accudiscono come l’acqua
accudisce i ciottoli su cui deve scorrere, lisciandoli piano.
Mi portano il torpore nei loro aghi lucenti, mi portano il sonno.
Ora che ho perso me stessa, sono stanca di bagagli —
la mia ventiquattrore di vernice come un portapillole nero,
mio marito e mia figlia che sorridono dalla foto di famiglia;
i loro sorrisi mi si agganciano alla pelle, ami sorridenti.
Ho lasciato scivolar via le cose, cargo di trent’anni
ostinatamente attaccata al mio nome e al mio indirizzo.
Con l’ovatta mi hanno ripulito dei miei legami affettivi.
Impaurita e nuda sulla barella col cuscino di plastica verde
ho visto il mio servizio da tè, i cassettoni della biancheria, i miei libri
affondare e sparire, e l’acqua mi ha sommerso.
Sono una suora, adesso, non sono mai stata così pura.
Io non volevo fiori, volevo solamente
giacere con le palme arrovesciate ed essere vuota, vuota.
Come si è liberi, non ti immagini quanto—
È una pace così grande che ti stordisce,
e non chiede nulla, una targhetta col nome, poche cose.
È a questo che si accostano i morti alla fine; li immagino
chiudervi sopra la bocca come un’ostia della Comunione.
Sono troppo rossi anzitutto, questi tulipani, mi fanno male.
Li sentivo respirare già attraverso la carta, un respiro
sommesso, attraverso le fasce bianche, come un neonato spaventoso.
Il loro rosso parla alla mia ferita, vi corrisponde.
Sono subdoli: sembrano galleggiare, e invece sono un peso,
mi agitano con le loro lingue improvvise e il loro colore,
dodici rossi piombi intorno al collo.
Nessuno mi osservava prima, ora sono osservata.
I tulipani si volgono a me, e dietro a me alla finestra,
ove una volta al giorno la luce si allarga lenta e lenta si assottiglia,
e io mi vedo, piatta, ridicola, un’ombra di carta ritagliata
tra l’occhio del sole e gli occhi dei tulipani,
e non ho volto, ho voluto cancellarmi.
I vividi tulipani mangiano il mio ossigeno.
Prima del loro arrivo l’aria era calma,
andava e veniva, un respiro dopo l’altro, senza dar fastidio.
Poi i tulipani l’hanno riempita come un frastuono.
Ora s’impiglia e vortica intorno a loro così come un fiume
s’impiglia e vortica intorno a un motore affondato rosso di ruggine.
Concentrano la mia attenzione, che era felice
di vagare e riposare senza farsi coinvolgere.
Anche le pareti sembrano riscaldarsi.
I tulipani dovrebbero essere in gabbia come animali pericolosi,
si aprono come la bocca di un grande felino africano,
e io mi accorgo del mio cuore, che apre e chiude
la sua coppa di fiori rossi per l’amore che mi porta.
L’acqua che sento sulla lingua è calda e salata, come il mare,
e viene da un Paese lontano quanto la salute.”
Sylvia Plath, “I tulipani”, 18 marzo 1961, da “Ariel”
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Ciò che provo per te è così difficile
(A Manuel Claps)
“Ciò che provo per te è così difficile.
Non è di rose che si aprono nell’aria,
è di rose che si aprono nell’acqua.
Ciò che provo per te. Che prende slancio
o si spezza con tuoi gesti
o con le tue parole fatte a pezzi
e che poi riprendi in un gesto
e mi invade nelle ore gialle
e mi lascia una sete dolce e domata.
Ciò che provo per te, così doloroso
come la povera luce delle stelle
che ci arriva dolorante, affaticata.
Ciò che provo per te, che a volte tuttavia
fa tanta strada poi sfiorarti.”
1942
Idea Vilariño, da “Di rose che si aprono nell’acqua”
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Immagine dal web
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Foto tratta dalla pagina Facebook “Restaurars”: I fiori di Édouard Manet

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