Pensieri

Le divertissement

04.01.2022

[168] Noi non teniamo mai al tempo presente. Noi anticipiamo l’avvenire come fosse troppo lento a venire, come per affrettare il suo corso, oppure richiamiamo il passato, come per arrestarlo, come fosse troppo fugace. Così imprudenti, che erriamo in tempi che non sono i nostri, e non pensiamo per nulla al solo che ci appartiene; e così vani che pensiamo a quei tempi che non sono nulla, e sfuggiamo senza riflettere il solo che sussiste. È che il presente, ordinariamente, ci ferisce. Noi lo nascondiamo alla nostra vista, poiché esso ci affligge. E, se ci è gradevole, noi rimpiangiamo di vederlo sfuggire. Cerchiamo di sostenerlo con l’avvenire, e crediamo di disporre quelle cose che non sono affatto in nostro potere, per un tempo al quale non abbiamo alcuna certezza d’arrivare. Che ciascuno esamini i propri pensieri, egli li troverà tutti occupati dal passato oppure dall’avvenire. Noi non pensiamo affatto al presente; e, se ci pensiamo, non è che per avere lumi per disporre dell’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine: il passato e il presente sono i nostri mezzi, e solo l’avvenire è il nostro fine. Così noi non viviamo mai, ma speriamo di vivere; e, predisponendoci sempre ad essere felici, è inevitabile che non lo siamo mai.

[205] Divertimento. A Quando mi ci sono messo qualche volta, a considerare le diverse agitazioni degli uomini, e i pericoli e le pene cui si espongono, nella Corte, nella guerra, dove nascono tante dispute, tante passioni, tante imprese ardite e spesso malvagie, ecc. ho scoperto che ogni infelicità degli uomini viene da una sola cosa, dal non sapersene stare in pace, in una camera. Un uomo che ha abbastanza bene per vivere, se sapesse rimanere a casa sua con piacere, non ne uscirebbe per andare per mare o ad assediare una piazzaforte. Non si comprerebbe una carica nell’esercito a così caro prezzo, se non si trovasse insopportabile di non muoversi dalla città; e non si cercherebbero le conversazioni o il divertimento dei giochi se si riuscisse a restare a casa propria con piacere. Ma quando ho ponderato la cosa più a fondo, e dopo aver trovato la causa di tutti i nostri mali, ho voluto scoprirne la ragione, e ho trovato che ce n’è una molto effettiva, che consiste nell’infelicità naturale della nostra condizione debole e mortale, e così miserabile, che nulla può consolarci, quando noi ci pensiamo seriamente. Qualunque condizione ci si immagini, se si sommano tutti i beni che possono appartenerci, la regalità è la più bella condizione del mondo; e tuttavia si immagini un re, circondato di tutte le soddisfazioni che possono toccargli, senza divertimento; e, se lo si lascia riflettere su ciò che è, questa effimera felicità non lo sorreggerà, egli cadrà necessariamente nelle visioni che lo minacciano, le rivolte che possono scoppiare, e, infine, la morte e le malattie, che sono inevitabili; di modo che, se egli è senza ciò che si chiama divertimento, eccolo infelice, e più infelice del più infimo dei suoi sudditi, che gioca e si diverte.
Da ciò deriva che il gioco e la conversazione delle donne, la guerra, gli alti uffici, sono così ricercati. Non è che ci sia effettivamente della felicità, né che ci si immagini che la vera beatitudine sia di avere il denaro che si può guadagnare al gioco, o nella lepre che si insegue: cose che non si vorrebbero se ci fossero offerte. Non è questo uso molle e piacevole, e che ci lascerebbe modo di pensare alla nostra infelice condizione, che si cerca, né i pericoli della guerra, né i fastidi degli uffici, ma il trambusto che ci distoglie dal pensarvi, e ci diverte. Da ciò viene che agli uomini piacciono tanto il fracasso e il trambusto; da ciò deriva che la prigione è un supplizio così orribile; da ciò deriva che il piacere della solitudine è un piacere incomprensibile. Ed è infine il più grande elemento di felicità della condizione di re, che la gente s’industria senza posa a divertirli ed a procurar loro ogni tipo di piaceri. Il re è circondato di persone che non pensano che a divertire il re, e a impedirgli di pensare a se stesso. Infatti diventa infelice, per quanto sia re, se vi pensa. Ecco tutto ciò che gli uomini hanno
potuto inventare per rendersi felici. E coloro che su tale argomento fanno i filosofi, e credono che la gente sia ben poco ragionevole a passare tutto il giorno a correre attorno a una lepre che essi non vorrebbero, se acquistata, non conoscono affatto la nostra natura. Quella lepre non ci garantisce dalla vista della morte e della miseria, ma la caccia – che ce ne distoglie – ce ne garantisce.
E così, quando si rimprovera che ciò che essi cercano con tanto ardore non potrebbe soddisfarli, se rispondessero, come dovrebbero fare se pensassero bene, che essi non cercano in ciò che una occupazione violenta ed impetuosa che li distragga dal pensare a se stessi, ed è perciò che si propongono un oggetto attraente che li affascini e li attiri con ardore, lascerebbero i loro avversari senza possibilità di replicare. Ma non rispondono così perché non conoscono se stessi. Essi non sanno che è solo la caccia, e non la preda, quello che cercano.
Essi immaginano che, se avessero ottenuto tale carica, dopo si riposerebbero con piacere, e non avvertono la natura insaziabile della loro cupidigia. Credono di cercare sinceramente il riposo, e non cercano in effetti che l’agitazione. Hanno un istinto segreto che li porta a cercare il divertimento e l’occupazione fuori di sé, che nasce dal risentimento delle loro continue miserie; ed hanno un altro istinto segreto, che resta della grandezza della nostra prima natura, che fa conoscere loro che la felicità non è in effetti che nel riposo, e non nell’agitazione; e da questi due istinti contrari, si forma in essi un progetto confuso che si nasconde alla loro vista nel fondo della loro anima, che li porta a tendere al riposo attraverso l’agitazione, e ad immaginarsi sempre che la soddisfazione che non hanno giungerà senz’altro, se, superando qualche difficoltà che hanno preso in considerazione, possono aprirsi attraverso di essa la porta al riposo.
Così scorre tutta la vita. Si cerca il riposo combattendo qualche ostacolo; e se li si è superati, il riposo diviene insopportabile, M poiché o si pensa alle miserie che si hanno o a quelle che ci minacciano. E quando ci si vedesse anche abbastanza al sicuro da tutte le parti, la noia, di sua propria iniziativa (de son autorité privée), non tralascerebbe di uscire dal fondo del cuore, dove ha radici naturali, e di riempire l’animo del suo veleno.  Così l’uomo è tanto infelice, che si annoierebbe anche senza alcun motivo di noia, in ragione della natura della sua indole; ed è così vanitoso, che essendo pieno di mille cause essenziali di noia, la più piccola cosa, come un biliardo e una palla da spingere, sono sufficienti per divertirlo.
Ma, direte voi, che scopo c’è in tutto questo? Quello di vantarsi domani tra i suoi amici del fatto che egli ha giocato meglio di un altro. Così, gli altri sono nel loro gabinetto per mostrare ai sapienti che hanno risolto una questione di algebra che non si sarebbe potuta trovare sin qui; e tanti altri si espongono ai più estremi pericoli per poi vantarsi dopo di una piazzaforte che hanno espugnato, e altrettanto scioccamente, a mio avviso; e infine gli altri si ammazzano di fatica per far notare tutte queste cose, non per diventare più saggi, ma solamente per mostrare che essi le sanno, ed essi sono i più sciocchi di tutti (et ceux-là sont les plus sots de la bande), poiché sanno di esserlo, mentre si può pensare degli altri che essi non lo sarebbero più, se lo sapessero.
Un tale uomo passa la propria vita senza noia, giocando ogni giorno un po’ di denaro. Dategli tutte le mattine il denaro che egli può guadagnare ogni giorno, a patto che non giochi più: lo rendereste infelice. Si dirà forse che egli cerca il diletto del gioco, e non il guadagno. Fatelo dunque giocare per nulla, non ci prenderà gusto e si annoierà. Non è dunque solo il diletto ciò che cerca: uno svago fiacco e senza passione lo annoierà. Occorre che egli si ecciti e inganni se stesso, immaginandosi che sarebbe felice di vincere quello che gli fosse donato a condizione di non giocare più, e questo per avere un oggetto cui aspirare con passione, e che ecciti il suo desiderio, la sua collera, il suo timore, per l’oggetto che si è formato, come i bambini che si spaventano del viso che loro stessi si sono imbrattati.
Come mai quest’uomo, che ha perduto da poco più di un mese il suo figlio unico, e che, oppresso da processi e da citazioni, era questo mattino così turbato, non ci pensa più adesso? Non stupitevene affatto: egli è tutto occupato a vedere per dove passerà quel cinghiale, che i suoi cani  inseguono con tanto ardore da sei ore. È abbastanza. L’uomo, per quanto sia pieno di tristezza, se si riesce a ottenere di farlo entrare in qualche divertimento, eccolo felice durante quel tempo; e l’uomo, per quanto sia felice, se non è divertito e occupato da qualche passione o da qualche svago che impedisce alla noia di pervaderlo, sarà ben presto malinconico e infelice.
Senza divertimento non c’è gioia, con il divertimento non c’è tristezza. Ed è appunto questo che forma la felicità delle persone di grande condizione, che hanno una gran quantità di gente che li distrae e che hanno la facoltà di mantenersi in questo stato. Fate attenzione. Cosa significa essere sovrintendente, cancelliere, primo presidente, se non trovarsi nella condizione in cui si ha dal mattino un gran numero di gente che viene da tutti le parti, non lasciando un’ora nella giornata in cui si possa pensare a se stessi? E quando cadono in disgrazia e li si rimanda alle loro case dei campi, dove essi non mancano né di beni, né di domestici per assisterli nei loro bisogni, essi non cessano di essere miserabili e abbandonati, poiché nessuno impedisce loro di pensare a se stessi.”

Blaise Pascal, da “Pensieri”

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Nell’immagine: Granger, “Blaise Pascal”, 2016

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