Pensieri

Riflessioni sulla scaltrezza del coronavirus

05.01.2022

“Ma tu come stai?”. “Malissimo”. “… cioè?”. “Ho il Coronavirus”. “?! … Nooo…”. Così, oggi, con uno scarno scambio di messaggi si viene a sapere che un vicino, un parente o, come nel mio caso, una carissima collega, è rimasto impigliato nel contagio.
Questo virus è stato fatto oggetto degli epiteti più svariati: bastardo, infido, subdolo, maledetto – ma l’aggettivo usato da lei, che purtroppo se l’è preso, mi sembra il più appropriato: “è scaltro”, dice.
“Scaltro” – certo una definizione che dovrebbe dar da pensare. Se questo virus è non solo ostinatamente malefico, ma esibisce una sua furbizia, una scaltrezza addirittura, beh, allora è evidente che per fermarlo non sarà sufficiente una sia pur volenterosa “intelligenza”, di qualunque genere essa sia.
La domanda su cosa ci voglia “di più” è proprio quella che ci pone il virus. È per questo che credo sia venuto il momento di chiedersi quali siano le ricadute di questa pandemia non solo sulla salute, sull’economia, sull’ambiente o sulla psicologia sociale, ma veramente a livello filosofico.

UN VIRUS COMPETENTE

Per prima cosa, è del tutto chiaro che questo virus è competente: non solo nel senso che pare proprio saperla lunga, ma nel senso che ci compete, sta all’altezza dei nostri tempi e ci costringe a ridisegnare le nostre categorie storico-temporali. Non voglio nemmeno soffermarmi sui paragoni bellici, per cui l’epidemia è stata trattata da certi reporter mediali come una “guerra” (il che è già di per sé è una notevole prova di ottusità), ma in queste settimane si è sentito spesso accostare questa epidemia alla peste del Trecento, o al vaiolo che distrusse le civiltà precolombiane, e persino all’AIDS di fine Novecento. Paragoni del tutto fuorvianti, dato che ciascuna di quelle epidemie si collocava esattamente all’interno del paradigma socio-culturale in cui emergeva: flagello di Dio nel Medioevo cristiano, fine del mondo per le civiltà sudamericane, punizione della promiscuità nell’America ostinatamente puritana del reaganismo. Ma, in pieno XXI secolo, noi apparteniamo a una civiltà ipertecnologica, abbiamo inventato l’Internet delle cose, il Forex Exchange e persino le criptovalute, dunque, che razza di malattia ci aspettavamo? Una comunissima peste? Eh, no. Il COVID-19 ha la stessa consistenza dell’astuto Pacific Trash Vortex, l’immenso conglomerato di plastica che, lungi dall’essere un mucchio di spazzatura, è una poltiglia insidiosissima, perché invisibile persino dai satelliti, dato che sta a pelo d’acqua, e mostra – proprio come il virus – una consistenza variabile, instabile, mutagena: criptica, appunto.

LA CONNECTOGRAFIA

Per seconda cosa, questo virus ci sta costringendo a ridisegnare il nostro modo di concepire lo spazio, in tutti i sensi del termine. Il Coronavirus, che è capace di colpire con sospetta imparzialità anziani indeboliti, ma anche bimbi innocenti, sindaci, viceministri, magistrati, lombardi e pugliesi, a volte passando inosservato, altre volte uccidendo, scompagina le categorie e ridisegna i confini. L’osservazione che si tratta di un effetto collaterale della globalizzazione è non solo ovvia, ma al limite ingannevole: di fronte a questo scenario stratificato, tridimensionale, onnicangiante, il termine “globale” rischia di passare per un infelice eufemismo. Appesi ai muri delle nostre aule ci sono ancora planisferi disegnati mezzo secolo fa: ma oggi, invece della geografia, dovremmo studiare quella dimensione interconnettiva di cui i grafi della cosiddetta “connectografia” iniziano a offrire un’idea un po’ meno pallida (e per capirlo basta dare una scorsa al saggio omonimo di Parag Khanna, Connectography, tradotto da Fazi nel 2016). Ma anche la connectography, senza una seria analisi del rapporto dialettico tra lo spazio virtuale e l’estensione “reale”, è del tutto insufficiente – cosa che il virus (che, come è stato giustamente notato, è anche inestricabilmente legato alla percezione che di esso offre l’infosfera) ha puntualmente messo in luce.

UNA DOMANDA FILOSOFICA

Ma soprattutto, per terza e ultima cosa, questo virus solleva una domanda filosofica semplicemente fondamentale. Ci spinge a domandarci se la concezione di numerosi filosofi, da Platone a Spinoza, da Nāgārjuna a Kant e Hegel, sia stata solo un abbaglio o significhi qualcosa. Se si esaminano questi sistemi di pensiero, infatti, non si può fare a meno di notare che essi propongono, al di là del livello intellettuale, e anche di quello strettamente “razionale”, un terzo “piano”, il quale, che si chiami dianoia, Geist, śūnyatā o amor Dei, manifesta il comune tratto di riassumere e “sublare” i due livelli precedenti.
Ora, con la sua micidiale “astuzia”, il virus dimostra sfrontatamente di non lasciarsi “battere” non solo da una semplice “intelligenza” (tantomeno artificiale), ma neppure da nessun provvedimento che sia solo semplicemente “ragionevole” – anzi, evidenzia la patetica inadeguatezza di questo tipo di “ragionevolezza”. Per questo, proprio lui ci pone un interrogativo fatale, cioè se non sia il caso di rivalutare quel “terzo livello” mentale, finora oggettivamente trascurato.

IL RUOLO DELL’ARTE

E l’arte, in tutto questo? Sarebbe forse lei la portatrice di questo sapere ultra-razionale? La domanda non è oziosa, se si pensa all’enorme potenziale concettuale dell’arte contemporanea – ma un virus come questo, capace di spostare fiere internazionali, cancellare kermesse ultrachic, chiudere musei e gallerie, la mette di fronte a un bivio. O si rivelerà capace di pensare davvero scenari inediti di semiosi “spirituale”, oppure, come sembra stia perlopiù facendo, può legarsi al vetusto universo dell’imprenditoria novecentesca e alle sue superfetazioni segniche (moda, capitalismo culturale ecc.) – e poi, stringendosi bene il cappio al collo, scegliersi un punto profondo nel fiume degli eventi che verranno.

Marco Senaldi, “L’astuzia della (s)ragione. Riflessioni sulla scaltrezza del Coronavirus”

(Marco Senaldi: filosofo, teorico d’arte contemporanea, docente di estetica)

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