Affabulazioni

Piccoli gioielli de “Il libro degli abbracci”

07.01.2022

Il mondo 

 

A un uomo del villaggio di Neguá, sulle coste della Colombia, accadde di salire fino in cielo.
Al suo ritorno, raccontò. Disse che di lassù era stato a guardare la vita degli uomini. Disse che siamo un mare di fuocherelli.
«Il mondo è fatto così», rivelò. «Un mucchio di gente, un mare di fuocherelli.»
Ogni persona brilla di luce propria in mezzo a tutte le altre. Non esistono due fuochi uguali. Ci sono fuochi grandi e fuochi piccoli e fuochi di tutti i colori. C’è gente di fuoco sereno, che non si cura del vento, e gente di fuoco pazzo, che riempie l’aria di faville. Certi fuochi, fuochi sciocchi, non fanno lume né bruciano. Ma altri ardono la vita con tanta passione che non si può guardarli senza strizzare gli occhi; e chi si avvicina va in fiamme.

 

L’origine del mondo

Erano passati pochi anni dalla fine della guerra di Spagna, e la croce e la spada regnavano sopra le rovine della Repubblica. Uno dei vinti, un operaio anarchico appena uscito di carcere, cercava lavoro. Ma invano sconfondeva cielo e terra. Non c’era lavoro per i rossi. Chi non lo accoglieva a muso duro si stringeva nelle spalle o si voltava di là. Nessuno lo capiva, nessuno lo ascoltava. L’unico amico che gli restava era il vino. Tutte le sere, davanti al piatto vuoto, sopportava senza dir nulla i rimproveri della moglie bigotta, donna di una messa al giorno, intanto che il figlio, un bambino, gli recitava il catechismo.

L’ho saputo, molto tempo dopo, da Josep Verdura, il figlio di quell’operaio maledetto. Me lo raccontò a Barcellona, dove ero giunto in esilio. Mi raccontò. Lui era un bimbo disperato che voleva salvare il padre dalla dannazione eterna, e quell’ateo, quel cocciuto, non voleva sentire ragioni.

«Ma babbo», gli disse Josep, piangente. «Se Dio non esiste, chi ha creato il mondo?»  «Stupido», rispose l’operaio a testa bassa, come chi confida un segreto. «Stupido. Il mondo lo abbiamo fatto noi, noi muratori.»

 

La funzione dell’arte

 

“Diego non conosceva il mare. Suo padre, Santiago Kovadloff, lo condusse a scoprirlo. Se ne andarono a sud. Il mare stava al di là delle alte dune, in attesa. Quando padre e figlio, dopo un lungo cammino, raggiunsero finalmente quei culmini di sabbia, il mare esplose davanti ai loro occhi. E fu tanta l’immensità del mare, e tanto il suo fulgore, che il bimbo restò muto di bellezza. E quando alla fine riuscì a parlare, tremando, balbettando, chiese a suo padre: Aiutami a guardare!”

 

La burocrazia /1

 

In piena dittatura militare, verso la metà del 1973, un prigioniero politico uruguayano, Juan José Noueched, fu messo in punizione per la durata di cinque giorni: cinque giorni senza visite e senza ora d’aria, cinque giorni senza niente, per aver violato il regolamento. Secondo il punto di vista del capitano che gli aveva affibbiato la punizione, il regolamento non lasciava adito a dubbi. Il regolamento stabiliva chiaramente che i detenuti dovevano camminare in fila indiana, con tutte e due le mani sulle spalle di quello davanti. Noueched era stato punito per aver messo sulle spalle del compagno una mano sola.

Noueched era monco. Era stato catturato in due volte. Prima il suo braccio. Poi lui. Il braccio lo avevano acciuffato a Montevideo. Noueched stava fuggendo di gran corsa, col fiato in gola, quando il poliziotto che l’inseguiva riuscì ad agguantarlo e appioppandogli un ceffone gli urlò: «Sei in arresto!» E si trovò col braccio in mano. Quello che rimaneva di Noueched fu preso un anno e mezzo dopo, a Paysandú.

Una volta in carcere, Noueched ebbe in animo di rientrare in possesso del suo braccio.

«Faccia un’istanza», gli dissero.

Lui dichiarò che non aveva una matita.

«Faccia istanza per una matita», gli dissero.

Così ottenne una matita. Ma gli mancava la carta.

«Faccia un’istanza per la carta.»

Quando alla fine ebbe carta e matita, fece istanza per riavere il braccio.

A tempo debito, gliela respinsero. La cosa non era possibile: il braccio si trovava in un altro incartamento. Lui era stato condannato da un tribunale militare, Lui da uno civile.

 

La burocrazia / 2
Tito Sclavo ha avuto modo di esaminare e trascrivere alcuni rapporti dai registri della prigione uruguayana chiamata Libertà, negli anni della dittatura militare. I verbali riguardano le punizioni: si commina la cella d’isolamento ai detenuti colpevoli di aver disegnato uccelli o coppie, o donne incinte, o che sono stati sorpresi con un asciugamano a fiori. Un prigioniero, rapato a zero come tutti gli altri, venne punito perché entrava spettinato nel refettorio. Un altro, perché infilava la testa sotto la porta, quando sotto la porta c’era una fessura di un millimetro. Si beccò l’isolamento un detenuto che cercava di addestrare un cane da guerra, e un altro che insultava un cane facente parte delle Forze Armate. Un altro fu punito perché abbaiava come un cane senza giustificato motivo.

La burocrazia / 3

 

Sixto Martínez ha fatto il servizio militare in una caserma di Siviglia.

Al centro del cortile c’era una panchina. Vicino alla panchina stava sempre un soldato a montare la guardia. Nessuno sapeva perché si faceva la guardia alla panchina. Si faceva perché si faceva, e basta: giorno e notte, tutti i giorni e tutte le notti. L’ordine degli ufficiali si trasmetteva di generazione in generazione, e i soldati obbedivano. A nessuno venne mai un dubbio. Mai una domanda. Se si faceva così, come si era sempre fatto, un motivo doveva esserci.

E la faccenda continuava così finché a qualcuno, forse un generale, o un colonnello, venne in mente di andare a vedere qual era l’ordine originario. Ci fu da mettere sottosopra gli archivi, ma a forza di rimestare, alla fine si seppe. Facevano trentun anni, due mesi e quattro giorni da quando un ufficiale aveva piazzato un soldato di guardia alla panchina perché a nessuno capitasse di mettersi a sedere sulla vernice fresca.

 

Notte di Natale

Fernando Silva dirige l’ospedale pediatrico di Managua. Una vigilia di Natale rimase a lavorare fino a tardi. Si sentivano già gli scoppi dei razzi, e i lampi dei fuochi d’artificio illuminavano il cielo, quando Fernando si decise ad andarsene a casa, dove lo aspettavano per la festa.

Mentre stava facendo un ultimo giro attraverso le corsie per vedere se tutto era in ordine, sentì d’un tratto un lieve rumore di passi alle spalle. Passettini di bambagia. Si volse, e vide uno dei piccoli pazienti che lo seguiva. Nella penombra, lo riconobbe, era un bambino che non aveva nessuno. Fernando riconobbe quel viso già segnato dalla morte e gli occhi che chiedevano scusa, o forse chiedevano permesso.

Fernando gli andò vicino e il bimbo lo sfiorò con la mano:

«Diglielo…» sussurrò. «Di’ a qualcuno che io sono qui.»

 

I nessuno

 

Le pulci sognano di comprarsi un cane, e i nessuno di smarrire la miseria: sognano un giorno magico che piova d’improvviso la fortuna, che la fortuna piova a catinelle. Ma la fortuna non piove mai, né ieri, né oggi, né domani, nemmeno a goccioline, per tanto che la invochino i nessuno, o gli pruda la mano sinistra, o scendano il letto col piede destro, o comincino l’anno nuovo rinnovando la scopa.

I nulla: figli di nulla, padroni di nulla.

I nessuno: i niente, gli annientati, i senza fiato, morti di vita, fottuti, fottutissimi.

Quelli che ci sono senza essere.

Che non parlano lingue, ma dialetti.

Che non professano religioni, ma superstizioni.

Che non fanno arte, ma artigianato.

Che non hanno una cultura, ma un folklore.

Che non sono esseri umani, ma espedienti umani.

Braccia senza volto.

Numeri senza nome, che non figurano nella storia universale, ma nella cronaca nera della stampa locale.

I nessuno, che costano meno della pallottola che li uccide.

 

I numerini e la gente 

 

Dov’è che pagano il reddito medio pro capite? C’è più di un morto di fame che vorrebbe saperlo.

Dalle nostre parti, i numerini hanno miglior fortuna delle persone. Quanti se la passano bene quando va bene l’economia? Quanti ne sviluppa lo sviluppo?

A Cuba, la rivoluzione trionfò nell’anno di maggior prosperità di tutta la storia economica isolana.

In America Centrale, più la gente era fottuta e disperata più le statistiche sorridevano e ridevano. Negli anni 50, 60 e 70, anni tremendi, tempi tumultuosi, l’America Centrale vantava l’indice di crescita economica più alto del mondo, il più rapido ritmo di sviluppo regionale nella storia dell’uomo.

In Colombia, fiumi di sangue intersecano fiumi d’oro. Economia florida, anni di facili guadagni: al culmine dell’euforia, il paese produce cocaina, caffè e crimini. Cifre da capogiro.

 

La notte / 1

 

Non riesco a dormire. C’è una donna che mi sta di traverso alle palpebre. Vorrei mandarla via, ma non posso. Ho una donna qui nella gola.

 

Diagnostica e terapeutica

 

L’amore è una malattia tra le più maligne e contagiose. Noi malati, chiunque ci può riconoscere. Le occhiaie profonde denunziano le nostre insonnie, notti debilitate dagli abbracci, o dalla mancanza di abbracci. Ci devastano febbri, e sentiamo un bisogno irresistibile di dire stupidaggini.

L’amore si può provocare lasciando cadere inavvertitamente un pizzico di polverina nel caffè, nella minestra o nel bicchiere. Si può provocare. Ma non si può impedire. Non ci riesce né l’acqua benedetta né la polvere di ostia. Non serve a niente nemmeno lo spicchio d’aglio. L’amore è sordo al Verbo divino come alle formule delle fattucchiere. Non c’è decreto governativo che tenga, né intruglio capace di evitarlo, per quanti filtri vantino gli imbonitori sui mercati, con garanzia e tutto.

 

Professionalità / 2

 

Hanno lo stesso nome, lo stesso nomignolo. Abitano la stessa casa e calzano le medesime scarpe. Dormono sullo stesso cuscino accanto alla stessa moglie. Tutte le mattine, lo specchio gli rimanda la medesima faccia. Ma non sono la stessa persona.

«E io che c’entro?» dice lui parlando di lui, e intanto si stringe nelle spalle.

«Io eseguo gli ordini», dice. Oppure:

«E per questo che mi pagano».

O dice:

«Se non lo faccio io lo fa un altro».

Che è come dire:

«Io sono un altro».

Di fronte all’odio della vittima, il carnefice prova stupore, addirittura una certa sensazione di ingiustizia: in fin dei conti, lui è un funzionario che ha un orario e svolge un compito. Al termine della faticosa giornata di lavoro, il torturatore si lava le mani.

Me lo ha raccontato Ahmadou Gherab, che combatté per l’indipendenza dell’Algeria. Ahmadou venne torturato per diversi mesi da un ufficiale francese. Ogni sera, alle sei in punto, il torturatore si asciugava il sudore sulla fronte, staccava il pungolo elettrico e riponeva gli altri arnesi. Poi si sedeva accanto al torturato e gli parlava dei suoi problemi familiari.

«e la promozione che non arriva e quello che costa la vita…» Il torturatore parlava della moglie insopportabile e del figlio appena nato, che non gli aveva fatto chiudere occhio tutta la notte. Se la prendeva con Orano, questa città di merda, e con quel figlio di puttana del colonnello che…

Ahmadou, tutto insanguinato, tremante di dolore, scottante per la febbre, non diceva nulla.

Professionalità / 3

 

I banchieri della grande bancheria mondiale, che praticano il terrorismo del denaro, hanno più potere dei re e dei marescialli, più potere del loro Papa di Roma. Non si sporcano mai le mani. Non ammazzano nessuno: si limitano ad applaudire lo spettacolo.

Spediscono nei nostri paesi i loro funzionari, i tecnocrati internazionali: costoro non sono né presidenti né ministri, nessuno li ha votati in alcuna elezione, però decidono il livello dei salari e della spesa pubblica, gli investimenti e i disinvestimenti, i prezzi, le imposte, gli interessi, i sussidi, l’ora del sorgere del sole e la frequenza delle piogge.

In compenso, non si occupano delle carceri, delle camere di tortura, dei campi di concentramento, né dei centri di sterminio, anche se ciò che accade in questi luoghi è la conseguenza inevitabile delle loro azioni.

I tecnocrati rivendicano il privilegio della irresponsabilità:

«Noi siamo neutrali».

 

Smemoramento / 4

 

Chicago è piena di fabbriche. Le fabbriche giungono nel cuore della città, fino a circondare l’edificio più alto del mondo. Chicago è piena di fabbriche. Chicago è piena di operai.Al nostro arrivo nel quartiere di Heymarket, chiedo ai miei amici di farmi vedere il posto dove furono impiccati, nel 1886, quegli operai che il mondo intero saluta a ogni 1° di maggio.«Dev’essere da queste parti», mi dicono. Ma nessuno ne sa niente.

Nella città di Chicago non si trova una statua in memoria dei martiri di Chicago. Né una statua, né un cippo, né una targa di bronzo. Niente.

Il 1° maggio è l’unico giorno che riguardi veramente tutta l’umanità, l’unico giorno sul quale si trovano d’accordo tutte le storie e tutte le geografie, tutte le lingue e le religioni e le culture del mondo. Ma negli Stati Uniti il 1° maggio è un giorno qualsiasi. La gente lavora come al solito, e nessuno, o quasi nessuno, ricorda che i diritti della classe operaia non sono spuntati dall’orecchio di una capra né dalle mani di Dio o del padrone.

Dopo avere invano esplorato Heymarket, gli amici mi fanno visitare la migliore libreria cittadina. E qui, per pura curiosità o per puro caso, tra i mucchi di manifesti del cinema e del rock scopro un vecchio manifesto che stava lì ad aspettarmi. Riproduce un proverbio africano:

Finché i leoni non avranno i loro storici, le storie di caccia continueranno a celebrare il cacciatore.

 

Paradossi

 

Se la contraddizione è il polmone della storia, mi sa tanto che il paradosso sia lo specchio di cui la storia si serve per prendersi gioco di noi.

Perfino il figlio di Dio non è riuscito a schivare il paradosso. Per nascere scelse un deserto subtropicale dove mai si vide la neve, e con ciò la neve è diventata in tutto il mondo il simbolo del Natale da quando l’Europa ha deciso di naturalizzare Gesù. E a maggiore scorno, la nascita di Gesù è a tutt’oggi l’affare più lucroso per i mercanti che lui aveva cacciato dal tempio.

Napoleone Bonaparte, il più francese di tutti i francesi, non era francese. Non era russo Stalin, il più russo dei russi. E il più tedesco dei tedeschi, Adolf Hitler, era nato in Austria. Margherita Sarfatti, la donna più amata dall’antisemita Mussolini, era ebrea. José Carlos Mariàtegui, tra i marxisti latinoamericani il più marxista, era un fervido credente. Il Che Guevara era stato dichiarato del tutto inabile alla vita militare dai medici dell’esercito argentino.

Dalle mani di uno scultore chiamato Aleijandinho, che tra i brasiliani era il più brutto, uscirono le bellezze più sublimi del Brasile. I neri nordamericani, i più oppressi tra gli oppressi, crearono il jazz, la più libera di tutte le musiche. Don Chisciotte, il più errante dei cavalieri, fu concepito tra le mura di una prigione. E, paradosso dei paradossi, don Chisciotte non pronunciò mai la sua frase più celebre: I cani abbaiano, Sancho, vuol dire che stiamo cavalcando.

«Mi sembri nervosa», dice l’isterico. «Ti odio», dice l’innamorata. «Non ci sarà svalutazione», dice, alla vigilia della svalutazione, il ministro del tesoro. «I militari sono fedeli alla Costituzione», dice il ministro della difesa il giorno prima del golpe.

Nella guerra contro la rivoluzione sandinista il governo degli Stati Uniti e il partito comunista del Nicaragua formavano un’unità paradossale. E che altro erano, se non paradossi, le barricate sandiniste sotto la dittatura di Somoza, che chiudevano le strade e aprivano il cammino?

 

Un altro muscolo segreto

 

Negli ultimi anni, la Nonna trascinava il suo corpo con grande fatica. Il suo corpo, corpicciuolo di ragno spossato, non intendeva seguirla.

«Meno male che la mente viaggia senza biglietto», diceva.

Io ero lontano, in esilio. A Montevideo, la Nonna sentì che era giunta l’ora di morire. E prima di morire volle visitare la mia casa. Col corpo e tutto il resto.

Arrivò in aereo, accompagnata da mia zia Emma. Aveva viaggiato in mezzo alle nuvole, in mezzo alle onde, convinta di andare in barca, e quando l’aereo aveva attraversato una tempesta, lei aveva creduto di viaggiare in carrozza sopra il lastrico, fra gli scossoni.

Restò un mese a casa mia. Mangiava pappine per bambini e rubava caramelle. Si svegliava nel mezzo della notte e voleva giocare a scacchi, oppure litigava con mio nonno, morto quarant’anni prima. A volte tentava la fuga verso la spiaggia, ma le gambe la impastoiavano prima che arrivasse alla scala.

Alla fine disse:

«Bene, ora posso morire».

Non intendeva morire in Spagna. Voleva evitarmi gli imbrogli burocratici, la spedizione della salma e roba del genere: disse che sapeva benissimo quanto odiavo le scartoffie.

E tornò indietro a Montevideo. Fece visita a tutto il parentado, perché tutti, un parente dopo l’altro, potessero vedere con i propri occhi che aveva fatto ritorno nelle migliori condizioni, e che il viaggio non c’entrava affatto. Poi, in capo a una settimana, si mise a letto e morì.

I figli sparsero le sue ceneri sotto l’albero che lei si era scelto.

Qualche volta, la Nonna viene a farmi visita in sogno. Io cammino lungo la riva di un fiume, e lei è un pesce che mi accompagna scivolando, lieve lieve, attraverso le acque.

 

Impronte digitali

 

Sono nato e cresciuto sotto le stelle della Croce del Sud. Dovunque io vada, loro mi seguono. Sotto la Croce del Sud, croce di splendori, passo da una stazione all’altra del mio destino.

Non ho un dio. Se lo avessi, gli chiederei di non farmi arrivare alla morte. Non ancora. Ho ancora molto da camminare. Ci sono lune alle quali non ho ancora abbaiato, e soli che non mi hanno ancora acceso. Non mi sono ancora immerso in tutti i mari, che a quanto si dice sono sette, né in tutti i fiumi del Paradiso, che dicono siano quattro.

A Montevideo c’è un bambino che spiega: «Io non voglio morire mai, perché voglio giocare sempre».

 

I nessuno

 

“Le pulci sognano di comprarsi un cane e i nessuno sognano di non essere più poveri, che un giorno magico piova all’improvviso la fortuna, che piova a catinelle la fortuna; ma la fortuna non piove né oggi, né domani, né mai, né come pioggerella cade dal cielo la fortuna, per quanto i nessuno la invochino e benché pruda loro la mano sinistra, o scendano dal letto col piede destro, o comincino l’anno cambiando la scopa.
I nessuno: i figli di nessuno, i padroni di niente,
che non sono, nonostante siano.
I nessuno: i niente, gli annientati, affamati, morendo la vita, fottuti, fottutissimi:
Che non parlano lingue, ma dialetti.
Che non professano religioni, ma superstizioni.
Che non fanno arte, ma artigianato.
Che non praticano cultura, ma folklore.
Che non sono esseri umani, ma risorse umane.
Che non hanno viso, ma braccia.
Che non hanno nome, ma un numero.
Che non figurano nella storia universale, ma nella cronaca nera della
stampa locale.
I nessuno che costano meno della pallottola che li uccide”
Eduardo Galeano da “Il libro degli abbracci”

 

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Nell’immagine: Xul Solar, “Drago”, 1927

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