Linguaggi

Canto me stesso

14.01.2022

1.
Canto me stesso, e celebro me stesso,
E ciò che io assumo voi lo dovete assumere
Perché ogni atomo che mi appartiene appartiene anche a voi.
Io ozio, ed esorto la mia anima,
Mi chino e indugio ad osservare un filo d’erba estivo.
La mia lingua, ogni atomo di sangue, fatti da questo suolo, da quest’aria,
Nato qui da genitori nati qui e così i loro padri e così i padri dei padri,
lo, ora, trentasettenne in perfetta salute, ora incomincio,
E spero di non cessare che alla morte.
Credi e scuole in sospeso,
Un po’ discosto, sazio di ciò che essi sono, ma mai dimenticandoli,
Accolgo la natura nel bene e nel male, lascio che parli a caso,
Senza controllo, con l’energia originale.

2.
Case e stanze sono piene di profumi, gli scaffali affollati di profumi,
Respiro la fragranza, la riconosco e mi piace,
Il distillato potrebbe ubriacare anche me, ma non lo permetto.
L’atmosfera non è un profumo, non ha il gusto del distillato, è inodore,
È fatta per la mia bocca, in eterno, ne sono innamorato,
Andrò sul pendio presso il bosco, sarò senza maschera e nudo,
Mi struggo dalla voglia di sentirne il contatto.
Il fumo del mio fiato,
Echi, gorgoglii, diffusi bisbigli, radice d’amore, filamento di seta, inforcatura e viticcio,
Il mio inspirare ed espirare, il pulsare del cuore, il transitare dell’aria e del sangue attraverso i  polmoni,
Il sentore delle foglie verdi e delle foglie secche, della spiaggia e degli scogli neri, del fieno nel fienile,
Il suono delle parole eruttate della mia voce abbandonata ai vortici del vento,
Pochi rapidi baci, pochi abbracci, un tendere a cerchio di braccia,
Il gioco delle ombre e dei riflessi all’oscillare dei rami flessuosi,
Il godimento da soli o tra la folla nelle strade, o lungo i campi o sui fianchi d’una collina,
La sensazione di salute, il vibrare del pieno mezzogiorno,
il canto di me che mi alzo dal letto e vado incontro al sole.
Hai creduto che mille acri fossero molti? che tutta la terra fosse molto?
Ti sei esercitato così a lungo per imparare a leggere?
Tanto orgoglio hai sentito perché afferravi il senso dei poemi?
Fermati con me oggi e questa notte, e ti impadronirai dell’origine di tutti i poemi,
Ti impadronirai dei beni della terra e del sole (ci sono ancora milioni di soli),
Non prenderai più le cose di seconda o terza mano, né guarderai con gli occhi dei morti, ne ti  nutrirai di fantasmi libreschi,
E neppure vedrai attraverso i miei occhi o prenderai le cose da me,
Ascolterai da ogni parte e le filtrerai da te stesso.

3.
Ho udito ciò che i parlatori dicevano, il discorso del principio e della fine,
Ma io non parlo del principio o della fine.
Non ci fu mai più inizio di quanto ce n’è ora,
Ne più gioventù o vecchiaia di quanta ce n’è ora,
Ne vi sarà più perfezione di quanta ce n’è ora,
Ne più cielo o più inferno di quanto ce n’è ora.
Urgere, urgere, urgere,
Sempre l’urgere procreante del mondo.
Dalla confusa oscurità gli opposti eguali avanzano, sempre sostanza e accrescimento, e sesso,
E intrecciarsi di identità, e sempre distinzione, sempre riproduzione.
Elaborare è inutile, dotti e non dotti sentono che è così.
Sicuri come ciò che è più sicuro, i muri a piombo, ben connessi, la travatura rinforzata,
Forti come un cavallo, affezionati, tracotanti, elettrici,
Io e questo mistero qui ci ergiamo.
Limpida e dolce è la mia anima, e limpido e dolce è tutto quello che non è la mia anima.
Se manca uno, mancano entrambi, e il non veduto è provato dal veduto,
Finché questo non diventi invisibile e debba a sua volta esser provato.
Ogni età tormenta l’altra mostrando il meglio e separandolo dal peggio,
Conoscendo la perfetta giustezza e imparzialità delle cose, mentre quelle discutono sto zitto, e vado a fare il bagno e ad ammirare me stesso.
Benvenuto ogni mio organo e attributo, e quelli di ogni uomo onesto e vigoroso,
Non un pollice è da scartare o frazione di pollice, e niente dev’essere meno familiare del resto.
lo sono pago: io vedo, ballo, rido e canto;
E se l’amato compagno di letto che dorme abbracciato al mio fianco, allo spuntare del giorno si ritira con passo furtivo,
Lasciandomi cesti di bianchi asciugamani che mi riempiono la casa con la loro abbondanza,
Dovrò posporre la mia accettazione e comprensione e gridare ai miei occhi
Che si astengano dopo dal guardare giù per la strada,
E mi mostrino sùbito, calcolato al centesimo,
L ‘esatto valore di uno e l’esatto valore di due, e chi è in vantaggio?

4.
La gente che passa e che m’interroga,
Le persone che incontro, gli effetti su di me dei miei primi anni o del quartiere, della città, della nazione in cui vivo,
Gli avvenimenti recenti, le scoperte, le invenzioni, le società, gli autori vecchi e nuovi,
Il mio pranzo, gli abiti, i compagni, il bell’aspetto, i complimenti, i doveri,
L’indifferenza reale o immaginaria di qualcuno che amo,
La malattia d’uno dei miei o mia, le malefatte, la perdita o la penuria di danaro, le depressioni o l’euforia,
Le battaglie, gli orrori della guerra fratricida., la febbre delle dubbie notizie, lo spasmo degli avvenimenti,
Tutto questo mi arriva giorno e notte, e se ne va,
Ma non è questo il mio Io.
Separato da ciò che attira e trascina sta quello che io sono,
Se ne sta divertito, compiacente, compassionevole, inattivo, unitario,
Guarda dall’alto, è eretto, o appoggia un braccio a un impalpabile sicuro sostegno,
Con la testa piegata di Iato, curioso di ciò che verrà dopo,
Dentro e fuori del gioco, osservandolo e meravigliandosi.
Ripenso ai giorni passati quando mi affaticavo nella nebbia con linguisti e dialettici,
Non ho battute o argomenti, io sono testimone e attendo.

5.
Io credo in te anima mia, e l’altro che io sono non deve umiliarsi davanti a te,
Né tu davanti a lui.
Ozia con me sopra l’erba, rimuovi il groppo dalla gola,
Io non chiedo parole, né musica, né rime, né conferenze o patrocini, sia pure i migliori,
Solo la nenia mi appaga, il mormorio della tua voce a bocca chiusa.
Rammento come una volta in un simile limpido mattino d’estate noi due giacevamo,
E tu posavi il capo di traverso sui miei fianchi e ti volgevi a me con tenerezza,
E aperta la camicia sullo sterno, affondasti la lingua dentro al mio cuore nudo,
E ti stendesti fino a sentire la mia barba, e ti stendesti fino a trattenermi i piedi.
Rapidamente sorse e si diffuse intorno a me quella pace e quella conoscenza che  oltrepassano ogni disputa terrestre,
E ora so che la mano di Dio è la promessa della mia,
So che lo spirito di Dio è il fratello del mio spirito,
Che tutti gli uomini nati sono anche fratelli miei, e le donne sorelle ed amanti,
E che la controchiglia della creazione è l’amore,
E che sono infinite le foglie dritte o recline nei campi,
E le brune formiche nei piccoli pozzi sotto di loro,
E le croste di muschio del recinto serpeggiante, i mucchi di sassi, il sambuco, la fitolacca, il verbasco.

6.
Che cos’è l’erba?  chiese un bambino, portandomene a piene mani;
Come potevo rispondergli? Non so meglio di lui che cosa sia.
Suppongo che sia lo stendardo della mia vocazione, fatto col verde tessuto della speranza.
O forse è il fazzoletto del Signore,
Un ricordo profumato lasciato cadere di proposito,
Con la cifra del proprietario in un angolo sicché possiamo vederla e domandarci Di chi  può essere?
O forse l’erba stessa è un bambino, il bimbo generato dalla vegetazione.
O un geroglifico uniforme
Che voglia dire, crescendo tanto in ampi spazi che in strette fasce di terra,
Fra bianchi e gente di colore,
Canachi, Virginiani, Membri del Congresso, gente comune, io do loro la stessa cosa e li accolgo nello stesso modo.
E ora mi appare come la bella capigliatura delle tombe.
Ti userò con gentilezza, erba ricciuta,
Forse traspiri dal petto di giovani uomini,
Che avrei potuto amare, se li avessi conosciuti,
Forse provieni da vecchi, o da figli ghermiti appena fuori dai ventri materni,
Ed ecco, sei tu il ventre materno.
Quest’erba è troppo scura per uscire dal bianco capo delle nonne,
Più scura della barba scolorita dei vecchi,
È scura per spuntare dal roseo palato delle bocche.
Oh nonostante tutto io sento il parlottio di tante lingue,
E comprendo che non esce dalle bocche per nulla.
Vorrei poter tradurre gli accenni ai giovani morti, alle fanciulle,
Gli accenni ai vecchi e alle madri, ai rampolli ghermiti ai loro ventri.
Che cosa pensate sia avvenuto dei giovani e dei vecchi?
E che cosa pensate sia avvenuto delle madri e dei figli?
Vivono e stanno bene in qualche luogo,
Il più minuscolo germoglio ci dimostra che in realtà non vi è morte,
E che se mai c’è stata conduceva alla vita, e non aspetta il termine per arrestarla,
E che cessò nell’istante in cui la vita apparve.
Tutto continua e tutto si estende, niente si annienta,
E il morire è diverso da ciò che tutti suppongono, e ben più fortunato.

7.
Qualcuno ha mai ritenuto che il nascere sia una fortuna?
Mi affretto ad informarlo che è una fortuna esattamente quanto il morire, e io lo so.
Io valico la morte con il moribondo, la nascita con il bimbo appena lavato, e non sono tutto contenuto tra cappello e stivali,
E scruto multipli oggetti, non due che siano uguali, e tutti buoni,
Buona la terra, buone le stelle, buoni i loro annessi.
Io non sono una terra né l’appendice d’una terra,
Sono il compagno e l’amico della gente, che è insondabile e immortale quanto me,
(Non sa quanto immortale, ma lo so io).
Ogni specie per sé e per ciò che è suo; per me il mio è maschio e femmina,
Sono quelli che furono ragazzi e che amano le donne,
Per me è l’uomo orgoglioso che sente quanto punga l’altrui indifferenza,
Per me è la ragazza innamorata e la vecchia zitella, sono le madri e le madri delle madri,
Per me è la bocca che ha sorriso, gli occhi che hanno lacrimato,
Sono i bambini e i genitori dei bambini.
Toglietevi i drappi! non siete colpevoli ai miei occhi, né vecchiume né scarti,
Se lo siete o non lo siete lo vedo anche attraverso il panno e il percalle,
E vado in giro, avido, tenace, instancabile, e non mi lascio scrollare via.

8.
Il piccolo dorme nella culla,
Sollevo il velo e guardo a lungo, e con la mano silenziosamente allontano le mosche.
Il giovanotto e la ragazza accesa in volto girano verso i cespugli sulla collina,
lo li vedo dall’alto e di nascosto li osservo.
Il suicida è disteso sul pavimento insanguinato della stanza da letto;
Io osservo il cadavere, i capelli bagnati, noto dove è caduta la pistola.
Il brusio della strada, i cerchioni dei carri, le croste di fango delle suole,
i discorsi di chi passeggia,
I pesanti omnibus, il conducente che interroga col pollice, lo scalpitare dei ferri dei cavalli sul selciato di granito,
Le slitte, tintinnanti, grida scherzose, lanci di palle di neve,
Le acclamazioni ai beniamini del momento, la furia della plebaglia indignata,
Lo sbattere delle tende d’una lettiga che porta all’ospedale un malato,
L’incontro di nemici, le imprecazioni immediate, i colpi e il tonfo,
La folla eccitata, il poliziotto con la stella che s’apre rapido un passaggio tra la folla,
Le pietre impassibili che ricevono e respingono tanti echi,
I gemiti del malnutrito e dell’obeso che un colpo di sole o l’apoplessia fa cadere,
Lo spasimare di donne sorprese dalle doglie che s’affrettano a casa e partoriscono,
Quante parole vive e sepolte, che ancora vibrano qui, quante urla soffocate dal decoro,
Arresti di criminali, commenti offensivi, profferte adultere avanzate, accettate, respinte con labbra convesse,
Io bado a tutto questo, allo spettacolo o all’eco di tutto questo: io arrivo e parto.

9.
La grande porta del fienile è spalancata,
L’erba secca falciata colma il carro che avanza lentamente,
La luce chiara scherza sul grigio bruno e il verde stinto,
Le bracciate si ammassano sul mucchio che s’affloscia.
Io sono lì, dò una mano, allungandomi arrivo in cima al carico,
Ne avverto le scosse smorzate, una gamba stesa sull’altra,
Salto dalle traverse e afferro la codolina e il trifoglio,
Faccio capriole, mi arruffo i capelli pieni di festuche.

10.
Lontano, in posti deserti e su montagne vado a caccia solitario,
Vago qua e là e mi stupisco della mia agilità e dell’umore allegro,
E verso sera scelgo un posto sicuro per passare la notte,
Accendo un fuoco e vi arrostisco la selvaggina appena uccisa,
E mi addormento sulle foglie ammacchiate con accanto il cane e il fucile.
Il clipper yankee inalbera i velacci, manda spruzzi e scintille,
I miei occhi toccano terra, mi affaccio dalla prua, grido di gioia dal ponte.
I battellieri e i pescatori di molluschi si alzarono presto e mi attesero,
Infilai gli orli dei calzoni negli stivali e li seguii e ci divertimmo,
Avreste dovuto esserci quel giorno intorno alla zuppa di vongole.
Ho veduto le nozze d’un cacciatore di pellicce nel Far West, all’aria aperta, la sposa era  un’indiana,
Suo padre e gli amici sedevano a gambe incrociate fumando in silenzio,
portavano mocassini ai piedi e pesanti coperte coprivano le loro spalle;
Sopra un rialzo ciondolava lo sposo, quasi tutto coperto di pelli, la barba rigogliosa e i riccioli nascondevano il collo, teneva per mano la donna.
Aveva lunghe ciglia, la testa nuda, i capelli ruvidi e lisci le scendevano sul corpo voluttuoso fino ai piedi.
Lo schiavo fuggitivo si avvicinò alla mia casa e si fermò all’esterno, lo sentivo muoversi  facendo scricchiolare i ramoscelli della catasta della legna,
Dalla semiporta di cucina lo scorsi esausto e malfermo,
Mi accostai, era seduto su un ciocco, lo rassicurai e lo feci entrare,
Portai dell’acqua e ne colmai una tinozza per quel corpo sudato e quei piedi martoriati,
E gli diedi una stanza a cui si accedeva dalla mia, e gli diedi degli abiti puliti,
Rammento ancora perfettamente come roteava gli occhi e il suo imbarazzo,
Gli applicai qualche impiastro sulle vesciche del collo e alle caviglie;
Stette con me una settimana prima di riprendere le forze per proseguire verso il nord,
A tavola, sedeva accanto a me, il mio fucile appoggiato in un angolo.

11.
Ventotto giovani fanno il bagno lungo la spiaggia,
Ventotto giovani e tutti così amabili;
Ventotto anni di vita femminile e così solitaria.
È sua quella bella casa sul rialto della riva,
E dietro le persiane si nasconde, ben fatta, riccamente vestita.
Quale dei giovani le piace di più?
Ahi, il meno avvenente è già bello per lei.
Dove vai, mia signora? lo ti vedo,
Sguazzi nell’acqua, anche se te ne stai lì ferma nella stanza.
Ballando e ridendo arrivò sulla spiaggia, la ventinovesima bagnante,
Ma gli altri non la videro, lei li vide e li amò.
Le barbe dei giovani luccicavano d’acqua, scorreva dai loro lunghi capelli,
E a rivoli passava lungo i corpi.
Anche una mano invisibile passò sui loro corpi,
E discese tremante lungo le tempie e i fianchi.
I giovani nuotano sul dorso, i bianchi ventri sporgono al sole, e non si chiedono chi si aggrappa a loro,
Ignorano chi ansima e si piega come un arco che sporge e s’incurva,
Non pensano a chi bagnano di spruzzi.

12.
Il garzone del macellaio si toglie il grembiale insanguinato, o affila il suo coltello sul banco del mercato,
lo mi attardo e mi godo le sue battute e il suo balletto di striscio e di tacco.
Fabbri dal petto sudicio e peloso circondano l’incudine,
Ciascuno ha la sua mazza, sono tutti a distanza, c’è gran calore nella forgia.
Dalla soglia coperta di cenere, io seguo i loro movimenti,
L’agile arcata della cintola s’accorda al moto delle braccia poderose,
Le mazze oscillano, le braccia le fanno roteare al di sopra delle spalle, così lente e così  sicure,
Non hanno fretta, ciascuno colpisce il punto giusto.

13.
Il negro regge saldamente le redini dei suoi quattro cavalli, il blocco oscilla, al di sotto, tenuto da catene,
Il negro che guida il lungo traino della cava di pietre se ne sta alto e saldo su una gamba sulla sbarra traversa,
L’azzurra camicia fa risaltare il collo e l’ampio petto e scende libera sui fianchi,
Il suo sguardo è calmo e autorevole, scosta la tesa del cappello dalla fronte,
Il sole cade sui capelli crespi e sui baffi, sul nero delle membra lucide e perfette.
Osservo quel gigante pittoresco e lo amo, ma non mi fermo,
Vado anche io col traino.
Io sono uno che accarezza la vita ovunque vada, che volga indietro o in avanti,
Mi chino sulle nicchie appartate e i subalterni, non mi perdo nessun oggetto o persona,
Tutto assorbendo in me e per questo mio canto.
O buoi, che fate tinnire il giogo e le catene, o v’attardate, in un’ombra di foglie, che mai  esprimete con i vostri occhi?
Mi pare valga assi più d’ogni pagina a stampa, che abbia mai letto in vita mia.
Nel mio vagare tutto il giorno, il mio passo talvolta spaventa l’anatra sposa e il suo maschio,
S’alzano insieme e lentamente volano in cerchio.
Io credo in queste alate intenzioni,
E riconosco che il rosso, il giallo e il bianco agiscono dentro di me,
E ho idea che il verde e il viola e la cresta piumata siano intenzionali,
E non definisco la tartaruga indegna perché non è qualcos’altro,
E la ghiandaia nei boschi non ha studiato le scale, eppure per me sa far bene i suoi trilli,
E l’aspetto della puledra baia svergogna la mia scempiaggine.

14.
Il maschio dell’oca selvatica guida lo stormo nella fresca sera,
E grida ya-honk; e giù mi arriva come un invito;
Il furbo può ritenerlo privo di senso, ma tendendo l’orecchio
Ne scopro il fine e lo situo in alto nel cielo invernale.
L’alce del nord dallo zoccolo affilato, il gatto sulla soglia della casa, la cincia bigia, il cane della prateria,
I maialini che tirano le mammelle della scrofa che grugnisce,
La tacchina con le ali semiaperte e i suoi pulcini,
In loro e in me scorgo la stessa antica legge.
La pressione del mio piede sulla terra sprigiona mille affetti
Che sbeffeggiano i miei sforzi per descriverli.
Io sono innamorato della vita all’aperto,
Degli uomini in mezzo al bestiame o che sanno di boschi o d’oceano,
Dei costruttori di navi, dei piloti, di chi maneggia l’ascia e la mazza, di chi guida i cavalli,
Potrei mangiare e dormire con loro per settimane e settimane.
Il più comune, il più a buon mercato, il più a portata di mano, il più semplice, questo sono io,
lo che corro i miei rischi spendendo per molto guadagnare,
Che mi agghindo per darmi al primo che mi voglia,
Senza chiedere che venga giù il cielo per la mia buona volontà,
Spargendola sempre, liberamente.

15.
Il puro contralto canta nel palco dell’organo,
Il carpentiere leviga la tavola, il ferro della pialla risalendo manda un aspro fruscìo,
I figli, sposati e non sposati, vanno a pranzo dai genitori il giorno del Ringraziamento,
li pilota afferra il manubrio e ala con braccio gagliardo,
Il secondo sta in piedi sulla baleniera, lancia ed arpione sono pronti,
Il cacciatore d’anatre cammina guardingo con lunghi passi silenziosi,
I diaconi vengono ordinati, le braccia in croce, all’altare,
La filatrice indietreggia ed avanza al ronzio della grande ruota,
L’agricoltore fa il suo giretto domenicale, si ferma davanti allo steccato e osserva l’avena e la segale,
Il pazzo – un caso accertato – viene portato al manicomio
(Non dormirà più nel lettino nella stanza di sua madre);
Il tipografo dal capo grigio e dal volto incavato lavora al bancone,
Mastica il suo tabacco mentre gli occhi gli si annebbiano sul manoscritto;
Membra malformate sono legate alla tavola operatoria,
Ciò che è rimosso cade orribilmente in un secchio;
La giovane mulatta viene venduta all’asta, l’ubriacone sonnecchia presso la stufa della bettola,
Il macchinista si rimbocca le maniche, il poliziotto fa il giro di ronda,
il guardiano segna i pedaggi,
Il giovanotto guida il furgone (lo amo, anche se non lo conosco);
Il mezzo-sangue allaccia gli stivaletti per gareggiare nella corsa,
Nell’Ovest la caccia al tacchino attira giovani e vecchi, chi s’appoggia al fucile, chi siede su un tronco,
Il tiratore scelto sbuca dalla folla, si mette in posizione punta il pezzo;
I nuovi immigranti coprono il molo o la banchina,
Le teste lanose sarchiano i campi di canne da zucchero, il sorvegliante li osserva dall’alto della sella,
La tromba squilla nella sala da ballo, gli uomini cercano le dame,
i ballerini si fanno un inchino,
Il giovane giace sveglio nella soffitta dal tetto di cedro e ascolta la pioggia melodiosa,
I Wolverini collocano trappole sul torrente che sbocca nello Huron,
La squaw ravvolta nel panno orlato di giallo vende borsette di perline e mocassini,
L’intenditore scruta i quadri della mostra con occhi socchiusi, di traverso,
I marinai assicurano la nave, la passerella è calata per i passeggeri che sbarcano,
La ragazza tiene alta la matassa, la sorella più anziana ne dipana un gomitolo, e ogni tanto si ferma per un nodo,
La sposa d’un anno si sta rimettendo ed è felice che da sette giorni ha avuto il primo figlio;
La giovane yankee dai lindi capelli cuce a macchina o lavora in fabbrica o in filanda,
Il selciaio s’appoggia al mazzapicchio, la matita del reporter scorre rapida sul taccuino, il pittore d’insegne dipinge lettere blu e oro,
Il bardotto trotta sull’alzaia, il contabile fa i conti allo scrittoio,
il calzolaio incera lo spago,
Il direttore segna il tempo alla banda e tutti i suonatori lo seguono,
Il bambino è battezzato, il convertito fa la sua professione di fede,
La regata si spande nella baia, la gara è cominciata (come sfavillano le bianche vele!),
Il mandriano vocia alle bestie che stanno per sbrancare,
Il venditore ambulante suda con il sacco sulle spalle (l’acquirente tira il centesimo),
La sposa stira l’abito bianco, la lancetta dei minuti si muove lentamente,
L’oppiomane si sdraia, la testa rigida, le labbra semiaperte,
La prostituta strascina lo scialle, la cuffia le penzola sul collo alticcio e foruncoloso,
La folla ride alle sue bestemmie scurrili, gli uomini la sbeffeggiano e ammiccano fra loro,
(Infelice! io non ti schernisco, le tue bestemmie non mi fanno ridere);
Il Presidente è in seduta di Consiglio, circondato dai Ministri,
Tre maestose matrone passeggiano nella piazza amichevolmente allacciate,
L’equipaggio del peschereccio ammassa strati di halibut nella stiva,
L’abitante del Missouri attraversa le pianure trasportando merci e bestiame,
Il bigliettaio percorre il treno preannunciato dal tintinnio degli spiccioli,
I pavimentisti posano le piastrelle, i lattonieri rivestono il tetto, i muratori chiedono la malta,
In fila, cofana in spalla, passano i manovali;
Le stagioni si succedono, è il quattro del Settimo-mese, una folla indescrivibile è riunita (che salve di cannoni e moschetti!),
Le stagioni si succedono, l’aratore ara, il mietitore miete, il grano invernale è seminato;
Lontano sui laghi il pescatore di lucci vigila presso un foro praticato nel ghiaccio,
I ceppi s’ergono fitti attorno alla radura, il pioniere picchia forte con l’ascia,
Gli uomini delle chiatte ormeggiano al crepuscolo presso i pioppi o i pecàn,
I cacciatori di procioni attraversano le regioni del Red River, o quelle dell’Arkansas, o  quelle prosciugate presso il Tennessee,
Le torce brillano nel buio che incombe sul Chattahoochee o sull’Altamahaw,
I patriarchi siedono a cena circondati da figli, nipoti e pronipoti,
Tra pareti di adobe, sotto tende di tela, cacciatori e lacciolai riposano dopo la fatica del giorno,
La città dorme, la campagna dorme,
I vivi dormono il loro tempo, i morti dormono il tempo loro,
Il vecchio marito dorme accanto alla moglie, il giovane sposo dorme accanto alla sua;
E tutti convergono verso di me, e io mi espando verso di loro,
E quale sia il loro essere; più o meno così sono io,
E di tutti, dal primo all’ultimo, io intesso il canto del me stesso.

16.
Io sono dei giovani e dei vecchi, degli stolti e dei saggi,
Incurante degli altri, riguardoso di tutti,
Materno quanto paterno, bambino quanto adulto,
Imbottito di volgarità, ripieno di delicatezza,
Uno della Nazione di molte nazioni, delle più piccole e delle più grandi,
Tanto meridionale quanto del settentrione, un piantatore indifferente e ospitale lungo l’Oconee dove vivo,
Uno Yankee che segue la sua strada pronto al commercio, le mie giunture le più sciolte e  le più salde sulla terra,
Un Kentuckiano che percorre la valle dell’Elkhorn coi miei gambali di pelle di daino, un Georgiano, uno della Louisiana,
Un battelliere sui laghi o le baie o lungo le coste, un Hoosier, un Badger, un Buckeye;
A mio agio con le racchette da neve canadesi, o nel fitto dei boschi, o fra i pescatori di Terranova,
A mio agio nella flotta delle navi rompighiaccio, veleggiando e bordeggiando con le altre,
A mio agio sulle colline del Vermont, o nelle foreste del Maine, o nei ranches del Texas,
Compagno dei Californiani, compagno dei liberi abitanti del Nord Ovest (amo le loro  ampie proporzioni),
Compagno degli zatterieri, dei carbonai, compagno di chi ti stringe la mano e t’invita a bere e a mangiare,
Scolaro con i più semplici, maestro ai più pensosi,
Un novizio agli inizi ma esperto di migliaia di stagioni,
D’ogni casta e colore sono io, d’ogni rango e religione,
Agricoltore, meccanico, artista, gentiluomo, quacchero, marinaio,
Prigioniero, teppista, protettore, medico, avvocato, sacerdote.
A ogni cosa resisto molto meglio che alla mia diversità,
Respiro l’aria ma ne lascio in abbondanza,
E non incedo impettito, e sto al mio posto.
(La tarma e le uova di pesce stanno al loro posto,
I soli luminosi che vedo e i soli oscuri che non posso vedere stanno al loro posto,
Il palpabile è al suo posto e l’impalpabile è al suo posto).

17.
Questi, in realtà, sono pensieri d’ogni uomo in ogni epoca e luogo, non nascono con me,
Se non son vostri quanto miei non sono niente, o quasi niente,
Se non sono l’enigma e la sua soluzione non sono niente,
Se non vi sono vicini quanto sono distanti non sono niente.
Questa è l’erba che cresce dovunque sia l’acqua e la terra,
Questa è l’aria comune che bagna il globo.

18.
Con forte musica io vengo, con le mie trombe e i miei tamburi,
E non eseguo marce solo per i vincitori, eseguo marce per gli sconfitti e gli uccisi.
Vi hanno detto che è bene vincere le battaglie?
Io vi assicuro che è anche bene soccombere, che le battaglie sono perdute nello stesso spirito in cui vengono vinte.
Io batto i tamburi per i morti,
Per loro imbocco le trombe, suono la marcia più sonora e più gaia.
Gloria a quelli che sono caduti!
A quelli che persero in mare le navi di guerra!
A quelli che scomparvero in mare!
A tutti i generali che persero battaglie, e a tutti gli eroi che furono vinti!
A gli infiniti eroi ignoti, eguali ai più sublimi eroi famosi.

19.
Questo è il pasto equamente servito, questo il cibo per la fame naturale,
È per il giusto quanto per il perverso, con tutti ho preso appuntamento,
Non tollero che una sola persona sia trascurata o esclusa,
La mantenuta, il parassita, il ladro, sono dunque invitati,
Lo schiavo dai labbroni è invitato, il venereo è invitato,
Non vi sarà differenza tra loro e gli altri.
Questa è la pressione d’una timida mano, questo l’odore e il fluttuare di capelli,
Questo il tocco delle mie labbra sulle vostre, questo il mormorio del desiderio,
Questa la remota profondità e l’altezza che riflettono il mio volto,
Questo il fondersi meditato di me stesso, e il susseguente sbocco.
Supponete che io segua un intricato proposito?
Ebbene, sì, lo seguo, come fanno le piogge del Quarto Mese, e la mica sul fianco d’una roccia.
Date per certo che io voglia stupire?
Stupisce la luce del giorno? o il codirosso mattiniero cinguettante nei boschi?
Stupisco io più che loro?
In questo momento dico cose in confidenza
Che non direi a chiunque, ma voglio dire a voi.

20.
Chi mai va là? affamato, brutale, mistico, nudo;
Come faccio a estrar forza dal manzo che mangio?
Che cos’è l’uomo, insomma? Che cosa sono io? Che cosa sei tu?

Tutto ciò che contrassegno come mio tu devi controbilanciarlo con ciò che è tuo,
Altrimenti prestarmi ascolto sarebbe tempo perduto.
Io non piagnucolo come quelli che piagnucolano su tutto il mondo,
Perché i mesi sono vani, la terra null’altro che fango e sozzura.
Gemiti e scoramenti mischiateli con le polverine per i malati, il conformismo passi in quarta fila,
Io porto il cappello come mi piace, in casa e fuori di casa.
Perché dovrei pregare? perché venerare e fare tante cerimonie?

Dopo aver nell’analisi spaccato un capello in quattro, dopo essermi consultato con  dottori e  aver calcolato rigorosamente,
Non trovo grasso che mi sia più caro di quello che aderisce alle mie ossa.
In ogni persona ritrovo me stesso, non uno che mi superi, non uno che valga un chicco d’orzo di meno,
E il bene e il male che dico di me lo dico pure di loro.
Io so che sono valido e sano,
Verso me i convergenti oggetti dell’universo perpetuamente fluiscono,
Tutti recano scritte per me, e io devo decifrare il senso di queste scritte.
Io so che sono immortale,
So che quest’orbita mia non può venir misurata dal compasso del falegname,
So che non dileguerò come l’ardente cerchio che nella notte un bambino traccia con un tizzone acceso.
Io so d’essere augusto,
Non mi tormento lo spirito perché rivendichi i meriti suoi e si faccia capire,
Vedo che le leggi elementari non chiedono mai scusa,
(Ritengo dopo tutto di non comportarmi con orgoglio maggiore della livella, con l’aiuto  della quale edifico la mia casa.)
Esisto come sono, e tanto mi basta,
Se nessuno nel mondo lo sa me ne resto tranquillo,
Se ognuno e tutti lo sanno me ne resto tranquillo.
Un mondo almeno lo sa e di gran lungi il più vasto per me, è cioè il mio io,
E sia che oggi consegua tutto quanto mi spetta, o debba attendere dieci mila anni o dieci milioni di anni,
Posso accettarlo adesso con letizia, e con uguale letizia posso aspettarlo.
La presa del mio piede è calettata a incastro nel granito,
Me ne rido di ciò che voi chiamate dissoluzione,
Io conosco l’eternità del tempo.

21.
Io sono il poeta del Corpo, io sono il poeta dell’Anima, i piaceri del cielo sono con me e le sofferenze dell’inferno sono con me,
i primi li innesto e li faccio crescere su me stesso, questi ultimi li traduco in una nuova lingua.
Io sono il poeta della donna come dell’uomo,
E dico che è grande essere donna come essere uomo,
E dico che non c’è niente di più grande che la madre degli uomini.
Io canto la canzone dell’espansione e dell’orgoglio,
Abbiamo avuto abbastanza inchini e deprecazioni,
Io mostro che la grandezza è soltanto sviluppo.
Hai superato tutti gli altri? sei il Presidente?
È una sciocchezza, si arriverà anche più in là, si andrà oltre.
Io sono colui che cammina con la tenera notte che cresce,
Io chiamo la terra ed il mare per metà occupati dalla notte.
Fatti più vicina, o notte dai seni denudati, fatti più vicina magnetica notte che nutri!
Notte dei venti del sud – notte di poche larghe stelle!
Calma notte chinata – folle e nuda notte d’estate.
Sorridi voluttuosa terra dal fresco respiro!
Terra di dormienti, liquidi alberi!
Terra del tramonto andato – terra delle montagne dalle vette di nebbia!
Terra del vitreo scorrere della luna piena tinta di blu!
Terra dello splendore e dell’oscurità che screziano l’acqua del fiume!
Terra del limpido grigio di nuvole più vivide e più chiare per amor mio!
Terra che si stende lontano a gomito – terra ricca di meli in fiore!
Sorridi, il tuo amante arriva.
Prodiga, tu mi hai dato amore – perciò io a te do amore!
Oh indicibile, appassionato amore.
Grande forza motrice che mi stringe forte, e che io stringo forte!
Ci feriamo l’un l’altro come lo sposo e la sposa si feriscono l’un l’altra.

22.
Mare! Anche a te mi abbandono – indovino ciò che vuol dire,
Osservo dalla spiagga le tue dita ricurve che invitano,
E so che non vuoi allontanarti senza avermi toccato,
Dobbiamo fare un giro, noi due insieme, mi spoglio, portami in fretta lontano dalla vista della terra,
Fammi da molle cuscino, cullami in un’ondosa sonnolenza,
Spruzzami di pioggia amorosa, saprò ripagarti.
Mare dalle lunghe risacche,
Mare alitante ampi convulsi respiri,
Salmastro mare di vita, di non scavate tombe sempre pronte,
Agitatore e ululatore di tempeste, capriccioso e delicato mare,
Sono parte di te, sono anch’io d’una fase e di tutte le fasi.
Partecipo a influssi e emanazioni, esalto l’odio e la concordia,
Celebro l’amicizia e gli amanti che dormono abbracciati.
Sono colui che testimonia simpatia
(Dovrei redigere la lista degli oggetti di casa e omettere la casa che li sostiene?)
Io non sono il poeta della sola bontà, e non ricuso d’essere il poeta anche della perfidia.
Che tiritera è questa sulla virtù e sul vizio?
Il male mi sospinge, la correzione del male mi sospinge, io resto indifferente,
Il mio non è il passo di chi critica o respinge,
Io annaffio le radici di tutto ciò che è cresciuto.
Temevate che uscisse qualche scrofola dall’instancabile gravidanza?
Credevate che le leggi celesti fossero ancora da elaborare e emendare?
Da un lato trovo un peso, agli antipodi il suo contrappeso,
Molli dottrine giovano come salde dottrine,
Pensieri e atti del presente il nostro svegliarci e il mattutino andare.
Questo minuto che mi arriva dai decilioni passati,
Non ce n’è di migliori: è questo ed è ora.
Ciò che agì bene nel passato o agisce bene oggi non è una gran meraviglia,
La meraviglia è, e sarà sempre, che possa esistere un uomo meschino o un miscredente.

23.
Infinito dispiegarsi di parole negli evi!
E la mia, una parola del moderno, la parola Massa.
La parola d’una fede che mai non inganna,
ora o in futuro è lo stesso per me, accetto il Tempo in senso assoluto.
Quello solo è senza pecche, quello solo colma e completa tutto,
solo quella mistica meraviglia elusiva completa tutto.
lo accetto la Realtà e non oso discuterla,
Da cima a fondo imbevendomi di Materialismo.
Urrà alla scienza positiva! Viva l’esatta dimostrazione!
Recate sedo misto con cedro e rami di lillà,
Costui è un lessicografo, questi un chimico, questi da antichi cartigli ricavò una  grammatica,
Quei marinai guidarono la nave per mari ignoti e perigliosi.
Questi è un geologo, costui un matematico, quest’altro opera col bisturi.
Signori, a voi sempre i primi onori!
Le vostre esperienze sono utili, ma non sono di mia pertinenza,
Per mezzo loro mi limito a entrare in un’area di mia pertinenza.
Meno proprietà evocarono le mie parole,
E più evocarono vita non detta, libertà, liberazione,
Dare poca importanza a neutri e castrati, privilegiare uomini e donne pienamente dotati,
E battere il gong della rivolta, e soffermarsi coi profughi e con quelli che tramano e cospirano.

24.
Walt Whitman, un kosmos, di Manhattan figlio,
Turbolento, carnale, sensuale, che mangia, beve e procrea,
Non fa il sentimentale, non guarda dall’alto in basso né gli uomini né le donne, e non li tiene a distanza,
Non più modesto che immodesto.
Schiodate i chiavistelli dalle porte!
Anzi, schiodate le porte stesse dai cardini!
Chiunque umilia un altro umilia me,
E qualunque cosa sia fatta o detta ritorna infine a me.
Attraverso di me s’alza e cresce l’afflatus, attraverso di me la corrente e la lancetta che  la misura.
Pronuncio la parola d’ordine primordiale, lancio il segnale della democrazia,
Per Dio! non accetterò nulla di cui chiunque altro non possa avere il corrispettivo nei   medesimi termini.
Attraverso di me molte voci lungamente mute,
Voci delle interminabili generazioni di prigionieri e di schiavi,
Voci degli infermi e disperati e di ladri e nani,
Voci dei cicli di preparazione e di accrescimento,
E dei fili che collegano le stelle, e dei grembi e del seme paterno,
E dei diritti di quelli che gli altri calpestano,
I deformi, i banali, gli spenti, gli stolti, i disprezzati,
Nebbia nell’aria, scarabei che rotolano pallottole di sterco.
Attraverso di me voci proibite,
Voci di sessi e lussurie, voci velate e io sollevo il velo,
Voci indecenti che io rendo limpide e trasfigurate.
Non premo l’indice sulla bocca,
Tratto con delicatezza le viscere, al pari della testa e del cuore,
La copula per me non è più indecente della morte.
Io credo nella carne e negli appetiti,
Vista, udito, tatto sono miracoli, e ogni parte, ogni frammento di me è un miracolo.
Divino io sono al diritto e al rovescio e rendo santo ciò che tocco o mi tocca, odore di  queste ascelle è aroma più delicato delle preghiere,
e più di chiese questo mio capo, più di bibbie e di tutti i credi.
Se adorerò una cosa più che un’altra, sarà l’estensione del mio corpo, o ciascuna sua  parte,
Sarai tu, traslucida forma di me!
Voi, recessi ombrosi e sporgenze!
Tu, saldo coltro virile!
Sarete voi, qualsiasi cosa rivolta a coltivare me!
Tu, ricco mio sangue! Il tuo latteo ruscello, pallida spremitura di vita!
Petto che ti premi su altri petti, sarai tu!
Mio cervello, saranno le tue occulte circonvoluzioni!
Radice dell’umido calamo odoroso! timido beccaccino di palude! nido che proteggi il  duplice uovo! sarete voi!
Sarai tu, fieno arruffato misto di testa, barba e muscoli!
Gocciante linfa d’acero, fibra di maschio grano, sarete voi!
Voi, miei generosi soli!
Voi, vapori illuminanti e adombranti il mio volto!
Ruscelletti e rugiade di sudore, sarete voi!
Venti che mi strusciate coi vostri salsi titillanti genitali!
Sarete voi, ampi campi muscolosi, rami di viva quercia, bighellone amoroso sui miei tortuosi sentieri!
Mani che ho stretto, volto che ho baciato, mortale che mai abbia toccato, sarete voi.
Io stravedo per me, vi sono in me tante cose e tutte voluttuose,
Ogni momento e qualunque cosa accada mi fa trasalire di gioia,
Non saprei dire come si flettono le mie caviglie, né dove ha origine il mio più flebile desiderio,
Né la causa dell’amicizia che emano, né di quella che accolgo.
Se salgo le scale alla mia porta, mi fermo a pensare se ciò accada realmente,
Un convolvolo alla finestra mi soddisfa più che la metafisica dei libri.
Contemplare un’alba!
La poca luce fa svanire le ombre diafane, immense,
L’aria sa di buono al mio palato.
Sollevamenti del mondo che muove a balzi innocenti in silenziose ascese, trasudanti freschezze,
Obliquamente guizzanti in alto e in basso.
Qualcosa che non vedo spinge in alto punte libidinose,
Mari di succo luminoso inondano il cielo.
La terra accanto al cielo con cui stava, la conclusione quotidiana della loro unione,
La sfida lanciata da oriente in quel momento sopra la mia testa,
Il beffardo sberleffo. Considera dunque se sarai il padrone!

25.
Abbagliante, tremenda, con che rapidità m’ucciderebbe un’alba,
Se io non potessi ora e sempre irraggiare un’alba da me.
Noi pure sorgiamo, abbaglianti e tremendi come il sole,
e fondiamo la nostra aurora, o anima mia, nella calma frescura dell’alba.
La mia voce cerca di ottenere quanto i miei occhi non possono raggiungere,
Con un ruotare di lingua circondo mondi e volumi di mondi.
La parola è gemella della mia visione, è inadeguata a misurare se stessa,
Continuamente mi provoca, con sarcasmo mi dice:
Walt, contieni molto, perché dunque non lo tiri fuori?
Suvvia, non punzecchiarmi, tu pretendi troppo dal discorso,
Non sai forse, o parola, che i germogli sotto di te sono chiusi?
Attendono al buio, protetti dal gelo,
li terriccio si ritrae alle mie grida profetiche,
Vi sottintendo le cause per bilanciarle alla fine,
La consapevolezza è mio vitale talento, e tiene il passo col senso di tutte le cose,
Felicità (chiunque ascolti, uomo o donna, ne parta oggi stesso alla ricerca).
Il mio merito finale ve lo nego, rifiuto di separarmi da ciò che sono realmente,
Circoscrivete mondi, non cercate di circoscrivere me,
Respingo il più ipocrita e il migliore di voi con una sola occhiata.
Lo scrivere e il parlare non provano chi sono,
Io reco il plenum della prova e di ogni altra cosa sul volto,
Con il silenzio imposto alle mie labbra confondo totalmente lo scettico.

26.
Ora non voglio che ascoltare,
Per derivare in questo canto ciò che odo, per lasciare che i suoni vi affluiscano.
Odo virtuosismi d’uccelli, brulichio di grano maturante, cicaleccio di fiamme, schiocchi di sterpi che mi cuociono il cibo,
Odo il suono che amo, il suono della voce umana,
Odo tutti i suoni che si espandono insieme, che si combinano, si fondono o susseguono,
Rumori della città e della campagna, rumori del giorno e della notte,
Loquacità di bimbi con quelli che li amano, risate fragorose di operai alla mensa,
Il basso irato dell’amicizia incrinata, i toni flebili degli ammalati,
Le labbra pallide del giudice che pronunciano una sentenza di morte, le mani poggiate sul banco,
L’oh issa! degli stivatori che scaricano le merci sui moli, il ritornello dei marinai che salpano l’ancora,
Le campane d’allarme, il grido “al fuoco!”, il frusciare affrettato delle pompe e i carri-idranti con gli squilli di avvertimento e le luci colorate,
Il fischio del vapore, il rotolio compatto del convoglio che si approssima,
La lenta marcia eseguita in testa al corteo degli associati in fila a due per due, (Vanno a scortare un morto, l’asta delle bandiere drappeggiata di nero).
Odo il violoncello (lamento del cuore d’un giovane),
Odo la cornetta, scivola svelta per le orecchie,
Suscita spasmi di dolce follia nel petto e nel ventre.
Odo il coro di un’opera,
E questa è veramente musica – musica che fa per me.
Un tenore ampio e fresco come la creazione mi soddisfa,
Il mutevole cerchio della sua bocca trabocca e mi ricolma.
Odo la soprano ben esercitata (paragonato al suo, che lavoro è mai questo?)
L’orchestra mi lancia per orbite più ampie di quelle di Urano,
Scuote in me ardori che ignoravo di possedere,
Mi fa veleggiare, io sciaguatto a piedi nudi, leccati dalle onde indolenti,
Vengo sferzato da un’aspra grandine irosa, perdo il fiato,
Immerso nella melata atmosfera della morfina, la mia trachea strozzata da nodi mortali,
Infine liberato a sentir nuovamente l’enigma degli enigmi,
E quello che noi chiamiamo l’Essere.

27.
Esistere in qualche forma, che è questo?
(Giriamo e giriamo tutti noi per tornare sempre ad un punto),
Se non ci fosse niente di più progredito, basterebbe la vongola nella sua dura conchiglia.
Io non ho una dura conchiglia,
Conduttori istantanei mi attraversano, che io cammini o mi fermi,
Afferrano ogni oggetto e me lo guidano dentro senza nuocermi.
Io non faccio che muovere, premere, palpare con le dita, e mi beo,
Accostare la mia persona a quella d’un altro è quasi il massimo che posso sostenere.

28.
È questo dunque il tatto? farmi fremere verso una nuova identità,
Etere e fiamme a precipizio nelle vene,
La punta infida che si allunga e gonfia per dar loro un soccorso,
La carne e il sangue che lanciano fulmini per colpire ciò che è diverso da me a malapena,
Provocatori lascivi da ogni parte m’irrigidiscono le membra,
Spremono la mammella del mio cuore per poche gocce riluttanti,
Si comportano con me senza riguardi, non accettano ripulse,
Mi privano del meglio come se avessero uno scopo,
Mi sbottonano i vestiti, mi afferrano per la cintola nuda,
Ingannano la mia confusione con la calma del sole e dei pascoli,
Sfrontatamente facendo scivolare da parte gli altri sensi,
Che mi subornavano per barattarsi con il tatto e andare a pascolare ai margini del mio corpo,
Nessun rispetto, nessuna considerazione per le mie forze esaurite, per la mia rabbia,
Prendendo il resto del branco per gioirne un momento,
Quindi unendoli tutti su un promontorio a tormentarmi.
Le sentinelle disertano ogni altra parte di me,
Inerme mi hanno abbandonato a un rosso masnadiero,
Vengono tutte al promontorio per testimoniare e dar man forte contro di me.
Sono stato consegnato da traditori,
Parlo da folle, ho perduto il mio senno, sono io e nessun altro il più gran traditore,
lo per primo mi recai sul promontorio, le mie stesse mani mi portarono.
Tatto ribaldo! che fai? il respiro mi si blocca in gola,
Schiudi le tue cateratte, tu sei troppo per me.

29.
Cieco contatto di scontri amorosi, inguainato, incappucciato tatto dai denti affilati,
Tanto male ti fece lasciarmi?
Partenza seguita da arrivo, perpetuo saldo di perpetui prestiti,
Pioggia ricca, e più abbondante ricompensa poi.
Germogli spuntano e si ammassano, vicini al freno prolifici e vitali,
Paesaggi maschili, progettati d’oro e a grandezza naturale.

30.
Tutte le verità attendono in tutte le cose,
Esse non affrettano né ostacolano il loro manifestarsi.
Non hanno bisogno del forcipe né del chirurgo,
L’irrilevante è importante ai miei occhi quanto il resto.
(Cosa è inferiore o superiore al tatto?).
La logica e i sermoni non convincono mai,
L’umido della notte penetra più profondamente nella mia anima.
(Solo ciò che dà la prova di sé a ogni uomo e a ogni donna,
Solo ciò che nessuno smentisce è così).
Un solo attimo e una mia sola stilla mettono in ordine la mente,
Credo che ogni zotico possa diventare lampada e amante,
E che il compendio dei compendi è la carne dell’uomo e della donna,
E sommità fiorita il sentimento che hanno l’uno per l’altra,
E che devono diramarsi senza limiti da quella lezione finché diventi onnifica,
E finché tutti ci daranno gioia, e noi a loro.

31.
Credo che una foglia d’erba non sia meno di un giorno di lavoro delle stelle,
E ugualmente è perfetta la formica, e un grano di sabbia, e l’uovo dello scricciolo,
E una raganella è un capolavoro dei più alti,
E il rovo rampicante potrebbe adornare i salotti del cielo,
E la più stretta linea della mia mano se la può ridere di ogni meccanismo,
E la vacca che rumina a testa bassa supera ogni statua,
E un topo è un miracolo sufficiente a far vacillare miriadi di miscredenti.
Scopro che io incorporo gneiss, carbone, muschio dalle lunghe striature, frutta, grani, radici commestibili,
E che sono tutto  stuccato, dipinto di quadrupedi e uccelli,
E che ho distanziato ciò che è rimasto indietro per buone ragioni,
Ma che posso richiamare ogni cosa se lo desidero.
Invano affrettarsi o ritrarsi,
Invano le rocce plutoniche emettono la loro antica vampa contro di me se mi avvicino,
Invano il mastodonte si ritira sotto le sue ossa fatte polvere,
Invano oggetti se ne stanno leghe e leghe lontano e assumono forme molteplici,
Invano l’oceano si sistema nelle sue caverne profonde e i grandi mostri vi giacciono,
Invano la poiana fa del cielo la sua casa,
Invano il serpente striscia tra i rampicanti e i tronchi,
Invano l’alce va per i più interni passaggi della foresta,
Invano la gazza marina dal becco a rasoio fa vela per il nord sino al Labrador,
io la inseguo veloce, salgo al suo nido nella fenditura del dirupo.

32.
Credo che potrei voltare la schiena e andare a vivere con gli animali, così placidi e contenti,
Mi fermo e li contemplo per ore e ore.
Non s’affannano mai, non gemono per la loro condizione,
Non vegliano al buio a piangere i loro peccati,
Non mi danno disgusto discutendo sui loro doveri verso Dio,
Nessuno è insoddisfatto, nessuno impazzisce per smania di possedere,
Nessuno s’inginocchia davanti a un suo simile, né ad altri della sua specie vissuti migliaia di  anni fa,
Nessuno è rispettabile o infelice per la terra universa.
Essi mi rivelano i loro rapporti con me e io li accetto,
Mi recano testimonianze di me, e dimostrano chiaramente che le hanno in loro possesso.
Mi chiedo dove mai abbiano raccolto queste testimonianze,
Forse anch’io sono passato da quelle parti, tempi infiniti or sono, e con negligenza le ho lasciate cadere?
Per conto mio, avanzando allora, ora e sempre.
Raccogliendo e rivelando sempre più, con velocità sempre maggiore,
Infinito e onnigeno, loro simile tra le varie specie,
Non troppo sdegnoso verso quelli che ostentano i miei ricordi,
Ne scelgo uno che amo, col quale m’avvio come con un fratello.
Gigantesca bellezza d’uno stallone, vivace e sensibile alle mie carezze,
Testa alta sulla fronte, ampia tra le orecchie,
Membra agili e lucenti, coda che spolvera il terreno,
Occhi pieni di sfavillante malizia, orecchie dal taglio perfetto, flessibili e in movimento.
Le froge gli si allargano appena i talloni lo avvinghiano,
Le membra ben costrutte tremano di piacere mentre facciamo una galoppata.
Ti uso solo un momento, stallone, poi ti lascio,
Che bisogno ho della tua andatura quando io stesso la batto?
Perfino immobile o seduto corro più svelto di te.

33.
Spazio e Tempo! ora m’accorgo che è vero, quello che immaginavo,
Quello che immaginavo quand’ero sdraiato sull’erba,
Che immaginavo giacendo solo nel letto,
O camminando sulla spiaggia sotto le stelle impallidite del mattino.
Mi libero di lacci e zavorre, appoggio i gomiti nelle lacune del mare,
Rasento catene di montagne, le mie palme coprono continenti,
Sono in cammino con la mia visione.
Presso le case quadrangolari della città, in capanne di tronchi, accampato coi tagliaboschi,
Lungo le carraie d’una strada a pedaggio, lungo l’arido dirupo e il letto del ruscello,
Diserbando le mie cipolle o zappando file di carote e pastinache, attraversando savane,  seguendo orme nelle foreste,
Cercando minerali, scavando l’oro, circoncidendo gli alberi di nuovo acquisto,
Bruciato fino alle caviglie dalla sabbia infocata, trascinando la barca sul fiume in secca,
Dove su un ramo proteso sulla testa va su e giù la pantera, dove il cervo si rivolta furioso al cacciatore,
Dove il serpente a sonagli si scalda al sole in tutta la sua flaccida lunghezza, dove la lontra si ciba di pesci,
Dove l’alligatore dorme coperto di pustole coriacee presso un braccio del fiume,
Dove l’orso nero cerca miele o radici, dove il castoro batte il fango con la sua coda a spatola;
Sulla coltivazione dello zucchero, sul giallo fiore del cotone, sul riso nei bassi campi acquitrinosi,
Sulla fattoria dal tetto aguzzo, con la sua smerlatura e gli snelli doccioni dalle gronde,
Sul diospiro dell’occidente, sul granturco dalle lunghe foglie, sul delicato lino dal fiore azzurro,
Sul grano saraceno bianco e bruno, che ronza e mormora con gli altri,
Sul verde cupo della segala, che sfuma alla brezza e s’increspa,
Scalando montagne, tirandomi su cautamente, attaccato a brevi sporgenze scabrose,
Percorrendo il sentiero tracciato nell’erba o aperto tra le foglie della macchia,
Dove la quaglia fischia tra il bosco e il campo di grano,
Dove svolazza il pipistrello nelle sere del Settimo mese, dove il grande scarabeo dorato tonfa nel buio,
Dove il ruscello sgorga tra le radici del vecchio albero e scorre verso il prato,
Dove posa il bestiame e scaccia via le mosche col tremulo scrollare della pelle,
Dove il sacchetto per la cagliata è appeso in cucina, dove gli alari stanno a cavalcioni del focolare, e le ragnatele pendono in festoni dai travi;
Dove il maglio frastuona, dove la stampatrice ruota veloce i suoi cilindri,
Dovunque il cuore umano batta sotto le costole con orribili fitte,
Dove il pallone a forma di pera galleggia in alto (anch’io sospeso in esso, guardo giù serenamente),
Dove il canotto di salvataggio è tirato da un cappio, dove il calore schiude uova verdastre sulla sabbia dentellata,
Dove la balena nuota con il suo piccolo e non lo perde mai di vista,
Dove il piroscafo trascina il suo lungo orifiamma di fumo,
Dove la pinna dello squalo fende l’acqua come una nera scheggia,
Dove il brigantino semiarso è trascinato da correnti sconosciute,
Dove il suo ponte limaccioso si copre di conchiglie, dove sottocoperta i morti si corrompono,
Dove la bandiera fitta di stelle marcia alla testa dei reggimenti,
Accostando Manhattan su per l’isola lungo-distesa,
Sotto il Niagara, la cascata rovesciando come un velo sul mio volto,
Sopra la soglia d’una porta, sul montatoio lì accanto di legno compatto,
Alle corse, ai picnic, ballando gighe o godendo una bella partita a baseball,
Nelle feste tra uomini, fra battute salaci, frecciate oscene, ballonzoli, grandi bevute e risate,
In una fabbrica di sidro, assaggiando la dolce, bruna poltiglia, succhiando il succo attraverso una paglia,
Tra le ragazze che sbucciano le mele, chiedendo baci per ogni mela rossa,
Ai raduni, ai party sulla spiaggia, ai lavori in comune, spannocchiatura, costruzione d’una casa,
Dove il mimo poliglotta lancia i suoi deliziosi gorgoglii, chioccolii, gridi acuti e lamenti,
Dove la bica campeggia sull’aia, gli steli secchi cospargono il suolo, dove la vacca aspetta nel recinto,
Dove il toro s’avvia al suo lavoro di maschio, lo stallone raggiunge la cavalla, il gallo assalta la gallina,
Dove pascolano le giovenche, dove le oche spilluzzicano il cibo con bruschi rapidi colpi,
Dove le ombre del tramonto si distendono sulle deserte praterie sconfinate,
Dove mandrie formicolanti di bufali si spandono per miglia in lungo e in largo,
Dove brilla il colibrì, dove il cigno longevo inarca il collo sinuoso,
Dove il gabbiano, sfreccia lungo il lido, dove echeggia la sua risata quasi umana,
Dove le arnie sono allineate nell’orto sopra una grigia panca, seminascoste dall’erba alta,
Dove le pernici dallo scuro collare dormono in terra accovacciate, in cerchio, con la testa sull’ala,
Dove i funebri carri attraversano gli archi dei cancelli dei cimiteri,
Dove i lupi d’inverno latrano pei deserti di neve e di alberi ricoperti di ghiaccioli,
Dove l’airone dal ciuffo giallo ai margini della palude si ciba nottetempo di piccoli granchi,
Dove gli spruzzi dei tuffi dei bagnanti rinfrescano il caldo meriggio,
Dove sul noce sopra il pozzo la cavalletta verde aziona l’ancia cromatica,
Attraverso orti di cedri e di cetrioli dalle foglie venate d’argento,
Attraverso terreni salini o boschetti d’aranci, o sotto conici abeti,
Attraverso palestre, attraverso saloni con tendaggi, attraverso gli uffici o i luoghi aperti al pubblico,
Contento del connazionale, contento dello straniero, contento del nuovo e dell’antico,
Contento della donna brutta quanto di quella bella,
Contento della quacquera che si sbarazza della cuffia e parla melodiosamente,
Contento del coro della chiesa imbiancata di fresco,
Contento del sudato predicatore metodista le cui ardenti parole mi colpirono al raduno all’aperto;
Guardando dentro le vetrine di Broadway l’intera mattinata, con il naso schiacciato sulla lastra di cristallo,
Vagabondando in quello stesso pomeriggio col viso rivolto alle nuvole, lungo un viottolo o lungo la spiaggia,
Con due amici, io nel mezzo, il braccio destro e il sinistro attorno ai loro fianchi,
Tornando a casa col silenzioso boscaiolo dalle guance annerite (cavalca dietro di me al calare del sole),
Lontano dalle concessioni, studiando le tracce delle zampe di animali, le impronte dei mocassini,
Presso la branda dell’ospedale porgendo limonata a un malato febbricitante,
Accanto al corpo nella bara, quando tutto è silenzio, esaminandolo con una candela,
Viaggiando verso ogni porto per commercio e avventura,
Spingendo la folla, impaziente e volubile quanto ogni altro,
Violento verso chi odio, pronto ad accoltellarlo nella mia frenesia,
Solitario a mezzanotte nel cortile dietro la casa, i miei pensieri lontani da me per lungo tempo,
Percorrendo le antiche colline della Giudea con il bel Dio gentile al mio fianco,
Proiettandomi nello spazio, attraverso il cielo e le stelle,
Volando fra i sette satelliti e il vasto anello e il diametro di ottantamila miglia,
Volando con le comete munite di coda, scagliando palle di fuoco come il resto,
Portando la falce bambina che reca in grembo la madre piena,
Infuriando, godendo, progettando, amando, usando cautela,
Indietreggiando, invadendo, apparendo, scomparendo,
Simili strade io percorro notte e giorno.
Visito i frutteti di sfere e ne osservo i prodotti,
E tengo conto dei quintilioni maturi, dei quintilioni acerbi.
Volo i voli d’un’anima mutevole e ingorda,
La mia rotta corre sotto il piombo degli scandagli.
Mi approprio del materiale e dell’immateriale,
Nessun guardiano può fermarmi, nessuna legge impedirmi.
Ancoro la mia nave solo per breve tempo,
I miei messi incrociano lontano e di continuo mi recano i loro rapporti.
Vado a caccia di foche e di pellicce polari, saltando crepacci con un bastone ferrato, afferrandomi a picchi fragili e azzurri.
Salgo fino alla galletta del trinchetto,
A notte fatta prendo posto dentro il nido del corvo,
Salpiamo verso il mare artico, c’è ancora luce abbastanza,
Mi espando nella chiara atmosfera su quella stupefacente bellezza,
Masse enormi di ghiaccio mi sorpassano e io sorpasso loro, il paesaggio è percepibile in ogni direzione,
In lontananza appaiono le montagne imbiancate, verso di loro proietto le mie fantasie,
Ci avviciniamo a qualche grande campo di battaglia in cui saremo presto ingaggiati,
Oltrepassiamo i colossali avamposti dell’accampamento, andiamo oltre con passi cauti e silenziosi,
Oppure entriamo dai suburbi in una immensa città diroccata,
Isolati e architetture crollate più che in ogni altra viva città della terra.
lo sono un mercenario, bivacco presso i fuochi degli invasori,
Caccio dal letto lo sposo e sto con la sposa,
Tutta la notte me la stringo alle labbra e alle cosce.
La mia voce è la voce della moglie, l’urlo dalla ringhiera della scala,
Portano di sopra il corpo sgocciolante del mio uomo annegato.
Comprendo il grande cuore degli eroi,
Il coraggio del nostro tempo e di ogni tempo,
Del proprietario della nave che vide il relitto affollato e senza timone, e la Morte gli dava la caccia su e giù nella tempesta,
Che serrò i pugni e non si mosse d’un pollice, e fu ligio al dovere giorno e notte,
E scrisse su una tavola col gesso a grandi lettere, Fatevi animo,  non vi abbandoneremo;
E li segui e bordeggiò con loro per tre giorni e non volle arrendersi,
E li salvò alla fine, che andavano tutti alla deriva;
Che aspetto avevano le donne smagrite negli abiti larghi quando le trasbordarono dai fianchi di quella tomba già pronta!
E i bimbi, muti, con facce da vecchi, e i malati, sollevati di peso, e gli uomini, le barbe lunghe, le labbra affilate!
E tutto questo io ingoio, e sa di buono, mi piace molto, diventa mio,
Sono quell’uomo, ho sofferto, ero lì.
Lo sdegno e la calma dei martiri,
La madre condannata come strega, arsa su secca legna sotto gli occhi dei figli,
Lo schiavo inseguito dai cani che s’affloscia nel correre, s’appoggia allo steccato, ansimando, coperto di sudore,
Le fitte che pungono come aghi nelle gambe e nel collo, i pallettoni e le pallottole omicide,
Tutto questo io sento e sono.
Sono lo schiavo inseguito, mi dibatto al morso dei cani,
Disperazione e inferno su di me, sparano e sparano di nuovo  i tiratori,
Mi aggrappo alle sbarre dello steccato, il sangue cola denso, misto al trasudamento della pelle,
Cado sull’erba e i sassi,
Gli uomini spronano i loro cavalli riluttanti, si accostano,
Mi assordano d’insulti, mi danno colpi violenti sulla testa coi manici delle fruste.
Le agonie sono uno dei miei travestimenti,
Non chiedo al ferito come si senta, io divento il ferito,
Le piaghe diventano nerastre su di me, mentre mi appoggio a un bastone e sto ad osservare.
Sono il pompiere schiacciato con lo sterno fracassato,
I muri cadendo mi hanno sepolto nelle loro macerie,
Ho respirato aria bruciante e fumo, udito i richiami dei compagni,
Il lontano picchìo dei picconi e delle pale,
Hanno rimosso le travi, delicatamente mi sollevano.
Giaccio nell’aria della sera con la camicia arrossata, è per me questo silenzio che dilaga,
Ormai insensibile al dolore, giaccio esausto ma non proprio infelice,
Bianchi e belli sono i volti intorno a me, le teste nude senza l’elmetto
La folla inginocchiata svanisce con la luce delle torce.
Gli assenti e i morti rinascono,
Appaiono come il quadrante o si muovono come le lancette, e sono io l’orologio.
Sono un vecchio artigliere, narro il bombardamento del mio forte,
Sono di nuovo lì.
Di nuovo il lungo rullare dei tamburi,
Di nuovo i cannoni che attaccano, i mortai,
Di nuovo ai miei orecchi in ascolto il cannone che risponde.
Vi prendo parte, vedo e sento tutto,
Gli urli, le bestemmie, il rimbombo, gli applausi per i colpi ben diretti,
L’ambulanza che procede lentamente con il suo rosso sgocciolìo,
Operai che esaminano i danni, riparando l’indispensabile,
Le granate che cadono dal tetto squarciato, le esplosioni a ventaglio,
Il sibilo nell’aria di membra, teste, legno, pietra, ferro.
Di nuovo il gorgoglìo, nella strozza del mio generale morente, il gesto iroso della mano,
Attraverso i coaguli rantola, Non badate a me… badate… alle trincee.

34.
Adesso vi racconto ciò che ho saputo nel Texas, nella mia prima gioventù.
(Non parlerò della caduta di Alamo,
Nessuno è scampato per raccontarci la caduta di Alamo,
I centocinquanta sono ancora muti, ad Alamo),
Questo è il racconto del massacro a sangue freddo di quattrocentododici giovani.
Ritirandosi, si schierarono in quadrato, dietro i loro bagagli,
Novecento vite, fu il prezzo che presero in anticipo dal nemico accerchiante (ed era nove volte il loro numero),
Il colonnello era ferito, le munizioni terminate,
Trattarono una resa onorevole, ricevettero scritto e sigillo, consegnarono le armi e si misero in marcia, prigionieri di guerra.
Erano il vanto della razza dei rangers,
Insuperabili a cavallo e col fucile, e nel cantare, banchettare, corteggiare,
Grandi, generosi, turbolenti, belli, orgogliosi e affettuosi,
Barbuti, abbronzati, vestiti del libero costume dei cacciatori,
Neppure uno che superasse trent’anni.
La mattina della seconda domenica furono fatti uscire a squadre e massacrati, era il bel tempo della prima estate,
Il lavoro cominciò verso le cinque e terminò alle otto.
Nessuno obbedì all’ordine d’inginocchiarsi,
Qualcuno tentò un folle e disperato assalto, altri rimasero rigidi ed eretti,
Alcuni caddero immediatamente, colpiti al cuore o alla tempia, i vivi e i morti giacquero insieme,
I mutilati, i crivellati di colpi, raspavano nel fango, e là li videro i nuovi arrivati,
Qualcuno, non ucciso del tutto, provò a strisciare via,
Fu liquidato con le baionette, maciullato col calcio dei moschetti;
Un giovane di diciassette anni afferrò il suo assassino e ce ne vollero due per liberarlo,
I tre ne uscirono laceri, imbrattati dal sangue del ragazzo.
Alle undici iniziarono a bruciare i cadaveri.
Questo è il racconto del massacro dei quattrocentododici giovani.

35.
Vi piacerebbe udire d’uno scontro navale d’altri tempi?
Sapere chi vinse, sotto la luce della luna e delle stelle?
Ascoltate l’avventurosa storia così come il padre di mia nonna la raccontava a me.
Il nemico non era certo tipo da rimpiattarsi sulla nave, te lo assicuro io (mi diceva),
Un fegataccio scorbutico d’inglese che mai ce ne furono e saranno di più duri e leali;
Mentre scendeva la sera, ci piombò addosso con terribili colpi d’infilata.
Ingaggiamo battaglia, i pennoni s’impigliano, i cannoni si toccano,
Il mio capitano legò la nave alla sua con le sue stesse mani.
Avevamo ricevuto alcune palle da diciotto libbre sotto la linea d’acqua,
Sul ponte inferiore due grossi pezzi erano esplosi al primo colpo, uccidendo all’intorno e mandando in frantumi di sopra.
Si combatte al tramonto, si combatte che è notte,
Sono le dieci, la luna piena è bella alta, le nostre falle imbarcano acqua, cinque piedi, ci dicono,
L’aiutante di bordo libera i prigionieri nella cella di poppa, per dargli una via di scampo.
L’accesso alla santabarbara è bloccato dalle sentinelle,
Vedono troppe facce estranee, non sanno più di chi fidarsi.
La nostra fregata prende fuoco,
Gli altri chiedono se ci arrendiamo?
Se i nostri colori sono ammainati e il combattimento è finito?
Adesso rido soddisfatto perché sento la voce del mio piccolo capitano,
Non abbiamo ammainato, grida calmo, abbiamo appena cominciato a combattere noi.
Solo tre cannoni sono in uso,
Lo stesso capitano ne punta uno contro l’albero maestro del nemico,
Gli altri due, ben serviti a mitraglia, fanno tacere la moschetteria e sgombrano i ponti.
Solo i gabbieri assecondano il fuoco di questa piccola batteria, specie il gabbiere di maestra,
Tengono duro coraggiosamente durante tutta l’azione.
Non un attimo di sosta,
Le falle hanno la meglio sulle pompe, il fuoco avanza verso la polveriera,
Una pompa è spazzata via da un colpo, pensiamo tutti che stiamo affondando.
Resta sereno il piccolo capitano,
Non s’affretta, non alza né abbassa la voce,
I suoi occhi mandano più luce delle nostre lanterne da battaglia.
Verso la mezzanotte, ai raggi della luna, furono loro che si arresero a noi.

36.
Distesa e quieta giace la mezzanotte,
Due grandi scafi immobili sul petto delle tenebre,
La nostra nave crivellata affonda lentamente, preparativi per passare su quella conquistata,
Il capitano, sul cassero di poppa, dà ordini, bianco come un lenzuolo,
Lì accanto il cadavere del mozzo che serviva in cabina,
Il volto spento d’un vecchio lupo di mare, lunghi capelli bianchi e basettoni arruffati con cura,
Le fiamme che ancora lingueggiano, malgrado quanto si è potuto fare, sopra e sotto coperta,
Le voci roche dei due o tre ufficiali ancora in grado di fare qualcosa,
Cataste informi di corpi, e corpi sparsi, pezzi di carne sugli alberi e i pennoni,
Sferzare di sartiame, dondolare di attrezzi, lieve scossa della carezza delle onde,
Neri cannoni impassibili, cartaccia dei pacchi di polvere, fetore,
Lassù poche grandi stelle che brillano tetre e silenziose,
Buone zaffate di brezza marina, odori d’àcoro e di campi dalla costa, discorsi funebri affidati alle cure dei sopravvissuti,
Il sibilo del bisturi, il rosicchiare dei denti della sega del chirurgo,
L’ansimare, il chiocciare, lo sciaguattare del sangue che cade, brevi urli furiosi, e lunghi, sordi gemiti che si spengono.
Questi così, questi irrimediabili.

37.
Ehi là, poltroni, all’erta! mano alle armi!
Dalle porte espugnate fanno ressa, si impadroniscono di me!
Incarno tutti i proscritti o assoggettati,
Mi vedo in carcere con le forme d’un altro,
E provo cupa ininterrotta pena.
Per me i guardiani portano a spalla il fucile e fanno la guardia,
Sono io che fanno uscire al mattino e rinchiudono la sera.
Non c’è ammutinato condotto in prigione ammanettato che non cammini al mio fianco, ammanettato con me,
(E più che il tipo allegro, sono quello taciturno, con il sudore sulle labbra che tremano).
Non c’è ladruncolo preso che anch’io non sia processato e condannato,
Non c’è malato di colera in agonia che anch’io non sia ai miei ultimi rantoli,
Ho la faccia cinerea, i tendini si torcono, tutti si scostano da me.
I mendicanti s’incarnano in me e io m’incarno in essi,
Tendo il cappello, siedo con volto vergognoso, e chiedo l’elemosina.

38.
Basta! basta! basta!
Per qualche motivo sono rimasto intontito. Fatevi indietro!
Datemi un po’ di tempo, per la mia testa frastornata da schiaffi, assopimenti, sogni, guardare a bocca aperta,
Io mi scopro sull’orlo d’un errore abituale.
Che io abbia potuto scordare schernitori ed ingiurie!
Che io abbia potuto scordare le lacrime versate, i colpi di mazza e di martello,
Che abbia potuto contemplare con occhio distaccato la mia crocifissione e la corona  insanguinata.
Ricordo adesso,
Riprendo la parte tralasciata,
La tomba di roccia moltiplica quanto è stato confinato in essa, o in ogni altra tomba,
I cadaveri si levano, i tagli nella carne si richiudono, i legami si sciolgono da me,
Io avanzo in truppa dotato d’un potere supremo, uno d’un corteo interminabile,
Nell’entroterra e costeggiando procediamo, oltrepassando tutte le frontiere,
Le nostre pronte ordinanze si diramano per tutta la terra,
I fiori che rechiamo sui cappelli sono la fioritura di migliaia di anni.
Elèves, io vi saluto! venite avanti!
Continuate le vostre annotazioni, continuate gl’interrogatori.

39.
Il primitivo espansivo e cortese, chi è?
Uno che aspetta la civiltà, o che l’ha superata e la domina?
È qualche sud-occidentale cresciuto all’aria aperta? è un canadese?
È delle terre del Mississippi? dello Iowa, dell’Oregon, California?
Viene dai monti? dalle praterie? è un boscaiolo o un marinaio dell’oceano?
Dovunque vada, la sua compagnia è bene accolta, desiderata da uomini e da donne,
Vogliono che li ami, che li tocchi, che parli con loro, che si trattenga con loro.
Modi sciolti come fiocchi di neve, parole semplici come l’erba, testa arruffata, risate, candore,
Passi lenti, modi, fattezze, emanazioni ordinarie,
Discendono in nuove forme dalla punta delle dita,
Esalano con l’odore del suo corpo, del fiato, sfuggono dalle sue rapide occhiate.

40.

Magniloquenza del sole, non ho bisogno di crogiolarmi ai tuoi raggi – scànsati!
Tu illumini solo superfici, io forzo superfici e profondità.
Terra! sembra che aspetti qualcosa dalle mie mani,
Parla, vecchia testona, che vuoi?
Uomo o donna, vorrei dirvi quanto vi amo, ma non ci riesco,
Dirvi quello che c’è in me e che c’è in voi, ma non ci riesco,
Dirvi lo struggimento, il palpitare delle mie notti e dei miei giorni.
Badate, io non faccio conferenze o un po’ di carità,
Quando io do, io do tutto me stesso.
Non ti chiedo chi sei, è cosa di nessuna importanza per me,
Non puoi fare nulla, né essere nulla, se non ciò che io racchiudo in te.
Tu là, impotente dalle ginocchia lasche,
Apri quelle ganasce avvolte in sciarpe perché io t’insuffli coraggio,
Allarga le palme, solleva i risvolti delle tasche,
Nessuno può ricusarmi, io forzo, ho provviste in abbondanza e di riserva,
E tutto quello che ho lo regalo.
Non ti chiedo chi sei, non è importante per me,
Non puoi far niente, né essere altro che ciò che avvolgo in te.
Su chi sfacchina nei campi di cotone, su chi pulisce le latrine io mi curvo,
E sulla loro guancia destra depongo un bacio familiare,
E giuro per l’anima mia che mai li rinnegherò.
In donne atte a concepire do vita a figli più forti e più svegli,
(Oggi faccio scaturire la materia per più tracotanti repubbliche).
Verso chi sta morendo mi affretto e giro il pomo della porta,
Rovescio le coperte verso i piedi del letto
E mando a casa medico e prete.
Afferro l’uomo avvilito e lo sollevo con volontà irresistibile,
O disperato, ecco il mio collo,
Perdio, non cadrai! appenditi a me con tutto il tuo peso.
Io ti dilato con un titanico soffio, ti faccio stare a galla,
Ogni stanza della casa la riempio con una forza armata,
E chi mi ama può eludere la tomba.
Dormite: loro e io faremo guardia tutta la notte,
Nessun dubbio, nessun malanno oserà mettere un dito su di voi,
Io vi ho abbracciati, e d’ora in poi io vi possiedo in me,
E quando vi alzerete al mattino vi accorgerete che ciò che vi dico è veramente così.

41.
Io sono colui che reca aiuto agli ammalati che boccheggiano supini,
E agli uomini sani e ritti reca un aiuto anche più necessario.
Ho udito ciò che si è detto dell’universo,
L’ho udito e udito per svariate migliaia di anni;
Passabilmente bene, così com’è: ma questo è tutto?
Io vengo a ingrandire e applicare,
Offrendo in partenza più dei vecchi guardinghi rigattieri,
Prendendo io stesso le esatte misure di Geova,
Litografando Cronos, suo figlio Zeus, suo nipote Ercole,
Acquistando disegni di Osiride, Iside, Belo, Brahma, Buddha,
Sistemando nella stessa cartella Allah su un foglio, Manitu slegato, il crocifisso impresso,
Con Odino e Mexitli dal volto spaventoso, e ogni idolo e immagine,
Prendendoli in blocco per quello che valgono, non un soldo di più,
Ammettendo che furono vivi ai loro tempi e fecero il loro lavoro
(Portarono briciole a uccelli implumi che ora devono sorgere e volare e cantare per conto proprio),
Accogliendo i rozzi schizzi deifici per rifinirli in me stesso, elargendoli gratuitamente a ogni uomo e donna che vedo,
Scoprendo altrettanto, o di più, nell’operaio che fabbrica una casa,
Anzi, rivendicando di più per quest’ultimo, con le sue maniche rimboccate, il suo lavoro di mazzuolo e scalpello,
Senza nulla eccepire verso rivelazioni eccezionali, considerando una voluta di fumo o un pelo sul dorso della mano altrettanto curiosi quanto qualsiasi rivelazione;
Giovani con pompe antincendio e scale di corda con ramponi non sono inferiori per me agli dei delle antiche battaglie,
Le loro voci squillano in mezzo al fragore dei crolli,
Le membra muscolose passano incolumi su assi bruciacchiate, le bianche fronti escono illese dalle fiamme;
Accanto alla moglie del meccanico con il bambino al seno, intercedendo per ogni essere nato,
Tre falci in fila che fischiano mietendo, tre angeli vigorosi con le camicie gonfie alla cintura,
Lo stalliere dai denti sporgenti e dai rossi capelli che redime i peccati passati e futuri,
Vendendo tutto ciò che possiede, viaggiando a piedi per pagar gli avvocati al fratello, e siede accanto a lui nel processo come falsario.
Ciò che era sparso negli spazi più ampi copre una pertica quadrata intorno a me, anzi nemmeno la riempie,
Il toro e l’insetto mai venerati a sufficienza, nemmeno la metà,
Sterco e sporcizia più ammirevoli di quanto fu fantasticato,
Il soprannaturale di nessun conto, io stesso aspetto il tempo in cui sarò uno dei supremi;
Il giorno si prepara in cui farò del bene quanto i migliori, e sarò altrettanto prodigioso.
Per i miei bitorzoli vitali! Già divento un creatore,
Ponendo me stesso qui e ora nel grembo in agguato delle ombre.

42.
Un grido tra la folla,
La mia voce, sonora, trascinante e decisiva.
Venite, figli miei,
Venite, giovani e ragazze, donne mie, familiari e intimi amici,
Ora l’esecutore dà vigore al suo slancio, ha passato il suo preludio nel registro degli oboi.
Facili accordi dalle agili dita – sento il ronzio del vostro crescendo e del finale.
La testa mi si gira sul collo,
La musica si riversa, ma non dall’organo,
Gente mi attornia, ma non miei familiari.
Sempre il duro suolo che non sprofonda,
Sempre mangiatori e bevitori, sempre il sole che s’alza e s’abbassa, sempre aria e maree incessanti,
Sempre io e il mio prossimo, rincoranti, maligni, reali,
Sempre l’antico inesplicabile quesito, sempre quel pollice punto dagli spini, quell’alito di smanie e cupidigie,
Sempre l’urlaccio del vessatore, finché non scopriremo dove il furbastro si rintana e lo cacceremo fuori,
Sempre l’amore, il singhiozzante liquido vitale,
Sempre la fascia sotto il mento, i cavalletti della bara.
Camminando qua e là con due soldi sugli occhi,
Per nutrire l’ingordigia del ventre il cervello elargendo a cucchiaiate,
Acquistando, portando, vendendo biglietti, ma mai una volta partecipando alla festa,
Molti che sudano, arano, trebbiano e ricevono paglia in pagamento,
Pochi che oziando posseggono, e reclamano il grano continuamente.
Questa è la città e io sono un cittadino,
Quanto interessa gli altri interessa anche me, politica, guerre, mercati, scuole, giornali,
Il sindaco e il consiglio comunale, banche, tariffe, fabbriche, navi, azioni, negozi, beni mobili e immobili.
I numerosi ometti che saltellano intorno incollettati e con le giacche a coda,
Io so bene chi sono (non sono né pulci né vermi, questo è certo),
Riconosco i duplicati di me stesso, il più debole e vacuo è insieme a me immortale,
Quello che faccio e dico attende anche loro,
Ogni pensiero che in me si dibatte, in essi si agita ugualmente.
Conosco perfettamente il mio egotismo,
So dei miei onnivori versetti e so che non devo scriverne uno di meno,
E vorrei convincervi, chiunque voi siate, a esaltarvi con me.
Non parole di routine, questo mio canto,
È per domande brusche, è per balzare oltre e tuttavia avvicinare;
Questo libro stampato e rilegato – ma il tipografo e il ragazzino apprendista?
Queste fotografie bene inquadrate – ma tua moglie o l’amico fidato che stringi tra le braccia?
La nave corazzata di ferro, i possenti cannoni nelle torrette – ma il fegato del capitano e dei macchinisti?
Il cibo, nelle case, e i piatti e i mobili – ma l’ospite e sua moglie, e lo sguardo dei loro occhi?
Il cielo, lassù – ma qui, o alla porta accanto, o all’altro lato della strada?
I santi e i saggi della storia – ma tu?
Sermoni, fedi, teologia – ma l’insondabile cervello umano?
E che cos’è la ragione? e l’amore? e la vita?

43.
Non vi disprezzo preti di tutti i tempi, di tutto il mondo,
La mia fede è la più grande delle fedi, la più piccola delle fedi,
Comprende culti antichi e moderni, e quanto v’è tra l’antico e il moderno,
Persuaso che tornerò su questa terra di qui a cinquemila anni,
Attendo responsi dagli oracoli, onoro gli dèi, saluto il sole,
Mi creo un feticcio col primo sasso o tronco, faccio incantesimi con stecchi nel cerchio magico,
Aiuto il lama o il bramino a smoccolare le lampade degli idoli,
E danzo per le strade in processioni falliche, rapito e austero sono un gimnosofista nei boschi,
Bevo idromele dal teschio-coppa, ammiro gli Shasta e i Veda, do importanza al Corano,
Attraverso il teocalli macchiato di sangue rappreso schizzato dalla pietra e dal coltello, batto il tamburo di pelle di serpente,
Accetto i Vangeli, accetto colui che fu crocifisso, dando per certo che è divino,
M’inginocchio alla messa, mi alzo alta preghiera puritana, resto seduto paziente in un banco di chiesa,
Urlo e schiumo in una crisi di demenza o aspetto come morto che il mio spirito si desti,
Poso lo sguardo su selciato e terra o fuori del selciato e della terra
Appartengo a coloro che tracciano il cerchio dei cerchi.
Uno della combriccola centripeta e centrifuga, mi giro e parlo come uno che dia ordini prima della partenza.
O voi pieni di dubbi, sfiduciati depressi ed esclusi,
Frivoli, scontrosi, abbattuti, collerici, emotivi, scoraggiati, atei,
Conosco ciascuno di voi, conosco il mare di tormento, dubbio, disperazione, scetticismo.
Come schizza, come si contorce la coda della balena
Rapida come lampo, con spasmi e fiotti di sangue!
Calmatevi, code sanguinanti di scettici e cupi depressi,
Prendo il mio posto tra voi come tra gli altri,
Il passato è la spinta per voi, per me, e per tutti esattamente la stessa,
E ciò che è ancora intentato e sarà poi è per voi, per me e per tutti esattamente lo stesso.
Non so che cosa è intentato e verrà poi,
Ma so che a suo tempo si mostrerà sufficiente e non potrà fallire.
Chiunque passa è considerato, chiunque si ferma è considerato, nemmeno uno può fallire.
Non può fallire il giovane che morì e fu sepolto,
Non la ragazza che morì e gli fu messa accanto,
Non il bambino che si affacciò alla porta, e si ritrasse e non fu mai più visto,
Non il vecchio vissuto senza scopo, e ne prova amarezza peggiore del fiele,
Non quell’altro all’ospizio dei poveri, tubercoloso dal rum e dai disordini,
Non gli infiniti massacrati e naufraghi, né il bestiale Kobu detto lo sterco dell’umanità,
Non i sacchi fluttuanti a bocca aperta perché vi scivoli il cibo,
Né cosa alcuna in terra o sotto, nelle più antiche tombe della terra,
Né alcuna cosa nelle miriadi di sfere, né le miriadi di miriadi che le abitano,
Né il presente, né il più piccolo frammento conosciuto.

44.
È ora che mi spieghi, – alziamoci in piedi.
Quanto è noto lo rigetto da me,
tutti gli uomini e le donne li lancio in avanti, con me, verso l’Ignoto.
L’orologio segna il minuto – ma che mai segna l’eternità?
Le nascite ci hanno recato ricchezza e varietà,
altre nascite ci recheranno ricchezza e varietà.
Io non giudico uno più grande e uno più piccolo,
quanto riempie il suo spazio e il suo tempo è alla pari con il resto.
Gli uomini sono stati sanguinari o invidiosi, con voi, fratello, sorella?
Mi dispiace per voi, con me non sono stati né sanguinari né invidiosi,
Tutti sono stati gentili, con me, non tengo conto dei lamenti,
(Che cosa me ne faccio dei lamenti?).
Io sono l’apice delle cose compiute, e il serbatoio di quelle a venire.
I miei piedi si piantano sul vertice estremo della scala,
Sopra ogni gradino mucchi di ere, e mucchi più grandi fra gradino e gradino,
Quelli di sotto debitamente superati, e io continuo a salire e a salire.
Ascesa dopo ascesa, s’inchinano i fantasmi dietro di me,
Vedo laggiù in lontananza l’immenso Nulla primigenio, so che anch’io ne fui parte,
Attesi invisibile, da sempre, addormentato nella nebbia letargica,
E catturai il mio tempo, e non fui danneggiato dal fetido carbonio.
A lungo fui abbracciato – a lungo, a lungo.

Enormi furono i preparativi, per me,
Fedeli e amiche le braccia che mi hanno assistito.
Cicli di evi traghettarono la mia culla, remando e remando come allegri barcaioli,
Per farmi posto le stelle si tennero da parte nei loro propri cerchi,
Inviarono influssi a sorvegliare ciò che doveva contenermi.
Prima che io nascessi da mia madre, generazioni mi guidarono,
Il mio embrione non fu mai intorpidito, niente poteva soffocarlo.
Per lui la nebulosa si condensò in una sfera,
Gli strati lentamente si accumularono per sostenerlo,
Enormi vegetali lo nutrirono,
Sauroidi mostruosi lo trasportarono in bocca e lo depositarono con cura.
Tutte le forze sono state stabilmente impiegate per completarmi e allietarmi,
Ora, in questo luogo, io sto, con la mia anima robusta.

45.
O spanna di giovinezza! elasticità sempre tesa!
O età virile, equilibrata, florida e piena.
I miei amanti mi asfissiano,
Si affollano alle mie labbra, mi otturano i pori della pelle,
Mi danno spinte nelle strade e nei ritrovi pubblici, vengono nudi nottetempo a trovarmi.
Di giorno mi gridano Ohé! dagli scogli del fiume, girano e cinguettano sulla mia testa,
Mi chiamano per nome dalle aiuole, dai rampicanti, dall’intricato sottobosco,
Giungono in ogni momento della mia vita,
Sbaciucchiano il mio corpo con molli baci balsamici,
Mi donano in silenzio i loro cuori a piene mani perché mi appartengano.
Vecchiaia che sorgi maestosa! O benvenuta, grazia ineffabile dei giorni morenti!
Ogni condizione promulga non solo se stessa, ma anche ciò che verrà poi e nascerà da essa,
E il nero silenzio promulga come qualsiasi altra cosa.
Schiudo l’abbaino di notte e contemplo i sistemi sparsi per il cielo,
E ciò che vedo non è che l’orlo dei più remoti sistemi.
Oltre, sempre oltre essi spaziano, in perenne espansione,
In là, più in là, e sempre più in là, in eterno.
Il mio sole ha il suo sole e intorno a lui ruota obbediente,
E con i suoi compagni fa parte d’un gruppo d’un più vasto circuito,
E seguono mondi più grandi, che i maggiori di essi fanno sembrare granelli.
Non c’è sosta né potrà esservi sosta,
E se tu, io, e i mondi, sopra e sotto le loro superfici fossimo in questo momento nuovamente ridotti a una pallida nebbia fluttuante, sarebbe inutile, alla lunga,
Sicuramente arriveremmo ancora dove ora siamo,
E certamente andremmo oltre, e poi più lontano e più lontano.
Pochi quadrilioni di ere, pochi ottilioni di leghe cubiche, non turbano lo spazio né lo rendono impaziente,
Non sono che parti, ogni cosa non è che una parte.
Spingi lo sguardo il più lontano che puoi, oltre quello è l’illimite spazio,
Conta il più alto che puoi, oltre quello vi è il tempo infinito.
Conta più a lungo che puoi, da ogni parte è il tempo senza fine.
Il mio appuntamento è fissato, ed è certo,
Il Signore sarà ad aspettarmi, arriverò in perfetto accordo,
Il Grande Compagno, l’amante sincero per cui mi struggo, sarà là ad aspettarmi.

46.
So che ho la meglio sul tempo e lo spazio, e non fui mai misurato né mai lo sarò.
Sono il viandante perpetuo, (ascoltatemi tutti!)
I miei segni sono un impermeabile, un buon paio di scarpe, un bastone reciso nel bosco,
Nessun mio amico poltrisce sulla mia sedia,
Non ho cattedra, né chiesa, né filosofia,
Non invito nessuno a tavola, in una biblioteca, alla borsa
Ma ogni uomo, ogni donna io condurrò in vetta a un colle,
La mia sinistra agganciata alla sua vita,
La destra che indica paesaggi di continenti e una strada maestra.
Non io né alcun altro può percorrere quella strada per te,
Devi percorrerla tu.
Non è lontana, è facile raggiungerla,
Forse la percorri da quando sei nato, senza neppure saperlo,
Forse è dovunque, per acqua e per terra.
Accòllati i tuoi quattro stracci, figliolo, io prendo i miei e affrettiamoci,
mirabili città e libere nazioni raggiungeremo nel nostro cammino.
Se ti stanchi m’addosso i tuoi fardelli, e tu poggiami il grosso della mano sull’anca,
E a tempo debito mi renderai un uguale servizio,
Perché, una volta in cammino, non dobbiamo fermarci mai più.
Oggi, prima dell’alba, sono salito sul colle e ho contemplato il cielo gremito,
E ho detto al mio spirito: Quando avremo abbracciato quei mondi, e il piacere e la scienza di ogni cosa in quei mondi, ci sentiremo sazi e soddisfatti?
Rispose il mio spirito: No, perché, raggiunto quel termine, dobbiamo superarlo e procedere oltre.
Tu mi rivolgi anche domande e io ti ascolto,
E ti rispondo che non posso risponderti, che le risposte devi trovarle tu.
Ripòsati un momento, figlio caro,
Ecco biscotti per la tua fame, latte per la tua sete,
Ma non appena hai dormito e indossato abiti lindi ti bacio col bacio d’addio e t’apro il cancello, ché tu te ne vada.
Troppo a lungo hai sognato spregevoli sogni,
Ora ti lavo la cispa dagli occhi,
Devi abituarti al fulgore della luce e di tutti gli istanti della tua vita.
Troppo a lungo hai guazzato timido presso la riva, aggrappandoti a una tavola,
Ora voglio che tu divenga un nuotatore audace,
che ti tuffi nel mezzo del mare, e ne emerga, mi lanci un saluto, un grido, e che ridendo ti scrolli i capelli.

47.
Sono maestro di atleti,
Chi grazie a me espande un torace più ampio del mio dimostra l’ampiezza del mio torace,
E più onora il mio stile chi impara da esso ad annientare il maestro.
Il ragazzo che amo diventa un uomo non per virtù derivata, ma di suo pieno diritto,
Meglio canaglia, piuttosto che virtuoso per conformismo o paura,
Innamorato della sua ragazza, buon gustatore della sua bistecca,
Amore non corrisposto o noncuranza lo feriscono peggio d’un acciaio affilato,
Primeggia nella lotta, nel cavalcare, nel centrare un bersaglio, sa manovrare una vela, suonare il banjo e cantare,
A tutti gli insaponatori, preferisce le barbe, le cicatrici, le facce bucate dal vaiolo,
E quelli bene abbronzati a quelli protetti dal sole.
Insegno a deviare da me, ma chi può farlo?
Io ti seguo da questo momento dovunque tu sia,
Le mie parole ti ronzeranno nelle orecchie finché le avrai capite.
Non dico queste cose per un dollaro o per riempire il tempo mentre aspetto il battello,
(Siete voi che parlate al pari di me, io non sono che la vostra lingua,
Che è legata nella vostra bocca, mentre la mia comincia a sciogliersi).
Giuro che mai più menzionerò amore e morte in una casa,
E giuro che non tradurrò mai più me stesso, se non per quello o quella che staranno con me all’aria aperta.
Se vorrete capirmi andate su un’altura o in riva all’acqua,
Il primo moscerino è un chiarimento, e una goccia o un movimento delle onde una chiave,
Il maglio, il remo, la sega, assecondano le mie parole.
Nessuna stanza chiusa, nessuna scuola può andare d’accordo con me,
Ma rozzi e bambini vi riescono meglio.
Il giovane operaio è il più vicino a me, e mi conosce bene,
Il taglialegna che porta con sé ascia e brocca mi porta con sé tutto il giorno,
Il ragazzo che ara nel campo si sente bene al suono della mia voce,
Le mie parole fanno vela con le navi, vado con pescatori e marinai, e li amo.
Il soldato accampato è dei miei, e quello in marcia,
La notte che precede una battaglia sono in molti a cercarmi, e io non li trascuro,
In quella notte solenne (che può essere l’ultima) chi mi conosce mi cerca.
Il mio viso sfiora il viso del cacciatore che giace avvolto nella sua coperta,
Il carrettiere che mi pensa non bada più agli scossoni del carro,
La giovane madre, la vecchia madre, mi comprendono,
La maritata e la ragazza depongono l’ago un momento e dimenticano dove si trovano,
Esse e tutti vorrebbero riassumere quello che ho detto loro.

48.
Ho dichiarato che l’anima non vale più del corpo,
E ho dichiarato che il corpo non vale più dell’anima,
E nulla, neppure Dio, per nessuno è più grande del suo proprio io,
Che chi fa duecento yarde senza simpatia è come se seguisse il proprio funerale vestito del sudario,
Che senza un soldo in tasca, tu e io, possiamo comperare la parte migliore della terra,
Che dare un’occhiata o mostrare un fagiolo nel suo baccello confonde il sapere d’ogni tempo,
Che non c’è impiego o attività in cui il giovane non possa diventare un eroe,
Che non v’è oggetto così tenero da non poter formare il mozzo del rotante universo,
E che dico a ogni uomo e a ogni donna: L’anima vostra resti calma e serena davanti a un milione di universi.
E dico a tutta l’umanità: Non siate curiosi circa Dio,
Perché io che sono curioso di tutto non sono curioso di Dio,
(Nessun insieme di parole può esprimere quanto io sia tranquillo circa la morte e Dio).
Ascolto e vedo Dio in ogni oggetto, eppure non capisco minimamente Dio,
Né che possa esserci qualcuno più meraviglioso di me stesso.
Perché dovrei desiderare di veder Dio meglio di oggi?
Vedo qualcosa di Dio in ogni ora delle ventiquattro, in ogni loro istante,
Vedo Dio in ogni volto umano e nel mio allo specchio,
Trovo lettere inviate da Dio per le strade, ciascuna firmata col suo nome,
E le lascio dove si trovano, perché io so che, dovunque mi diriga,
Altre ne arriveranno puntualmente, sempre e per sempre.

49.
Quanto a te, Morte, e al tuo implacabile abbraccio, è inutile tentare di allarmarmi.
Senza esitare l’ostetrico compie il suo lavoro,
Vedo l’anziana mano che preme, riceve, sorregge,
Mi adagio presso le soglie delle preziose cedevoli porte,
E noto l’uscita, noto il sollievo e l’evasione.
E quanto a te, Cadavere, penso che sei un buon concime, e questo non mi offende.
Odoro le candide rose profumate e fiorite,
Mi accosto a labbra di foglie, tendo la mano alle lisce mammelle dei meloni.
Quanto a te, Vita, penso tu sia il residuo di numerose morti
(Senza dubbio anche io sono già morto diecimila volte).
Vi sento bisbigliare, stelle del cielo,
E voi soli – e tu erba delle tombe – oh perenni passaggi e accrescimenti,
Se voi non dite nulla, come posso io dire qualcosa?
Dal torbido stagno della foresta autunnale,
Dalla luna che scende il pendio del sospiroso crepuscolo,
Spargetevi scintille del giorno e del crepuscolo – spargetevi sui neri fusti che marciscono nel fango,
Sul lamentoso farfugliare dei rami secchi.
Io m’innalzo dalla luna, m’innalzo dalla notte,
M’avvedo che la luce spettrale è riflesso dei raggi del sole meridiano,
E sbocco nel fisso e nel centrale dalla progenie del piccolo o del grande.

50.
C’è questo in me – non so che cosa sia – ma so che è in me
Contorto e sudato – il mio corpo poi diventa calmo e fresco,
Ed io dormo – dormo a lungo.
Non lo conosco – non ha un nome – è una parola non detta,
Non si trova in nessun dizionario, in nessun simbolo, in nessuna espressione.
Qualcosa lo fa oscillare più che la terra dove oscillo io,
La creazione è la sua amica che mi sveglia con un abbraccio.
Forse potrei dire anche di più. Abbozzi! Io tutelo i miei fratelli e le mie sorelle.
Vedete, fratelli miei, sorelle mie?
Non è caos, non è morte – è forma, unione, piano, – è vita eterna – è Felicità

51.
Il passato e il presente appassiscono – io li ho colmati e svuotati,
E procedo a riempire la mia prossima piega del futuro.
Ascoltatore, lassù! che hai da confidarmi?
Guardami in faccia, mentre aspiro il furtivo avanzar della sera,
(parla sinceramente, nessun altro ti udrà, io non m’attardo che un minuto ancora.)
Mi contraddico?
Molto bene, allora, mi contraddico,
sono largo, contengo moltitudini.
Mi concentro su chi mi è vicino, aspetto sulla soglia della porta.
Chi ha compiuto la sua giornata di lavoro? Chi ancora prima avrà finito la cena? Chi vuole camminare con me?
Parlerai prima che me ne vada? O quando sarà troppo tardi?

52.
Il grigiolato sparviero accanto mi saetta e mi accusa, si lamenta delle mie chiacchiere, del mio indugio.
Anch’io non sono affatto domato, anch’io sono intraducibile,
E lancio il mio barbarico yawp sopra i tetti del mondo.
L’ultimo barbaglio del giorno s’attarda per me,
Riflette la mia immagine dietro le altre, esatta come qualsiasi altra per il deserto d’ombre,
E m’induce alle brume ed al crepuscolo.
M’allontano come l’aria, scuoto i miei bianchi cernecchi al sole che sfugge,
Effondo la mia carne nei riflussi, la trascino per brecce frastagliate.
Mi lascio in eredità alla terra, per rinascere dall’erba che amo,
Se ancora mi vuoi, cercami sotto la suola delle scarpe.
A malapena saprai ch’io sia, che cosa significhi,
Ma tuttavia t’infonderò salute,
Purificherò, rafforzerò il tuo sangue.
Se subito non mi trovi non scoraggiarti,
Se non mi trovi in un posto cercami in un altro,
In qualche posto mi sono fermato e t’attendo.

Walt Whitman, “Canto di me stesso”

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