Magazzino Memoria

L’ospedale di Careggi

14.01.2022
“Il 4 o 5 agosto 1944 i tedeschi fecero sfollare e rinchiudere dentro l’ospedale di Careggi tutti gli abitanti della zona. Con barroccini portammo materasse o altro e ci adattammo nelle corsie nei padiglioni di Careggi, laddove le cliniche erano vuote.
In quell’area avevano trovato rifugio anche dei partigiani che stavano chiusi nella clinica che noi si chiamava “Il Lazzeretto”. Grande fu l’aiuto che il personale, dottori ed infermieri, dettero a tutti ricoverando perfino nel reparto tubercolotici dei partigiani della Brigata Fanciullacci. Per coprirli usavano uno stratagemma: i partigiani e gli altri uomini validi mettevano in bocca della polvere d’uovo e tossendo sputavano delle patacche gialle; in questo modo i tedeschi scansavano quel reparto perché ne erano terrorizzati.
Per venticinque giorni abbiamo vissuto sotto l’arbitrio e la dominazione tedesca e sotto l’incubo dei cannoneggiamenti di chi non si sa.
In questi bombardamenti a casaccio, morirono sfollati e malati, morì anche la compagna Primetta Bartolini, staffetta partigiana. Per sostenerci fummo costretti a mangiare granturco in chicchi, tralci di vite, erba dei giardini. Ma quando li trovammo facemmo grande festa agli animali da laboratorio: fra i quali i polli, i conigli e le cavie del reparto sperimentazione dell’ospedale.
In particolare ricordo il maiale: a detta di mio padre macellaio era di una grossezza spaventosa, fu ucciso e lo mangiammo in tanti. E in tanti il giorno dopo si affollava locali di decenza e prati vari.
Dopo l’insurrezione di Firenze, l’11 di agosto, e l’avvicinamento del fronte, le persone che avevano trovato rifugio nell’ospedale cominciarono a scappare per la fogna. La via di fuga era un po’ scomoda: 1500 metri nelle fogne dall’interno dell’Ospedale fino a Piazza Dalmazia.
Fu tirata una corda e si cominciò l’esodo. Qualcuno vide e fece la spia, i tedeschi minarono le fogne per impedire la fuga dall’ospedale, ferirono e catturarono due sfollati, li curarono e poi li fucilarono alla presenza dei familiari.
Il 27 agosto i tedeschi mi presero ma mi fu possibile fuggire grazie ad una scarica di mortaio che ferì i rastrellatori e il mio amico Mario. Lui, che era di costituzione più robusta della mia, venne ripreso da un tedesco ferito che gli montò a cavalcioni e si fece portare al comando situato in una delle ville signorili sopra Careggi. Mario tornò a casa nel luglio 1945.
Poi, la mattina del 31 agosto arrivarono i partigiani della 3° Rosselli. Liberarono e rastrellarono il complesso ospedaliero tra lacrime di gioia, saluti, urla: come erano belli!
Oddio, il primo che vidi non era certo un bel “Ribelle della Montagna”, piccolo e secco, scuro al di fuori dei canoni dell’immaginazione popolare. Seppi dopo che era un calabrese che aveva fatto tutta la trafila in montagna dall’8 settembre in poi e che aveva posato l’occhio su una bella “Luger” che avevo alla cintola dei pantaloni.
Arrivarono anche dei compagni conosciuti e mi sentii meglio, il calabrese mi guardò con l’occhio meno cupido e tutto fu risolto.
La vita riprese e si ritornò nelle case, si facevano grandi progetti.
Intanto i tedeschi avevano fatto saltare delle abitazioni, in particolare il casamento in angolo tra Via delle Panche e Via Michelazzi, e nascosto sotto le macerie delle mine. Erano dappertutto: nei campi, dietro le porte, sotto i letti, sugli alberi. Le “mine” divennero il terrore delle genti.
Tante furono individuate e segnalate secondo le istruzioni ricevute dal Gen. Alexander, segnalate con un cartello “MINEN” e ci prendemmo le prime critiche per la strana dizione italiana.
Il 1° settembre di sera ci fu uno scontro con una pattuglia di guastatori tedeschi, uno fu preso prigioniero. Ma non fu possibile consegnarlo agli alleati perché fece un tentativo di fuga.(dissero quelli che furono lasciati a guardia).
Fu stabilito di organizzare per il 3 settembre una festa per i partigiani e ci demmo da fare. Con Nino andammo a caccia di bevande. In una casa vinicola trovammo una vasca di marsala, ma trovammo anche una decina di soldati inglesi che bevevano usando il tipico elmetto a scodella. Dopo un poco erano sufficientemente ubriachi per farsi portar via un revolver a tamburo che avrebbe fatto invidia ad un cowboy, e una piccola damigiana di marsala.
Ritornammo verso la casa del popolo, si doveva passare sulle macerie, all’andata un anziano era scivolato, la mina non era scoppiata e gli “esperti” che ci sono sempre in ogni momento dissero che erano finte. Ma Nino mi disse: “Dammi la damigiana, la porto io, tu vai avanti”. Io ubbidii. Avevo appena passato le macerie quando fui investito da uno spostamento d’aria e sassi che mi scaraventò 5 metri più in là.
Mi alzai stordito e dolorante, mi girai e Nino non c’era più; era stato squartato e buttato a venti-venticinque metri sulle macerie, il busto senza gambe, la testa mezza staccata. Come un automa cominciai a raccogliere i pezzi, piangevo e tremavo, la gente guardava come sbigottita.
Poi vennero i Fratelli della Misericordia di Rifredi e mi portarono via, mi dissero dopo che avevo raccolto quasi tutto quanto era possibile.
La madre di Nino non resse al dolore del secondo figlio morto in guerra e morì poco dopo.
A Primetta Bartolini venne dedicata una cellula femminile della Sezione delle Panche del PCI, a Vinicio Bagalini (Nino) una cellula maschile.”
Giovanni Baldini (26-11-2005)
(L’autore è testimone diretto di quell’esperienza e della vita della zona di Firenze vicina all’Ospedale di Careggi di quegli anni.)

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