Riflessioni

Alberto Manzi, il maestro degli italiani

18.01.2022

Siete capaci di camminare da soli a testa alta, perché nessuno di voi è incapace di farlo. Ricordatevi che mai nessuno potrà bloccarvi se voi non lo volete, nessuno potrà mai distruggervi, se voi non lo volete. Perciò avanti serenamente, allegramente, con quel macinino del vostro cervello sempre in funzione; con l’affetto verso tutte le cose e gli animali e le genti che è già in voi e che deve sempre rimanere in voi; con onestà, onestà, onestà, e ancora onestà, perché questa è la cosa che manca oggi nel mondo e voi dovete ridarla; e intelligenza, e ancora intelligenza e sempre intelligenza, il che significa prepararsi, il che significa riuscire sempre a comprendere, il che significa riuscire ad amare, e… amore, amore “.

Alberto Manzi

Per chi non lo ricordi e per chi non l’abbia mai conosciuto, Alberto Manzi è stato “il maestro degli italiani“.
È stato lui che, per otto anni, dal 1960 al ’68, ha condotto  “Non è mai troppo tardi“, una trasmissione televisiva così importante da ricevere, nel 1965, il Premio dall’Unesco come “uno dei migliori programmi televisivi per la lotta contro l’analfabetismo“.
Così importante da essere adottato da molti altri Paesi e da tanti altri docenti, ai quali fu proprio lui a fare scuola.
Così importante che “Non è mai troppo tardi” è diventato perfino un modo di dire, anche se siamo in molti a non ricordarne o ad ignorarne l’origine.

Avevi due lauree quando sei stato scelto per la conduzione del programma, una in Biologia e l’altra in Filosofia e Pedagogia. Ah, dimenticavo! Avevi anche una specializzazione in Geografia.
Però qui, in Rai,  sei soltanto un “insegnante distaccato”.
Continuavo a percepire il mio stipendio di maestro elementare. Dalla Rai ricevevo un ‘rimborso-camicia’ perché il gessetto nero che usavo per fare i disegni era molto grasso, si attaccava ai polsini della camicia e li rovinava…
E pensare che avresti voluto entrare in Marina!
Il mio sogno da ragazzo era di fare il capitano di lungo corso, per cui ho studiato all’Istituto nautico“.
Ma dai, Maestro Manzi, di’ la verità, ché quel sogno te lo portavi nel cuore!
L’Istituto Nautico lo frequentavo perché mi piaceva, ma pensando sempre di fare il maestro. Facendo la guerra, poi, ho scoperto che tante cose per cui si pensava valesse la pena vivere erano solo delle falsità. Soprattutto dopo l’esperienza della guerra, l’idea fissa che avevo era di aiutare i ragazzi,  rinnovare un po’ la scuola, per cambiare certe cose che non mi piacevano”.
Eppure non è a scuola che sei andato ad insegnare, o almeno, non in una scuola “normale”. Se non sbaglio, ti hanno spedito  nel  carcere minorile “Aristide Gabelli” di Roma.
Una prova al limite dell’impossibile: niente libri, niente quaderni, niente banchi. Solo una stanza in cui è stipata
una novantina di ragazzi dai 9 ai 17 anni, venuti da chissà dove e  di fronte ai quali si sono già arresi quattro insegnanti ben più “navigati” di te.
E tu che ti sei inventato?! Hai pensato bene di “raccontare la storia di un gruppo di castori che lottano per salvare la propria libertà”.
Però quella storia diventa la “loro” storia, il “loro” sogno di libertà.  Così la mettono in scena e poi cominciano a lavorare ad un giornale, “La Tradotta“. Sarà il primo giornale nato da un carcere.
Di tutti quei ragazzi, quando sono usciti dal carcere, solo 2 su 94, così mi fu detto, sono rientrati in prigione”.
E bravo il nostro Maestro! Forse te lo sei meritato, tutto sommato, quello stipendio di 9.000 lire al mese.

Queste prime esperienze, però, sono state fin troppo illuminanti: ti sei reso conto, anzi, hai toccato con mano tutto il marciume del sistema “made in Italy”.
E siccome non hai peli sulla lingua, non hai avuto remore a scrivere addirittura a Guido Gonella, il Ministro della Pubblica (d)Istruzione, inviandogli i tuoi “Pensierini sulla scuola d’oggi“. Era il 1950, vero?
Sono forse pensierini cattivi… avvelenati dalla bile di un fegato marcio. Scuola d’oggi: rovina di un prossimo futuro. Il male è alle radici, è nel tronco, è nei rami: ovunque. È nei maestri, nei direttori, negli ispettori, nel ministro. Cosicché le patrie galere rigurgitano di minorenni. Maestri impreparati e che non vogliono prepararsi sono dilagati nella scuola travolgendo i pochi onesti…“Ti sei preparato?” “No. Che importa? Conosco il tale…”.
In un mondo come questo, forse il destino di molto di noi è un po’ quello di “Orzowei“, il “trovato”, ma anche quello che è stato più volte abbandonato e che ha provato sulla sua pelle il peso della solitudine, dell’incomprensione, dei pregiudizi.
Ecco: quando ci conosciamo, anche se la nostra pelle è di un altro colore, ci amiamo.”
Appunto, “quando” ci conosciamo. “Se” facciamo qualcosa per conoscerci”.

Anche tu ti sei sentito spesso come Orzowei, vero? È stato questo il motivo che ti ha spinto a partire per la foresta amazzonica?
Vi andai per studiare un tipo di formiche, ma scoprii altre cose che per me valevano molto di più”.
Erano gli indios, vero, quelli che hai scoperto? Quei “nativos” che il governo teneva nell’ignoranza per poterli sfruttare ammazzandoli di lavoro e depredandone tutte le risorse.
Ci sei ritornato per vent’anni di seguito nella foresta amazzonica, fino al 1984: queste erano le tue “vacanze”.
Ci sei ritornato perfino di nascosto, dopo aver subito il carcere e le torture riservati ai ribelli. Perché questo eri, per il governo: un pericoloso ribelle “guevarista”.

Quando sei arrivato alla Rai non avevi ancora maturato tutto questo bagaglio di esperienze. Però, ancora prima di quel format ideato da Nazareno Padellaro, avevi capito quali e quante potenzialità educative e didattiche potesse avere la radio. È cominciata così la tua collaborazione con la “Radio per le scuole“, durata ben 40 anni, dal 1956 al ’96. Un vero e proprio laboratorio di idee, di letture, di testi scritti da te ma anche dai giovani e giovanissimi che seguivano le tue trasmissioni.
Un dialogo a distanza, che non dimenticava i nostri connazionali emigrati all’estero e neppure gli stranieri che cercavano di imparare la nostra lingua. Erano le “Curiosità delle lingua italiana”.
Anche in questo campo sei stato un antesignano.

Leggo che sei stato un poeta. Non lo sapevo. Ma non c’è bisogno di scrivere poesie per diventarlo.
Tu riuscivi ad essere un poeta anche quando insegnavi a leggere e a scrivere.
Non insegnavo a leggere e scrivere: invogliavo la gente a leggere e a scrivere“.
Sarà come dici tu, ma solo un vero poeta può scrivere:

… perché così non saremo uno,
soli, sotto il tacco del potere,
ma noi, tutti, un uno plurimo
che cantiamo la gioia
di essere uomini.

Maddalena Vaiani

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