Pensieri

Il kintsugi, l’arte di riparare le cicatrici

18.01.2022

Una lunga amicizia porta gli stessi identici segni di una tazza annerita dal tempo; ci sono incrinature e ombre negli oggetti quotidiani così come ci sono momenti di incrinatura e ombra nelle amicizie. Per non gettare via una tazza, come per costruire una amicizia, ci vogliono due sentimenti ormai inusuali ma importantissimi, come la pazienza e la fedeltà. La pazienza per il suo ruolo somiglia ad un mattone, la fedeltà ad una radice. La pazienza è l’antidoto alla fretta, la fedeltà quello al consumo. Se penso a loro come ad una immagine fisica penso a dei piccoli mattoni oppure a delle radici. Con i mattoni si costruisce, grazie alle radice si cresce”.

Susanna Tamaro

Racconta un’antica leggenda che Ashikaga Yoshimasa (1435-1490), ottavo shogun dell’epoca Muromachi, avesse mandato a riparare in Cina la sua tazza preferita, proprio quella che era solito usare per la cerimonia del tè.
La tazza, però, gli ritornò indietro soltanto dopo una lunghissima attesa e per giunta rabberciata alla meno peggio, tanto che il tè colava fuori dalle incrinature, che erano state grossolanamente fermate con delle grappe metalliche. Irritato e deluso, Ashikaga ordinò ai suoi artigiani di trovare una soluzione.

Il “kintsugi” (o “kintsukuroi”) sarebbe nato così.

Commetterebbe un errore grossolano chi pensasse alla pura e semplice abilità di riparare gli oggetti.
In realtà il kintsugi è  un’arte vera e propria, che li rende più belli e più preziosi e, nel contempo, è anche una filosofia di vita: il “wabi-sabi”.

Wabi-sabi è la bellezza delle cose imperfette, transitorie e incomplete.
È la bellezza delle cose modeste e umili.
È la bellezza delle cose insolite”.

Leonard Koren

Fondato sulla dottrina zen della sofferenza (“dukkha“) e dell'”impermanenza (“anitya“) di tutte le cose, ma anche  sull'”anātman“, l’inconsistenza
dell’io (in sostanza, su ciò che la filosofia occidentale tradurrebbe nel concetto del “divenire”), il wabi-sabi è la “bellezza triste”, misteriosa, sfuggente, impalpabile.
È la bellezza del fiore che appassisce, è l'”hanami“, la contemplazione del ciliegio che lentamente sboccia alla vita.
È l’arte del tè o quella di riparare un vaso rotto per renderlo più bello.
Wabi-sabi significa arrendersi al non essere, al vuoto, all’assenza, alla caducità della vita.
Wabi-sabi significa accettare l’imperfezione, le cicatrici aperte dal tempo e dal dolore.

Si racconta che Sen no Rikyū (1522-1591), uno dei più celebri maestri del tè, durante un invito a cena, si vide offrire dal suo ospite una preziosissima coppa, alla quale peraltro non prestò la minima attenzione, assorto piuttosto nella contemplazione del ramo di un albero dolcemente cullato dal vento.
Quando  Sen no Rikyū lasciò la casa, il proprietario, furibondo, ruppe il vaso in mille pezzi, ma i suoi amici saggiamente lo aggiustarono con la tecnica del kintsugi. Durante la sua successiva visita in quella casa, Sen no Rikyū rimase sbalordito e affascinato da quelle splendide cicatrici riparate con l’oro: “Ora sì che è magnifico!“.

Hibi“: riparare la creta.
Kake no Kintsugi Rei“:  creare il pezzo mancante.
Yobitsugi“, l'”invito ad unirsi”, complice un pezzo ricavato da un’altra porcellana.
E poi pazientemente, accuratamente, saldare ogni frattura con una lacca particolare, l'”urushi“, una resina naturale estratta dalla “Rhus  verniciflua“. Anche questa un’arte millenaria che sembra risalire al periodo “Jomon“, circa 5.000 anni fa.
Infine, ricoprire lo strato finale con polvere d’oro o d’argento, brunito con una pietra d’agata.
Precisione, tempo, attenzione, delicatezza, pazienza, cura, attesa…
Finché la bellezza rinascerà, diversa, nuova.
Finché le ferite potranno mostrare tutto il loro splendore.

Un’antichissima leggenda persiana racconta di un re che chiese ad un vecchio saggio di incidere su un anello d’oro una frase così profondamente vera da riuscire a condensare il senso stesso della vita, di ogni vita.
Il vecchio obbedì e restituì l’anello al suo sovrano.
Dentro c’era scritto: “Anche questa passerà“.

Le nostre ferite, i graffi, le cicatrici, i segni, del corpo e dell’anima,  meritano di essere riparati con la stessa cura.
Nasconderli non serve. Nasconderli è impossibile e doloroso.
E ognuna di quelle ferite, di quei graffi, di quelle cicatrici, del corpo e dell’anima, è un frammento della nostra storia, quella che ci ha permesso di essere le persone che siamo oggi.
Belli così. Ricchi di un’esistenza vissuta fino in fondo.
Capaci di trasformare le crepe in colori, ricoperti di polvere d’argento e d’oro, bruniti con la pietra d’agata.
Più forti, più belli, più preziosi che mai.
Scolpiti dalla pazienza del tempo e dall’arte sapiente di credere in se stessi.

Nell’arte del Kintsugi vediamo in atto una straordinaria operazione: il vaso è ancora quello di prima anche se non è più quello di prima. Ha cambiato immagine, è un altro vaso, eppure è costruito sui resti del vaso rotto. Nonostante il trauma della sua rottura, grazie alle mani sapienti del vecchio artigiano è divenuto l’occasione per una nuova creazione. I punti di rottura sono stati dipinti d’oro; le cicatrici sono divenute poesie. In questo senso l’esperienza del perdono è un’esperienza di resurrezione. L’amore che pareva morto, finito, gettato nella polvere, senza speranza, ritorna in vita, ricomincia, riparte.

Massimo Recalcati, da “Mantieni il bacio”

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