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Testimonianze della Shoah: Mario Spizzichino

29.01.2022
“Il 16 ottobre, in via Baccina, il padrone del bar mi avvertì che un gruppo di tedeschi andava in cerca in tutte le case del quartiere degli ebrei. Tornai a casa e dissi a mia madre e a mio fratello di non uscire perché era molto pericoloso e allora presi il tram scendendo a Ponte Garibaldi. Mi tenni lontano dal ghetto e ai giardinetti di San Carlo al corso, in via Arenula, mi fermai nel centro di un gruppo di persone che stavano guardando da lontano lungo via di Santa Maria del Pianto. Fu una cosa terrificante: i tedeschi, in assetto di guerra, spingevano coi calci dei loro mitra della povera gente inerme per Teatro Marcello. Potei vedere uomini, donne, vecchi, paralitici, bambini, ammalati, e alcuni con le loro valigie che erano ad aspettare i cani delle SS.
Ebbi paura che nel gruppo qualcuno mi riconoscesse, tagliai la corda e ritornai a casa portando via mia madre e mio fratello.
Decisi di andare verso il quartiere San Paolo dove vi era un mio amico caro, Giuseppe Sala. Questo mio amico aveva un negozio, un magazzino più che altro, di carta da macero. Mi accolse e mi dette subito ospitalità nel suo magazzino dove mi tenne nascosto per qualche giorno a dormire sulle balle di carta. Non durò a lungo questo nascondiglio, perché una donna urlò che dovevamo andar via perché sennò avrebbe chiamato i tedeschi. Per la strada nel quartiere vidi una famiglia disperata che cercava un rifugio per nascondersi. Era la famiglia Di Veroli: marito e moglie con due figli. Chiamai anche loro, per portarli nel mio nascondiglio. Così anche loro per qualche giorno si nascosero nel magazzino, dormendo sopra le balle di carta.
Dopo qualche giorno, a causa di quella donna che insisteva, dovemmo lasciare questo nascondiglio e andare ognuno per i fatti suoi.
Non ci vedemmo più.
Non era rimasto altro che tornare a casa. Qui la signora Assunta ci rassicurò, dicendo di stare tranquilli perché tutti gli inquilini erano bravi e che non ci avrebbero mai tradito. Quando fui certo che mia madre e mio fratello potevano stare al sicuro, andai via perché volevo andarmene da Roma. In via Arenula mi incontrai con un mio amico.
Decidemmo di partire verso le montagne in Abruzzo, perchè ci informarono che vi erano dei soldati italiani che aspettavano di raggiungere gli alleati. Abbiamo preso un treno e siamo andati ad Avezzano.
Ad Avezzano, di notte, un po’ smarriti, abbiamo visto una signora in una casetta e abbiamo chiesto se poteva ospitarci per il fatto che c’era il coprifuoco. Questa donna ci dette ospitalità nelle sue stalle, ci dette anche un bicchiere di latte, poi ci disse che il giorno appresso avremmo dovuto andarcene, perché anche lei aveva paura.
Così la mattina seguente ci indicò dove dovevamo andare per stare tranquilli. Ci indicò di passare verso la montagna e arrivare a un paese, Sant’Aglione, un paesetto piccolo nel quale rimanemmo sbalorditi nel vedere i soldati alleati che stavano giocando col pallone in piazza. Erano dei soldati che erano scappati dopo l’8 settembre dai campi di concentramento. Qui, in questa casa dove c’era scritto “Spaccio”, vi era una brava signora con due figlie e il signor Antonio, che era una guardia campestre. Lui ci ospitò, ci dette anche da mangiare e noi gli confidammo che volevamo trovare il modo di incontrarci con le truppe alleate. Lui ci assicurò che il giorno seguente saremmo andati su per le montagne, dove vi era un accampamento di questi soldati. Così il giorno seguente ci siamo messi in marcia; dopo tante ore sulle montagne siamo arrivati nel campeggio, ma non c’era nessuno. La nostra vita continuò per qualche giorno così, in questo paesetto di Sant’Aglione: gente buona, che quando passavamo ci offriva da mangiare quello che aveva.
Poco tempo dopo Giovanni, il calzolaio di via della Reginella, ci dice che doveva ritornare a Roma.
Ritornando a Roma avevo bisogno di trovare qualche cosa da portare a casa da mia madre. Allora cercai un carrettino in affitto a via dei Vascellari e mi recai presso piazza Istria, da quelle parti, e trovai da comprare delle bottiglie usate. Era l’unico modo che potevo trovare per sbarcare il lunario e rivenderle. Una fruttivendola mi disse che aveva molte bottiglie e io le dissi che volevo comprarle, però non avevo tanti soldi. Contrattai insomma un prezzo, ma i soldi non bastavano a soddisfare la sua richiesta. Allora le lasciai un po’ di soldi, insieme alla mia carta d’identità, che il giorno seguente avrei ripresa.
Il giorno seguente, nel l’andare a prendere queste bottiglie, cercai il mio socio, Di Castro.
Tante volte avevamo fatto degli affari insieme. Lo cercai all’isola Tiberina e gli chiesi venire con me. Ho anche rimorso perché lo pregai tanto di venire a fare questo affare con me. Così prendemmo un carrettino e andammo su. Però, passando per via Goito, fui fermato da un agente di pubblica sicurezza, proprio davanti alla Questura: era uno della Vai, la polizia che aveva aderito alla Repubblica sociale, che mi disse: “Un momento, datemi i documenti”. Io dissi al mio compagno: “Dagli tu i documenti”, ma anche lui non li aveva. Ma poi pensai: può darsi che sia un po’ umano e comprensivo, insomma, prova a dirgli quello che sta succedendo. Gli dissi che noi eravamo ebrei. E lui disse: “Soltanto un momento, il tempo per identificarvi.”
In quel momento, quando entrando nell portone, ci prese a schiaffi e ci disse: “Sporchi giudii!” Da lì cominciò il mio calvario.
Dentro il carcere trovai altri due miei amici, Angelo Vivanti e Raffaele Terracina; così da lì dopo alcuni giorni fummo portati a Regina Coeli, al sesto braccio, dove si sentivano lamentele, spari, eccetera. Altri compagni miei trovai dentro al carcere, compagni di scuola: Davide Moresco, Anselmo Calò e altre persone.Dopo poco tempo, alcuni giorni, ci chiamarono all’appello fuori dalle celle, tutti inquadrati, ammanettati. Fecero l’appello e uscimmo dal carcere. C’erano dei pullman ad aspettarci. In quel momento un altro pullman dietro noi arrivò: erano donne e bambini che erano stati catturati e portati al carcere minorile di Porta Portese. Queste famiglie ci raggiunsero coi loro mariti, i figli, e lì cominciò il nostro calvario. Da lì ci hanno messo in cammino per giorni e giorni su questi pullman con una guardia di sicurezza e i fascisti che ci facevano da scorta. Arrivammo al carcere di Castelfranco Bolognese. Qui passammo qualche nottata e poi riprendemmo il cammino, verso il campo di concentramento Fossoli di Carpi. Vi erano già tante persone là, che erano già state prese prima di noi, come le sorelle Di Veroli, Silvia e Giuditta Di Veroli e altre persone. Qui incontrai un mio zio, Alberto Spizzichino, fratello di mio padre, il quale mi raccontò di essere stato preso dalla banda Pollastrini, bastonato a Palazzo Braschi e poi dato in mano ai tedeschi. E qui mio zio un po’ mi abbracciò e mi disse: “Figlio caro, se ti riesce di scappare, scappa via perché non sappiamo più che fine facciamo.”
In questo campo c’erano anche dei carabinieri di servizio, ma qualcheduno aveva pure il coraggio di scappare perché non ce la faceva a fare la sorveglianza a della povera gente, delle povere creature, dei poveri ragazzi che stavano in questo campo.
Io lavoravo con una ditta di Carpi facendo il muratore: aiutavo come apprendista, e mi dissero che se uno di noi tentava di fuggire avrebbero ucciso dieci persone. Avevo molte possibilità di scappare, ma non avevo il coraggio di farlo, vse poi avessero ammazzato dieci persone per colpa mia. Così seguii la corrente.
Un giorno poi vennero dei camion: ci hanno portato a Modena nei vagoni, rinchiusi con donne, bambini, vecchi, dottori, avvocati, di alto e basso ceto, tutti insieme. In ogni vagone c’era un fascista di dietro e le SS davanti ai vagoni che davano ordini. Quando si arrivava nelle pianure, aprivano gli sportelli e dovevamo fare i nostri bisogni sotto i binari dei vagoni, sotto il sorriso e le angherie dei fascisti e qualcuno che diceva: “Se volete scappare scappate, così facciamo il tirassegno”. Una cosa vergognosa, per noi, fare i nostri bisogni vicino a donne, uomini, alla meglio, come potevamo. Non c’era altra soluzione.
E si riprende il cammino per giorni, quattro, cinque, sei giorni. Entrati in Austria ci hanno fermato, ci dettero il latte, delle crocerossine, con del semolino caldo. Quello fu un ristoro che, insomma, si poteva accettare, dopo tanti giorni dentro ai vagoni chiusi.
Arrivammo ad Auschwitz di notte: si sentivano le urla dei cani, delle lunghe file che cantavano una canzone che non si capiva. Alcuni portavano delle strisce rosse, altri vestiti bianchi e azzurri, zebrati, proprio come una zebra.
La mattina ci aprirono i vagoni con delle urla “Schnell, alle heraus”, fuori tutti. Là vi erano dei dottori, degli ufficiali vestiti con dei camici bianchi come se fossimo gente da macello e facevano le spartizioni di donne e bambini da una parte e dall’altra; alcune volevano il marito, una cosa straziante. Dovevamo seguire e stare zitti e venivamo bastonati. La nostra sosta a Birkenau fu di pochi minuti e poi ci misero in cammino verso il campo di Auschwitz.
Non so se fossero due o tre chilometri: lì c’era un cancello sul quale c’era scritto: “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Ci spogliarono tutti nel centro di un Block, tutti nudi e ci dissero di non tenere nulla di nostro, che se avessero trovato una fotografia o qualsiasi oggetto ci avrebbero puniti severamente.
Ci dissero di entrare dentro ad un posto dove c’era scritto “Waschraum”, bagno, ma non sapevamo che quel bagno era a doppio uso. Lì cominciarono prima a rasarci da tutte le parti del corpo; dopo ci costrinsero a fare il bagno con acqua bollente e acqua gelata. Appena fuori, fecero il numero sul braccio a ciascuno di noi. Io divenni il numero 180098. Da quel momento, avevamo un numero e un’etichetta sopra ogni vestito, con la stella di Davide. Sulla stella, vicino, vi era il numero che noi portavamo sopra il braccio. Dopo aver fatto la quarantena, fui messo al servizio interno del campo, portando contenitori, da mangiare.
Al campo le prime botte con malvagità le ebbi da un kapò perché scendendo le scale voleva che andassi più svelto. Così dopo alcuni giorni, qualche mese, ci trasferirono. Mi separai da mio zio ad Auschwitz, non lo rividi più. Con i camion ci portarono a una certa distanza da Auschwitz, a Sosnowitz. Qui a Sosnowitz abbiamo passato le più brutte giornate. Ci facevano lavorare notte e giorno in una fabbrica bellica dove si costruivano delle granate per bombe. La mattina, quando si usciva dal campo, dovevamo cantare gli inni nazisti; se qualcuno non cantava veniva tempestato di percosse. Così all’entrata e così all’uscita.
Un giorno, si avvicina il Natale del ’44, si sentono già le cannonate dei russi e allora aspettavamo la liberazione. Ma non fu così. Un giorno un gruppi di russi tentarono la fuga, e due di loro furono presi. In quel momento in mezzo al campo vi erano degli alberi per festeggiare il Natale. Questi due russi li hanno messi su un tavolone, dove hanno piazzato la forca e noi dovevamo assistere all’ impiccagione di questi due sventurati perché avevano tentato la fuga. Il capoblocco, che era un criminale tedesco internato, mettendo loro la corda al collo li prese a schiaffi, cosa che anche l’ufficiale deplorò.
Ecco un giorno, una mattina, una campanella suona: tutti fuori, preparare quello che avevamo e mettersi in marcia, una marcia forzata. In diversi villaggi e in qualche città, quando passavamo, alcuni giovani ci gettavano addosso dei sassi, strillando: “Maledetti ebrei”. Queste sono parole sentite molte volte, qualche volta abbiamo incontrato anche qualche gruppo di soldati italiani che rimanevano impressionati dal fatto che camminavamo: eravamo degli scheletri umani che camminavano. Nelle città ci facevano andare piano, ma quando si arrivava nei boschi chi non ce la faceva gli sparavano un colpo. Anch’io stavo per fare la stessa fine.Molte volte pensavo di camminare su uno straccio o qualche cosa sotto i piedi: invece era un nostro compagno di sventura che cadeva in terra, non aveva più forza di camminare ed era spacciato.
Diverse soste abbiamo fatto: una volta, mi ricordo una scuola, dei banchetti, di notte, come scolari. Sempre guardati. Un’altra volta in un teatro, un’altra volta in una fattoria, un’altra volta in un mattatoio.
Arrivammo in una città. Qui siamo ancora rimontati sopra dei vagoni bestiame e rinchiusi dentro, 40, 50 persone che ci battevamo uno con l’altro per stare più larghi.
Un giorno un grande bombardamento ci prese in pieno sulle rotaie dei nostri vagoni: balzavamo da una parte all’altra e pregavamo Dio che qualche bomba cadesse sopra di noi per farla finita con questa vita.
Arrivammo a Mauthausen. Aperti i vagoni, molti compagni nostri erano rimasti lì morti in quella stazione. Così vidi anche il mio compagno di scuola, Davide Moscati, che non ebbe più la forza di rialzarsi.
Prendemmo a camminare su per la collina per arrivare a Mauthausen. Mentre stavo per cadere, Lungarino detto Vittorio Piazza, mi alzò in tempo per non farmi sparare dalle SS. Arrivammo alla fortezza di Mauthausen. Lì ci spogliarono, ci dettero un nuovo numero, ci rimandarono al bagno, ci fecero dei segni, che non sapevamo dove dovevamo andare, e ci portarono alla baracca della quarantena. Lì dentro tutti sul pavimento messi testa e piedi e straziati dai dolori che avevamo: un kapò con una cinta e con bastoni ci tempestò di botte camminando sopra qualsiasi persona che strillava, che si lamentava, dicendo: “Ruhe! Silenzio!”.
Ecco un’altra nuova selezione nella quale anch’io fui selezionato. Ero ridotto così malamente che fui portato nel Revier, il campo di sotto, vicino alla scala della morte. Lì si entrava vivi e si usciva morti. Ebbi modo di vedere tanti poveri detenuti deportati, che portavano le pietre su questa scala della morte di 186 scalini. Quando uno portava una pietra più piccola, gli davano un calcio, e lo buttavano giù e sotto era un macello di ossa rotte e di sangue. Cercammo molte volte di uscire da questa baracca, perché vedevo che quella era la mia fine. Mi incontrai con una persona, mi guardava, mi abbracciava, ma non sapevo chi era. Era il mio ex cognato, Settimio Di Veroli, detto il Milanese perché era nato a Milano. Stentai molto a riconoscerlo, perché eravamo irriconoscibili uno con l’altro. Talmente scheletriti…Eppure camminavamo, non so come avessimo questa forza di camminare.
Un giorno potei anche rivedere il mio amico, Teo Ducci, di Firenze, che serviva al meglio chiunque potesse avere bisogno delle sue cure come infermiere.
Poi, un altro giorno, ebbi una grande bastonata sulla gamba sinistra e mi venne una grande suppurazione sulla gamba. Lì c’era il dottor Calore di Milano. Il dottor Calore era un grande chirurgo che era stato deportato per politica e mi disse che se volevo salvare la gamba bisognava fare un intervento. Mi tagliò alla meglio come poteva, e mi levò tutto quel pus che era nella gamba, che mi si era talmente gonfiata che non ce la facevo a tenerla.
Poi incontrai un altro amico, Angelo Salmoni. Mi abbracciò dicendo che ormai gli americani stavano vicini. Un giorno – avevo la dissenteria – trovai un pezzo di carbone da stufa, da mangiare per calmarla. Ma un kapò mi ha visto, mi ha dato tante di quelle bastonate e mi ha portato fuori dicendomi: “Morgen Krematorium”, domani mattina al crematorio. Invece non so come è stato che il sabato, lo ricordo proprio come un sogno, sentii degli strilli, dei canti: “Americani, americani!”.
Il giorno appresso mi son trovato in un altro ospedale, a Gusen. I letti, che erano a castello, erano stati tagliati e separati uno dall’altro con delle lenzuola candide, bianche, e avevano i cuscini: lì vidi qualche compagno mio di Rodi, che era vicino a me e cercava di darmi la forza di resistere.
Gli americani subito ci dettero medicinali, viveri, amore e senso di solidarietà. Eravamo ridotti in pochi; tanti dei nostri erano morti in quella sorte maledetta e i vivi assomigliavano a morti. Così, dopo poco tempo, da Gusen ci trasferimmo un’altra volta a Mauthausen.
Qui incontrai un mio amico, Vito, che aveva paura di abbracciarmi. Come dire: che, abbraccio un morto che cammina? Mi portò dentro una baracca e mi rividi con i miei compagni: Alberto Mieli, Giacomo Moscati e Raimondo.
Il mio cervello era ridotto come quello di un bambino, raccoglievo delle cose inutili per terra, con una sacchetta. Anzi, a Raimondo detti un vasetto e gli dissi che era bello e lo doveva regalare alla sua fidanzata quando ritornava.
Io ero molto appassionato di musica, di “Speranze perdute”, e avevo molte sigarette che avevo chiesto agli americani ma io non fumavo mai, non ho mai fumato. Andai da Chicco Calò e da Raimondo, che avevano trovato dentro la baracca una chitarra e dissi loro: suonatemi “Speranze perdute” e vi regalo tutte queste sigarette. Loro accettarono e mi suonarono “Speranze perdute” e io piangendo sentivo questa musica che stava nel mio cuore.

Mario Spizzichino

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