Linguaggi

Paesaggi

31.01.2022
“È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo.
La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.”
Fernando Pessoa
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εὕδουσι δʼ ὀρέων κορυφαί τε καὶ φάραγγες
πρώονές τε καὶ χαράδραι
φῦλά τʼ ἑρπέτ’ ὅσα τρέφει μέλαινα γαῖα
θῆρές τʼ ὀρεσκώιοι καὶ γένος μελισσᾶν
καὶ κνώδαλʼ ἐν βένθεσσι πορφυρέας ἁλός·
εὕδουσι δʼ οἰωνῶν φῦλα τανυπτερύγων.

Alcmane

(Dormono le cime dei monti
e gli abissi
e i promontori e le forre,
e le stirpi degli animali
che la nera terra nutre,
e le fiere montane
e la progenie delle api
e i mostri nei gorghi profondi
del mare di viola;
dormono le stirpi
degli uccelli dalle lunghe ali.)
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Paesaggio
“Nel paesaggio dell’antico maestro
gli alberi hanno radici sotto la pittura a olio,
di sicuro il sentiero conduce alla meta,
un filo d’erba sostituisce autorevole la sigla,
sono le cinque, credibili, del pomeriggio,
il maggio è trattenuto in modo delicato, ma deciso,
così mi sono fermata anch’io – sì, mio caro,
sono io quella donna sotto il frassino.
Guarda quanto mi sono allontanata da te,
che cuffia bianca ho, che gonna gialla,
come stringo il cestino per non cadere dal quadro,
come sfoggio un destino altrui
e mi riposo dai misteri vivi.
Anche se mi chiamassi non ti sentirei,
e anche se ti udissi, non mi volterei,
e anche se io facessi quel gesto impossibile,
il tuo viso mi parrebbe estraneo.
Conosco il mondo per sei miglia intorno.
Conosco erbe ed esorcismi per ogni malanno.
Dio guarda ancora il mio cucuzzolo.
Continuo a pregare di non morire all’improvviso.
La guerra è castigo, e la pace premio.
I sogni vergognosi vengono da Satana.
Ho un’anima ovvia come un nocciolo di prugna.
Non conosco i giochi del cuore.
Non conosco le nudità del padre dei miei figli.
Non credo che il Cantico dei Cantici
abbia una brutta copia contorta e tormentata.
Quello che voglio dire è in frasi fatte.
Non uso la disperazione, non è cosa mia,
me l’hanno solo affidata in custodia.
Anche se mi tagliassi la strada,
anche se mi guardassi negli occhi,
ti scanserei sull’orlo di un abisso più sottile d’un capello.
A destra c’è la mia casa, che conosco da ogni lato,
insieme ai suoi scalini e all’entrata,
e dentro accadono storie non dipinte:
il gatto salta sulla panca,
il sole cade sulla brocca di zinco,
dietro al tavolo siede un uomo ossuto
e aggiusta un orologio.”

Wislawa Szymborska, “Paesaggio”, da “Uno spasso”

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“Foresta della Chitarra”,  a sud di Cordoba , nella Pampa Argentina

 

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Paesaggio aborigeno
“Stai pestando tuo padre, disse mia madre,
ed in effetti stavo esattamente al centro
di un tappeto erboso, così curato che avrebbe potuto
essere la tomba di mio padre, pur se non v’era lapide a segnarla.
Stai pestando tuo padre, ripeté,
più forte questa volta, il che mi parve strano,
poiché era morta; l’aveva ammesso anche il medico.
Mi spostai leggermente di lato, fin dove
finiva mio padre e mia madre iniziava.
Il cimitero era silenzioso. Vento soffiava tra gli alberi;
sentivo un suono flebile di pianto a molte file di distanza,
e, più oltre, il guaito di un cane.
Infine i suoni tacquero. Mi venne in mente
che non ricordavo d’essere stata condotta lì,
in quello che ora pareva un cimitero, benché potesse essere
solo nella mia mente un cimitero; forse era un parco, o se non un parco,
un giardino, o una pergola, profumata, ora notavo, di rose –
douceur de vivre colmava l’aria, la dolcezza del vivere,
come si dice. A un certo punto,
mi resi conto d’essere sola.
Dov’erano le altre,
le cugine e mia sorella, Caitlin e Abigail?
La luce stava ormai scemando. Dov’era l’auto
che ci aspettava per portarci a casa?
Cercai allora qualche alternativa. Avvertii
crescere l’impazienza, direi approssimarsi l’ansia.
Infine, in lontananza, scorsi un trenino,
fermo, sembrava, dietro del fogliame, il controllore
poggiato a una portiera, fumava una sigaretta.
Non si scordi di me, gridai mentre correvo
superando molte tombe, molti padri e madri–
Non si scordi di me, gridai quando infine lo raggiunsi.
Signora, disse, indicando i binari,
certo si rende conto che questo è il capolinea, i binari non vanno oltre.
Le sue parole erano dure, eppure gli occhi erano gentili;
questo m’incoraggiò a insistere di più.
Ma ritornano indietro, dissi e gli feci notare
la loro robustezza, come ancora avessero in sé molti di quei ritorni.
Sa, disse, il nostro è un lavoro difficile: ci confrontiamo
con tanto dolore e delusione.
Mi guardò con crescente franchezza.
Un tempo ero come lei, aggiunse, innamorato dell’agitazione.
Allora gli parlai come si parla a un caro amico:
Che le è successo, dissi, poiché era libero di andarsene,
non desidera tornare a casa,
di rivedere la città?
È questa la mia casa, disse.
La città – la città è dove io scompaio.”
Louise Gluck
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La mappa

“Piatta come il tavolo
sul quale è posata.
Sotto – nulla si muove,
né cerca uno sbocco.
Sopra – il mio fiato umano
non crea vortici d’aria
e lascia tranquilla
la sua intera superficie.
Bassopiani e vallate sono sempre verdi,
altopiani e montagne sono gialli e marrone,
oceani e mari – di un azzurro amico
sui margini sdruciti.
Qui tutto è piccolo, vicino, alla portata.
Con la punta dell’unghia posso schiacciare i vulcani,
accarezzare i poli senza guanti grossi,
posso con un’occhiata
abbracciare ogni deserto
insieme al fiume che sta lì accanto.
Segnalano le selve alcuni alberelli
tra i quali è ben difficile smarrirsi.
A est e ovest, sopra e sotto
l’equatore, un assoluto
silenzio sparso come semi,
ma in ogni seme nero
la gente vive.
Forse comuni e improvvise rovine
sono assenti in questo quadro.
I confini si intravedono appena,
quasi esitanti – esserci o non esserci?
Amo le mappe perché dicono bugie.
Perché sbarrano il passo a verità aggressive.
Perché con indulgenza e buon umore
sul tavolo mi dispongono un mondo
che non è di questo mondo.”

Wisława Szymborska, “La mappa”, da “Basta così”

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Vassily Kandinsky, “Gabriele Munter“,  1905 
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Addio a una vista

“Non ce l’ho con la primavera
perché è tornata.
Non la incolpo
perché adempie come ogni anno
ai suoi doveri.

Capisco che la mia tristezza
non fermerà il verde.
Il filo d’erba, se oscilla,
è solo al vento.

Non mi fa soffrire
che gli isolotti di ontani sull’acqua
abbiano di nuovo con che stormire.

Prendo atto
che la riva d’un certo lago
è rimasta – come se tu vivessi ancora –
bella com’era.

Non ho rancore
contro la vista per la vista
sulla baia abbacinata dal sole.

Riesco perfino ad immaginare
che degli altri, non noi,
siedano in questo momento
su un tronco rovesciato di betulla.

Rispetto il loro diritto
a sussurrare, a ridere
e a tacere felici.

Suppongo perfino
che li unisca l’amore
e che lui la stringa
con il suo braccio vivo.

Qualche giovane ala
fruscia nei giuncheti.
Auguro loro sinceramente
di sentirla.

Non pretendo alcun cambiamento
dalle onde vicine alla riva,
ora leste, ora pigre
e non a me obbedienti.

Non pretendo nulla
dalle acque fonde accanto al bosco,
ora color smeraldo,
ora color zaffiro,
ora nere.

Una cosa soltanto non accetto.
Il mio ritorno là.
Il privilegio della presenza –
ci rinuncio.

Ti sono sopravvissuta solo
e soltanto quanto basta
per pensare da lontano.”

Wisława Szymborska, “Addio a una vista”, da “La fine e l’inizio”

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Ho visto
“Ho visto sulla neve
un cervo preso in trappola.
Ho visto sullo stagno
un annegato galleggiare.
Ho visto sulla spiaggia
una dura conchiglia.
Ho visto sulle acque
i tremolanti uccelli.
Ho visto nelle città
dei servili dannati.
Ho visto nella pianura
il polverone dell’ odio.
Ho visto sul mare
il sole amaro.
Ho visto nello spazio
questo secolo che passa.
Ho visto nei cieli
degli occhi impenetrabili.
Ho visto nella mia anima
la cenere e la fiamma.
Ho visto nel mio cuore
un nero dio vincitore.”

Marguerite Yourcenar, da “I Doni di Alcippe”

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Il filo d’erba

“Era ormai secco e spezzato io
lo conoscevo era nato tra le pietre
abbandonate
perché voleva vivere da solo e vedere
la corsa delle nubi dalle creste d’oro
a mezzogiorno il sole lo guardò con malvagi
occhi infuocati l’indomani
lo tormentava la fame si piegò morì
allora il vento tiepido e tenue
gli fece una carezza”

Àgota Kristòf, “Il filo d’erba”

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Carlo Carrà, “Verso il tramonto”, 1927
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Lucania
“Io lo conosco
questo fruscio di canneti
sui declivi aridi
contesi alla frana
e queste rocce magre
dove i venti e le nebbie
danno convegno ai silenzi
che gravano a sera sul passo stanco dei muli.
È poca l’acqua che scorre
e le vallate son secche
spaccate, d’argilla.
Di qui le mandrie migrano
con l’autunno avanzato
per la piana delle marine
tuffando i passi nelle paludi.
Di qui è passata la malaria
per le stazioncine sul Basento
squallide, segnate d’oleandri.
Da noi la malvarosa è un fiore
che trema col basilico
sulle finestre tarlate
in un vaso stinto di terracotta
e il rosmarino cresce nei prati
sulle scarpate delle vie
accanto ai buchi delle talpe.
Da noi riposa il falco e la civetta
segna la nostra morte.
Da noi il mondo è lontano,
ma c’è un odore di terra e di gaggia
e il pane ha sapore del grano.”

Mario Trufelli, “Lucania”, da “Prova d’addio – Paese giorno e notte”

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La betoniera

“L’acqua ha già il sale e su, le petroliere,
versano olio, come condimento,
alla zuppa di pesce navigante.
e la gabbia del cielo ha le sue penne
che portano la cacciagione in volo
e i vermi sono filo per cucire,
che tiene insieme ogni zolla nera
e il tutto è nella pancia di dio padre,
che ci mescola, dolce betoniera.”

Guido Oldani, “La betoniera”

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Notte in riva al fiume

“Silenzioso tetto nel cielo,
guizzi di raggi di luce,
fiume che scorre nel buio,
rive bordate da salici.
I salici si tendono ai salici
come a voler darsi la mano
o a discorrere dei segreti del fiume.
I salici si piegano al fiume,
il fiume ne riflette le ombre.
Sono salici le ombre dei salici
o immagini del loro essere?
Le luci delle rive
si infiltrano nei vuoti tra i rami
sull’acqua creano strisce diverse
là chiare là scure
come all’alba tra le nubi di oriente.
I pochi riflessi chiari svelano il fiume
e la malinconia del suo corso nel buio.”

Chu Tzu-ch’ing, “Notte in riva al fiume”

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L’alba in Ria de Aveiro (Portogallo)

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Portami il tramonto in una tazza

“Portami il tramonto in una tazza
conta le anfore del mattino
le gocce di rugiada.
Dimmi fin dove arriva il mattino
quando dorme colui che tesse
d’azzurro gli spazi!
Scrivimi quante sono le note
nell’estasi del nuovo pettirosso
tra i rami stupefatti quanti passetti
fa la tartaruga
Quante coppe di rugiada beve
l’ape viziosa!
E chi gettò i ponti dell’arcobaleno,
chi conduce le docili sfere
con intrecci di tenero azzurro?
Quali dita congiungono le stalattiti,
chi conta le conchiglie della notte
attento che non ne manchi una?”

Emily Dickinson

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Montagne care

 

“Montagne care, voi non mi mentite –
non mi mandate via, né mai fuggite.
Quegli occhi sempre fissi – sempre uguali –
mi guardano lontani, viola, lenti –
quando fallisco o fingo, o quando invano
mi attribuisco titoli regali.

Mie potenti madonne, sotto il colle,
abbiate cara la monaca riottosa
che si dedica a voi completamente.
Il suo ultimo gesto di pietà –
quando il giorno svanisce su nel cielo –
è levare lo sguardo verso voi.”

Emily Dickinson

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Ero perso con lo sguardo

“Ero perso con lo sguardo verso il mare
ero perso con lo sguardo nell’orizzonte
tutto e tutto appariva come uguale
poi ho scoperto una rosa in un angolo di mondo,
ho scoperto i suoi colori e la sua disperazione
di essere imprigionata fra le spine
non l’ho colta ma l’ho protetta con le mie mani,
non l’ho colta ma con lei ho condiviso il profumo
e le spine, tutte quante.”

Hafiz (Khāje Shams o-Dīn Moḥammad Ḥāfeẓ-e Shīrāzī: mistico e poeta persiano del Trecento)

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Franco Fontana, “Calabria”, 1990 

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Ti direi volentieri, ma non posso

“Ti direi
di quelle nuvole smaltate di rosso
come unghia finte tolte al tramonto.
Ti direi
di quella coperta blu
che è mare arricciato nei miei pensieri.
Ti direi
Di quella Luna pazza
che ride alla morte dei sogni d’innocenza.

Non posso parlarti di poeti assolti
né redimerne i versi.
Anche se il paradiso fosse verità
non vuol dire che sia vero.
Non posso dirti di alberi sfrondati dal dolore
né di erba che cresce la speranza.
Anche se l’inferno fosse inganno
non vuol dire che sia falso.
Ti dico solo
cibati di vita fin quando è vera
anche se non vuol dire che sia reale.”

Vladimir Holan, “Ti direi volentieri, ma non posso”

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Dormi valle

“Dormi, valle
presto con la nebbia azzurra copri il cielo
e gli occhi pallidi dei gigli selvatici
dormi, valle
presto coi passi della pioggia insegui il vento
e l’inquieto grido del cuculo

Dormi, valle
noi ci nascondiamo qui
come in un sogno millenario
il tempo non scivola più sulle foglie d’erba
il pendolo del sole fermo dietro le nubi
non alterna più tramonti e aurore

Boschi roteanti
scagliano innumerevoli pigne dure
proteggendo due file di orme
la nostra infanzia assieme alle stagioni
ha camminato per quel sentiero ricurvo
dove il polline inonda i cespugli di rovi

Ah, che quiete
le pietre lanciate non hanno eco
forse tu stai cercando qualcosa
– da cuore a cuore
un arcobaleno si alza silenzioso
– da occhio a occhio

Dormi, valle
dormi, vento
valle, dormi nella nebbia azzurra
vento, dormi nelle nostre mani”

Bei Dao, “Dormi valle”, da “Nuovi poeti cinesi”

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Paesaggio in movimento

“Si deve saper andare via
e tuttavia essere come un albero:
come se le radici rimanessero nel terreno,
come se il paesaggio si muovesse e noi restassimo fermi.
Si deve trattenere il fiato,
finché si calma il vento
e l’aria estranea inizia a girarci intorno,
finché il gioco di luci e ombre,
di verde e di blu,
crea gli antichi disegni
e siamo a casa,
ovunque essa sia,
e possiamo sederci e appoggiarci,
come se fossimo alla tomba
di nostra madre.”

Hilde Domin, “Paesaggio in movimento”

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Io mi porto questo verde alle labbra

“Io mi porto questo verde alle labbra
questo vischioso giurare di foglie –
questa terra che è spergiura: madre
di bucaneve, aceri, quercioli.
Mi piego alle umili radici, e guarda
come divento insieme cieco e forte;
non fa dono, il risonante parco
di una sontuosità eccessiva agli occhi?
E – palline di mercurio- le rane
con le voci s’agglomerano a palla;
i nudi stecchi si mutano in rami
e in lattea finzione il vapore dell’aria.”
Osip Mandel’štam, 30 aprile 1937
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Così vado nel bosco

“Di solito vado nel bosco da sola,
non con un solo amico,
perché sono tutti sorridenti e chiacchieroni
e quindi inadatti.
Non voglio proprio essere vista parlare con gli uccelli
o abbracciare la vecchia quercia nera.
Ho i miei modi di pregare,
come senza dubbio tu hai i tuoi.
Inoltre, quando sono sola,
posso diventare invisibile.
Posso sedermi sulla cima di una collinetta,
immobile come un cespuglio di rovi,
fino a quando le volpi mi passano accanto indifferenti,
e riesco a sentire il suono quasi insopportabile
delle rose canine che cantano.
Se ti ho lasciato venire nel bosco con me,
devo amarti moltissimo.”

Mary Oliver

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Gerardo Dottori, “Primavera umbra”, 1945

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L’incanto nei boschi senza sentiero
“Vi è un incanto nei boschi senza sentiero.
Vi è un’estasi sulla spiaggia solitaria.
Vi è un asilo dove nessun importuno penetra
in riva alle acque del mare profondo,
e vi è un’armonia nel frangersi delle onde.
Non amo meno gli uomini, ma più la natura
e in questi miei colloqui con lei io mi libero
da tutto quello che sono e da quello che ero prima,
per confondermi con
l’universo
e sento ciò che non so esprimere
e che pure non so del tutto nascondere”
Lord George Gordon Noel Byron
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Canti Pisani
“Quello che veramente ami rimane,
il resto è scorie
Quello che veramente ami non ti sarà strappato
Quello che veramente ami è la tua vera eredità
Il mondo a chi appartiene, a me, a loro
o a nessuno?
Prima venne il visibile, quindi il palpabile
Elisio, sebbene fosse nelle dimore d’inferno,
Quello che veramente ami e’ la tua vera eredita’
La formica e’ un centauro nel suo mondo di draghi.
Strappa da te la vanità, non fu l’uomo
A creare il coraggio, o l’ordine, o la grazia,
Strappa da te la vanità, ti dico strappala
Impara dal mondo verde quale sia il tuo luogo
Nella misura dell’invenzione, o nella vera abilità dell’artefice,
Strappa da te la vanità,
Paquin strappala!
Il casco verde ha vinto la tua eleganza.
“Dominati, e gli altri ti sopporteranno”
Strappa da te la vanità
Sei un cane bastonato sotto la grandine,
Una pica rigonfia in uno spasimo di sole,
Metà nero metà bianco
Né distingui un’ala da una coda
Strappa da te la vanità
Come son meschini i tuoi rancori
Nutriti di falsità.
Strappa da te la vanità,
Avido di distruggere, avaro di carità,
Strappa da te la vanità,
Ti dico strappala.
Ma avere fatto in luogo di non avere fatto
questa non è vanità Avere, con discrezione, bussato
Perché un Blunt aprisse
Aver raccolto dal vento una tradizione viva
o da un bell’occhio antico la fiamma inviolata
Questa non è vanità.
Qui l’errore è in ciò che non si è fatto, nella diffidenza che fece esitare”
Ezra Pound
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Foto di Robin Marcus
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Corso del fiume
“Lì va il fiume,
con le sue mille forme,
le onde i salti,
guardando il mare,
alle spalle la montagna.
Va elegante,
signore degli affluenti.
Sbatte,
senza sapere che sono le sue pietre,
le muscose pietre del fondo,
quelle che cambiano il suo corso.”
Giselle López Fernández (poetessa cubana), “Corso del fiume”
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Equinozio ’75
“Stufa di uomini e donne
non per questo elogio
con patetico romanticismo
la saggezza delle bestie
(a differenza nostra: sono
sagge senza bisogno di lodi).
Ammiro le stelle ma non
disprezzo i dotti Astronomi
che dopo tutto le fissano
molto più spesso di me.
Nella malattia canto, ancora, ostinata,
le mie passioni intellettuali.
Non me la prenderò con Jeffers:
rivolgiti alle pietre che sono qui
prima di noi e ci resisteranno.
Una pietra è insensata se non la guardi.
È di pietra il paesaggio
che mi abita in questi giorni: montagne,
stelle, cieli spaccati.
Neanche un albero. Spiagge
vuote al crepuscolo.
Una stella
è pietra in fiamme.
La mente, l’occhio
sono polvere di pietra, stella sbriciolata
e luce che riempie i vuoti
pura luce.
Il grigio greto su cui cammino:
è forse il principio
o il margine dell’ultima parola?
Non so nulla. Cammino
da sola, ai bordi di tutto,
arrabbiata, impaurita, di tutto incerta
con gli occhi aperti in un ruggito.
Ursula Kroeber Le Guin, “Equinozio ’75
*****
Foto in evidenza di Sonia Simbolo

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