Pensieri

Alda Merini: “una diversa”

03.02.2022

“Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio, ero poco più di una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito, in attesa che qualche cosa di bello si configurasse al mio orizzonte; del resto, ero poeta e trascorrevo il mio tempo tra le cure delle mie figlie e il dare ripetizione a qualche alunno, e molti ne avevo che venivano e rallegravano la mia casa con la loro presenza e le loro grida gioiose.
Insomma, ero una sposa e una madre felice, anche se talvolta davo segni di stanchezza e mi si intorpidiva la mente. Provai a parlare di queste cose a mio marito, ma lui non fece cenno di comprenderle e così il mio esaurimento si aggravò e, morendo mia madre, alla quale io tenevo sommamente, le cose andarono di male in peggio, tanto che un giorno, esasperata dall’immenso lavoro e dalla continua povertà e poi, chissà, in preda ai fumi del male, diedi in escandescenze e mio marito non trovò di meglio che chiamare un’ambulanza, non prevedendo certo che mi avrebbero portata in manicomio.
Fu lì che credetti di impazzire.
Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all’uomo e che l’uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire.
Fui quindi internata a mia insaputa, e io nemmeno sapevo dell’esistenza degli ospedali psichiatrici perché non li avevo mai veduti, ma quando mi ci trovai nel mezzo credo che impazzii sul momento stesso: mi resi conto di essere entrata in un labirinto dal quale avrei fatto molta fatica a uscire.
Mi ribellai. E fu molto peggio.
La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale.
Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti.
Non era forse la mia una ribellione umana?
Non chiedevo io di entrare nel mondo che mi apparteneva?
Perché quella ribellione fu scambiata per un atto di insubordinazione?
Un po’ per l’effetto delle medicine e un po’ per il grave shock che avevo subito, rimasi in stato di coma per tre giorni e avvertivo solo qualche voce, ma la paura era scomparsa e mi sentivo rassegnata alla morte.
Quella scarica senza anestesia.
Dopo qualche giorno, mio marito venne a prendermi, ma io non volli seguirlo.
Avevo imparato a riconoscere in lui un nemico e poi ero così debole e confusa che a casa non avrei potuto far nulla.
E quella dissero che era stata una mia seconda scelta, scelta che pagai con dieci anni di coercitiva punizione.
Il manicomio era sempre saturo di fortissimi odori.
Molta gente addirittura orinava e defecava per terra.
Dappertutto era il finimondo.
Gente che si strappava i capelli, gente che si lacerava le vesti o che cantava sconce canzoni.
Noi sole, io e la Z., sedevamo su di una pancaccia bassa, con le mani raccolte in grembo, gli occhi fissi e rassegnati e in cuore una folle paura di diventare come quelle là.
In quel manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock.
Ogni tanto ci assiepavano dentro una stanza e ci facevano quelle orribili fatture. Io le chiamavo fatture perché non servivano che ad abbrutire il nostro spirito e le nostre menti.
La stanzetta degli elettroshock era una stanzetta quanto mai angusta e terribile; e più terribile ancora era l’anticamera, dove ci preparavano per il triste evento.
Ci facevano una premorfina, e poi ci davano del curaro, perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa.
Molte piangevano.
Qualcuna orinava per terra.
Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne.
Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa.
E ancora ne conservo l’atroce ricordo.”

 

“Al principio del ’65 quando ancora le leggi erano molto restrittive, ai malati era consentito così poco che nemmeno gli si dava la libertà nel lavarsi. È chiaro che il malato di mente non ha nessuna voglia di rendersi bello proprio perché, essendo stato strappato via dalla società, non ha più voglia di avere contatti con l’esterno.

Allora si ricorreva ad un mezzo coercitivo. Venivamo tutti allineati davanti a un lavello comune, denudati e lavati da pesanti infermiere che ci facevano poi asciugare in un lenzuolo eguale per capienza a un sudario, e per giunta lercio e puzzolente. Alle più vecchie facevano tremare le flaccide carni e così, nude come erano, facevano veramente ribrezzo. La prima volta che dovetti sottostare a questa rigida disciplina svenni, e per lo schifo, e perché ero così indebolita dalla degenza che non mi reggevo più in piedi.
Ci allineavano tutte davanti a un lavello comune con i piedi nudi per terra fissi nelle pozzanghere d’acqua. Poi ci strappavano di dosso i pochi indumenti (il camicione dell’ospedale di lino grezzo eguale per tutti, che aveva dei cordoncini ai lati e che lasciava filtrare aria da tutte le parti).
Poi le infermiere passavano ad insaponarci anche nelle parti più intime, e ci asciugavano in un comune lenzuolo lercio. Le più vecchie cadevano a terra per il modo maldestro con cui venivano trattate. Alcune scivolavano, altre battevano pesantemente la testa.
Io, ogni mattina, davanti a quel lavello e all’odore terribile del luogo, svenivo e venivo ripresa con male parole e buttata sotto l’acqua diaccia.
Si veniva fuori da quell’inferno già stordite, con la riprova che la nostra demenza rimaneva un fatto inspiegabile e che non avrebbe avuto alcuna verità razionale.
Poi ci allineavano su delle pancacce sordide, vicino a dei finestroni enormi, e lì stavamo a guardare per terra come delle colpevoli, ammazzate dall’indifferenza, senza una parola, un sorriso, un dialogo qualunque.
Io avevo sete di verità e non capivo come ero potuta capitare in quell’inferno. Disposta naturalmente al razionalismo, avvezza a cercare il perché di tutte le cose, ero spaventata dall’oscenità dell’ignoranza che si adoperava in quei luoghi. Il demente viene considerato “incapace di intendere e di volere”. Eppure, sotto la diagnosi serpeggiava quieta la mia anima dolce, rasserenante, un’anima che non era mai stata tanto luminosa e vitale e a volte, per consolarmi, pensavo che quella brutta vestaglia azzurra fosse il saio di San Francesco e che io di proposito l’avessi scelto per umiliarmi.
Così in questo modo gentile adoperai il silenzio e mi venne fatto di incontrarvi il mio io, quell’io identico a se stesso che non voleva, non poteva morire.”

Alda Merini, da “L’altra verità, Diario di una diversa”, 1986

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