Magazzino Memoria

L'”imbecillità” della guerra

04.02.2022
“Non posso scordare la guerra. Lo vorrei. A volte passo due, tre giorni senza pensarci, ma bruscamente, d’improvviso, la rivedo, la sento, la subisco, e soffro, ancora. E ho paura.
Questa sera: la fine di una bella giornata di luglio. I campi sono rossi. Abbiamo tagliato il grano. L’aria, il cielo, la terra sono immobili e quieti. Sono passati vent’anni. Ma nonostante vent’anni, malgrado la vita, il dolore e la felicità, non mi lavo via di dosso la guerra. L’orrore di quei quattro anni è sempre con me. Ne porto il marchio. Tutti i sopravvissuti ne sono marchiati.
Sono stato soldato di seconda classe, fanteria, reggimenti di montagna. Con M.V., il mio capitano, siamo i soli sopravvissuti dell’avanguardia della sesta compagnia. Ci siamo fatti Les Éparges, Verdun-Vaux, Noyon-Saint-Quentin, la “Strada delle Signore”, Pinon, Chevrillon, Le Kemmel. La sesta compagnia è stata riempita di uomini, a centinaia. La sesta era il recipiente della 27ma divisione, come un sacco per il grano. Quando il sacco si svuotava, quando restavano soltanto pochi uomini, sul fondo, come piccoli grani conficcati tra le maglie, il sacco veniva di nuovo riempito di uomini freschi. Cento e cento volte è stata riempita la sesta compagnia. E centinaia di volte è stata svuotata. Siamo gli ultimi sopravvissuti, io e M.V.
Vorrei che leggesse queste righe. Farà come me, la notte, sperando di dimenticare. Si siede sul bordo della sua terrazza, guarda il fiume verde, untuoso, che scorre serpentino dentro un bosco di pioppi. E ogni due o tre giorni soffre. Come me, come tutti. E sarà sempre così, fino alla nostra fine.
No, non mi vergogno di me stesso. Nel 1913 ho rifiutato di entrare in una società per la formazione militare che includeva i miei coscritti. Nel 1915 sono partito senza credere nella patria. O meglio. Non credevo in quella partenza. Ciò che scrivo impegna soltanto me stesso. Riguardo alle azioni pericolose, do ordini solo a me stesso. Quindi, sono partito, non sono mai stato ferito, tranne alle palpebre, abbrustolite da una scarica di gas. (Nel 1920 mi è stata assegnata e poi rifiutata una pensione di quindici franchi ogni tre mesi per “leggera ammaccatura estetica”). Non sono mai stato decorato, se non dagli inglesi e per un gesto che è esattamente il contrario di un atto di guerra. Dunque, nessuna azione eclatante.
Sono certo di non aver ammazzato nessuno. Ho partecipato agli attacchi senza fucile o con un fucile inutilizzabile.
(Qualsiasi sopravvissuto sa quanto era facile, con un po’ di fango e di piscio, rendere un Lebel pari a un bastone). Non me ne vergogno, ma considerato il contesto è un gesto vile. Mi pareva di accettare. Di obbedire. Non ho avuto il coraggio di ribellarmi, “No, io non attacco”. Non ho avuto il coraggio di disertare. Ho soltanto una scusa. Ero giovane. Non sono un codardo. Sono stato ingannato dalla mia giovinezza e da quelli che sapevano che ero giovane. Sapevano che avevo vent’anni. Ero schedato. Erano anche loro uomini, anziani, scaltri, capaci di vita e di astuzia, e sapevano bene cosa dire ai giovani per far loro sorbire la battaglia. C’erano professori, magistrati della Repubblica, ministri, il Presidente che firmava decreti e manifesti, e quelli che avevano un certo interesse a spargere sangue di ventenni. C’erano anche, lo dimenticavo, scrittori di una certa importanza che inneggiavano all’eroismo, all’orgoglio, alla durezza, all’onore. L’orgoglio pareva uno sport. Quegli scrittori non erano tutti vecchi nel fisico, alcuni erano giovani, ma, invecchiati dall’ambizione, avevano tradito la giovinezza per l’accademia. Altri hanno tradito i giovani perché il loro cuore era adatto al tradimento. Loro, proprio loro hanno ritardato la mia umanità. Li biasimo soprattutto per questo: hanno impedito a questa umanità di essere in me in quel momento preciso, permettendomi di evitare atti inutili. Infine, ciò che è fatto è fatto e ciò che deve essere fatto resta da fare.
Il tempo è ovunque, cala su questa sera, sull’infinito dei campi. Per tutto il tempo di questa estate ho pensato al grano. Il caldo ha odore di farina.
Vent’anni. Per vent’anni ho visto raccolti e vendemmie inseguirsi su questa terra; le foglie degli alberi, le foglie del mio corpo.
Vent’anni. E non so dimenticare. Non c’è stato un momento nella mia vita, dopo il 1919, che non abbia combattuto la guerra. Certo, avrei dovuto combatterla anche al tempo dei combattimenti, ma il giovane folle che ero era inebetito dai poeti dello stato borghese. Il mio cuore, costruito da mio padre, un calzolaio dall’anima semplice, pura, non accettava la guerra e marciava con un fucile bloccato nella melma sanguinaria degli attacchi. Me ne pento. Quel fucile sarebbe stato meglio tenerlo lucido, bene ingrassato, pronto da usare contro i nemici veri. Il cuore forgiato da mio padre mi avrebbe fatto capire chi erano gli autentici nemici.
Ciò che mi disgusta della guerra è la sua imbecillità. Amo la vita. Amo solo questa vita. Mi è sufficiente sacrificarla per una buona causa. Ho curato malattie contagiose e mortali senza risparmiarmi, in un dono totale. Ma in guerra ho paura, tremo; perché la guerra è stupida, è inutile. Inutile per me. Inutile per il compagno che è con me in trincea. Inutile per il compagno di fronte. Inutile per i compagni in prima linea e per quelli che ci coprono le spalle. Inutile per il fante, per il cavaliere, per l’artigliere, per l’aviatore, per il sergente, il tenente, il capitano, il comandante. Stavo per dire: il colonnello. Forse anche per il colonnello, ma fermiamoci qui. Inutile per quelli che stanno sotto, per la farina umana.
Utile per chi, allora? Dal 1919 ho lottato, pazientemente, centimetro dopo centimetro, con tutti, amici, nemici. Allora non ero libero, lavoravo come impiegato in una banca. Hanno cercato di farmi perdere il posto. Mi hanno dato del comunista; ma non ero e non sono comunista. Mi sono rifiutato di entrare nella società dei veterani, creata non per affermare le qualità del veterano, per non farne mai più un combattente, ma per mera utilità politica e mutualistica. Ho combattuto la battaglia da solo. Non ho vinto, sono rimasto integro. Tra gli amici, in due o tre hanno continuato a seguirmi. Poi ho iniziato a scrivere, e ho scritto della vita, volevo ubriacare tutti di vita, volevo far ribollire la vita come un fiume e correre addosso a quegli uomini aridi e disperati e colpirli con ondate di gelida vita verde, e scatenare il sangue fino all’orlo della pelle, e abbatterli di gioia, e sradicarli dalle loro convenzioni in scarpe griffate. Chi è travolto dai flussi frenetici della vita non può capire la guerra o l’ingiustizia sociale. Quando ho parlato contro la guerra, allora, tutti mi hanno dato ragione. Ho annusato l’odore dei morti. Ho mostrato corpi in frantumi. Ho riempito le stanze di fantasmi lordi di fango, con le orbite succhiate dagli uccelli. I feriti gemevano sulle mie ginocchia. Quando ho detto “mai più” tutti, in coro, hanno ripetuto “no, no, mai più”. Ma il giorno dopo riprendevano posto nel reggimento civile borghese. Ricominciavano a creare il capitale per il capitalista. Erano meri strumenti della società capitalista. Dopo due o tre giorni, l’indignazione si è placata.
Il ritmo del lavoro è studiato per assopirci. Questo stesso ritmo che passa dai nonni ai padri, dai padri a noi. Questo spirito di schiavitù che si trasmette di generazione in generazione. Queste madri perennemente gravide di figli marchiati col sigillo dell’obbedienza sociale. La società, in fondo, ci siamo detti, non è poi così male. L’attaccamento istintivo al regime borghese impedisce di essere spietati con se stessi. Avevano paura della guerra, come me. Erano capaci di grandi gesti di coraggio, senza gloria, fuori dalla storia, di soccorrere i malati di tifo e di difterite, di gettarsi nei fiumi per salvare bambini, di sfidare l’incendio, di fermare cavalli in fuga e camminare per i vasti altopiani in mezzo a tempeste da fine del mondo, con fulmini che s’irradiano dal suolo, per catturare un cane rabbioso. Avevano paura della guerra, come me. Sentivano, nel profondo della loro carne, in quella parte del corpo dove pullula l’antica storia dell’uomo, che la paura della guerra ha origine dalla sua disumanità. Ma quel lato del corpo congiunto al grembo materno, aveva dato loro in eredità l’abitudine al servaggio. Erano schiavi. E proprio ora che si trattava di uscire dall’abisso vorticoso della borghesia, la loro eredità borghese impediva di aprire le braccia nel gesto vasto del nuotatore.”

Jean Giono, da “Écrits pacifistes”, 1939

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