Pensieri

La “psicosi bianca”

05.02.2022
“L’esistenza talvolta ci pesa. Sia pure per un breve intervallo vorremmo sottrarci agli obblighi che ci impone. In certo modo, vorremmo prendere una vacanza da noi stessi, tirare il fiato, riposarci. Le condizioni in cui viviamo sono sicuramente migliori di quelle dei nostri antenati e tuttavia non ci sollevano dalla necessità di dare significato e valore all’esistenza, di riconoscere la relazione con gli altri, di sentirci al nostro posto all’interno del legame sociale
Attorno a sé non ha più, come un tempo, alcuna compagine politica che lo aiuti ad affermarsi nella lotta comune, non è più sostenuto da una cultura di classe e da un destino condiviso con altri. Accettare il governo di sé significa disporre di risorse interiori perennemente rinnovate, poiché genera inquietudine, smarrimento e mette in moto uno sforzo costante
Lungo i sentieri, il senso di sé viene meno, le esigenze della vita sociale si allentano. Camminare è un esercizio ludico e controllato per sparire, per riappropriarsi felicemente della vita.
A volte diciamo: “Ho un vuoto”, intendendo una dimenticanza, un’assenza, una sorta di parentesi.
André Green e Jean-Luc Donnet parlano di “psicosi bianca” allorché l’Io inizia a disinvestire le rappresentazioni che lo mettono a confronto con il suo vuoto costitutivo. L’Io pone così in essere la propria scomparsa. (…).
Poco per volta si trasforma in persona, ossia, secondo l’etimologia latina, una “maschera” priva ormai di chi possa incarnarla dandole un volto. Dietro non vi è più nulla, nessuno.
Il “biancore”
Rappresenta quella volontà di rallentare o arrestare il flusso del pensiero, di porre finalmente termine alla necessità sociale di dare sempre corpo a un personaggio, assecondando gli interlocutori di volta in volta presenti. (…)
Segnata probabilmente dalla precoce separazione dalla madre subito dopo la nascita, Emily Dickinson si rifugia in se stessa, in una “solitudine ontologica”. Più tardi, dirà di non avere mai avuto una madre. A trent’anni decide di non uscire più di casa. Si ritira nella propria stanza, rifiutando di incontrare gli altri. (…) Per il proprio funerale dispone che il feretro non percorra le vie della città, bensì passi attraverso i campi, per poi essere interrato in un prato che appartiene alla famiglia, tra i botton d’oro di cui fantasticava. Per tutta la vita, e persino nella morte, ha cercato l’invisibilità, e così pure il biancore, indossando abiti bianchi e riempendo la sua stanza di gigli candidi. (…)
Pessoa
Scrive di notte, approfittando dell’insonnia. Muore nel 1940 a Lisbona, a quarantasette anni. Di lui leggiamo in Robert Bréchon: “Ha scritto, lui solo, le opere di almeno cinque scrittori di genio, diversissimi l’uno dall’altro, come fossero realmente esistiti”. Lascia una produzione immensa, stipata in una valigia che sarà aperta soltanto nel 1982: migliaia di pagine di versi e prose, via via pubblicate soltanto in anni recenti. (…)
Tutta l’opera di Beckett è all’insegna della scomparsa: i personaggi si dissolvono poco per volta nel corso del tempo, erosi dalla loro stessa storia, privi di rilievo; vorrebbero essere aerei, sciolti da ogni fatica di vivere e dagli intralci che li tengono legati al mondo. Eppure, un residuo di corpo li tiene ancora inchiodati alla condizione di umani. (…)
Non è soltanto riposo, è anche tregua. “Voglio dormire! dormire anziché vivere! ” scrive Baudelaire nella poesia “Il Lete”.
Nelle attività fisiche o sportive, la stanchezza è un proclama di esistenza, una forma estrema di costruzione di sé. Il soggetto si annulla nella lunga trance della spossatezza, ma ne ricava il beneficio di liberarsi della pena di essere. La sua unica preoccupazione è raggiungere l’obiettivo. La gran parte della sua identità è come in sospeso (…).
Più o meno consapevolmente, l’individuo cerca di ubriacarsi di stanchezza per liberarsi di sé e interrompere il flusso del pensiero. Senza attività mentale, egli viene meno. “Sono morto”, dice giustamente l’uomo esausto.
Burn out
L’intera esistenza precipita
nell’urgenza e nella necessità di non perdere mai tempo, di mantenere costante l’attenzione. Si deve andare sempre più in fretta per restare in scena. Il sovraccarico di lavoro, visto che dipende dalla concorrenza tra imprese, è accettato come prezzo da pagare per tenersi il posto di lavoro, con il vantaggio temporaneo di una sorta di eccitazione che consente di sospendere l’attività del pensiero, fintanto che si resiste.
Quanto poi alla propria sofferenza e a quella altrui, meglio tacerne: si tratta di una sorta di fatalità alla quale bisogna adattarsi, rallegrandosi di essere impiegati. L’indifferenza di fronte alla sorte degli altri tende a prevalere sulla solidarietà di un tempo.
A conclusione di ogni piano di licenziamento collettivo le richieste poste a quelli che rimangono sono più pesanti, proprio perché sono stati risparmiati: a loro sembra una fortuna, sebbene il carico di lavoro sia aumentato e la fragilità accresciuta.
Il burn out, la depressione per sfinimento, che sopravviene quando si è esaurita ogni energia per aver vissuto troppo al di sopra dei propri mezzi, è il prezzo da pagare per un simile investimento. L’individuo non è più in grado di reggere nemmeno la quotidianità. (…)
anoressia
Tra i suoi molteplici significati, l’anoressia indica anche la scomparsa di sé nel nulla, nella ricerca di una magrezza infinita associata alla purezza: volontà di fuggire dal proprio corpo,
rendendolo diafano, e dal legame sociale, rendendosi invisibile
Non è mai sufficientemente magra per poter smettere di intravvedere in sé una sia pur minima traccia della madre. Persegue una disciplina radicale per ottenere un corpo che sia soltanto suo, soltanto per lei, che si debba soltanto a lei, secondo una logica di autogenerazione. Vuole mettersi al mondo da sé, e il suo corpo è una sconfessione che lei cerca di aggirare. Il cibo è il cavallo di Troia del corpo materno, per questo è così difficile da inghiottire. (….)
Alzheimer. Scomparire dalla propria esistenza
Il termine “anziano” è quanto mai ambiguo, poiché semplifica la singolarità di ogni individuo in base alla storia personale e alle risorse psichiche e morali. Bisognerebbe, invece, sempre sfumarlo, attribuendo a ciascuna persona un volto, in modo da evitare generalizzazioni che appiattiscono in misura abnorme. Nelle nostre società il ritiro dal mondo professionale è il segnale più netto dell’anzianità, allora si viene a poco a poco spossessati dei vecchi ruoli.
Certi eventi carichi di significato, che interferiscono con la matrice dell’identità, possono strappare l’individuo al percorso fino ad allora compiuto rendendolo irriconoscibile a sé e agli altri. Ha spesso questo esito l’esperienza del dolore protratta a lungo, quando la medicina si rivela incapace di venirne a capo (Le Breton, 2010). Lo stesso vale per la malattia, l’incidente, la separazione, il lutto. Talvolta è lo stesso soggetto a scomparire, come avviene in diverse forme di demenza senile, analoghe al morbo di Alzheimer
La narrazione di sé…William James osserva: “In verità, un uomo ha tanti Io sociali quanti sono gli individui che lo conoscono e portano l’immagine di lui nella mente. (…) Possiamo dire che l’uomo ha tanti Io, quanti sono i gruppi di persone della cui opinione egli si preoccupa. Generalmente egli mostra a ciascuno di questi gruppi un lato differente di sé stesso.
L’identità è come un diamante dalle molteplici sfaccettature, ciascuna delle quali ne offre una visione particolare; l’identità stessa non si rivela in nessuna, eppure costituisce quel riflesso. È una storia che l’individuo non smette mai di raccontare a se stesso e agli altri, modificando talvolta le versioni: essa non è mai statica, è sempre relazionale e in movimento.
La continuità di sé, in definitiva, è soltanto un’idea indispensabile per riuscire a vivere. “Essere se stessi”, a dispetto del suono familiare, altro non è che una sensazione, una convinzione necessaria, uno sforzo su di sé.
Il biancore, in genere, non è uno stato durevole, quanto un rifugio più o meno prolungato, una sorta di camera di decompressione. È una posizione di attesa, mentre l’individuo cerca ancora la propria collocazione, che gli sfugge di continuo.”
…Montaigne: “Bisogna riservarsi una retrobottega tutta nostra, del tutto indipendente, nella quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine”.
David Le Breton, da “Fuggire da sé. Una tentazione contemporanea”, 2015
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Foto di Noell Oszvald

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