Linguaggi

Il mio nome è Maria

18.02.2022

“De Maria numquam satis.”

San Bernardo di Chiaravalle

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Ridatemi le spoglie del mio bambino

“Ridatemi le spoglie del mio bambino.
Non l’avessi mai visto correre per i prati,
non l’avessi mai sentito gridare dalla gioia,
non avessi mai incontrato il suo volto
così beato,
da rendermi beata tra le genti.
Non prendete mio figlio,
gente,
non rapitemi il cuore,
non è un bosco,
non è un abete,
è soltanto una rosa tenera.
Non toccategli il cuore:
io sono la madre,
per nove mesi
io l’ho costruito e amato.
Non portatemi via il figlio
o cadranno le vostre capanne
o cesseranno i vostri figli.
Lasciatelo stare,
egli ha riempito tutti i deserti.
Non isolatelo sopra una croce,
non fate di lui un uomo solo.
Le mie ginocchia
avide di molto cammino
sono state generate
dalla tua grazia.
Ho dovuto riposare
ai piedi della montagna
senza mai sormontarla
ma Ti ringrazio
per avermi destinata a servire.
Sono colei
che paga tutti gli ostacoli,
sono colei
che muore d’amore.
E ho sentito,
nella dolcezza dell’adolescenza,
crescere quella croce
che mi trapassa come un’alba.
Io e Gesù crocifissi, Signore,
siamo lo schianto di Dio.”
Alda Merini

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Foto di Luca Alfieri

 

 

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Il canto della Vergine

 

“Tra le palme volando,
angeli santi,
fermate i rami,
che il mio bimbo dorme.
Voi palme di Betlem,
che irosi muovono
i furiosi venti
risuonanti:
il frastuono sedate,
fate piano,
fermate i rami
ché il mio bimbo dorme.
Il pargolo divino
s’è sfinito
a piangere chiedendo
in terra pace:
quietar vuole nel sonno
il lungo pianto.
Angeli santi
che volando andate,
fermate i rami
ché il mio bimbo dorme.”

Lope de Vega, “Il canto della Vergine”

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Preghiera laica

“Ave o Maria
così bella, così piena di grazie
bambina sorella amica amante madre anziana donna dentro di me
leggera come il cielo
i piedi ben piantati a terra
mentre guadagni il tuo pane quotidiano
impara la tua forza
sia sorprendente ciò che sfugge alla tua volontà
mutevole come il cielo
solida come la terra
benedetti siano i tuoi amori
benedetta la tua libertà.

Dolce Maria
la paura è con te
cullala come un frutto del tuo seno.
Cedi a qualche tentazione
lascia andare i tuoi figli
rimetti agli uomini i loro debiti
e permetti che ti siano debitori.

Ave o Maria
tu che conosci il male
e il tempo che prepara alla morte
benedette siano le stagioni
benedetti i cicli della luna
benedetta l’acqua il piscio il sangue il latte il mestruo
benedette le nascite le morti le rinascite
benedetta la vita e le sue crudeltà
prego insieme a te
che mi sia madre il tempo
fra l’utero e la tomba
che mi sia leggera la risata e feconde le lacrime
e magari non troppo lontana la verità.

Ave o Maria
figlia come te anche io
benedici mio padre
io che son nata donna
fammi capace di diventarlo
e gioisci con me
di ogni felicità.”

Alessandra Racca, “Preghiera laica”

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Foto di Sonia Simbolo

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Mi chiamavo Maria
“Mi chiamavo Maria
ed ero di legno,
un lutto di legno,
lenti pensieri di legno e uno sfiorito grembo di legno.
Ma il mio vestito splendeva di lapislazzuoli
ed era coperto di stelle pungenti.
Una volta fui spinta a un sorriso
da un menestrello che voleva celebrare
la madre di Dio con le sue arti modeste.
Volteggiò e cantò in falsetto,
imitò tutti gli animali della natura
ed era così deplorevole da commuovere il legno.
Scesi dal mio zoccolo,
il mio vestito un’ondeggiante aurora boreale,
e presi la testa del menestrello terrorizzato
nelle mie mani.
Stordita dai suoi odori
toccai i suoi capelli arruffati,
mi piegai scricchiolando in avanti
e baciai la fronte sudata.
Allore un dolore sconosciuto mi attraversò –per un attimo fui umana.
Mi rifugiai di nuovo sul mio zoccolo
e lasciai il menestrello tremante
di fronte a ciò ch’egli vide come un miracolo.
Ma chi provò il miracolo,
il miracolo dell’uomo,
ero io.”
Kjell Espmark (scrittore svedese), da “Vintergata” – Traduzione di Enrico Tiozzo

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Venerdì Santo

“Lei credeva di stringere in quel corpo
disincarnato, esangue, il suo ragazzo
morto a trentatré anni per oscure
trame di tribunali.
Se le avessero detto che stringeva
a sé l’intero mondo e la sua Storia
non l’avrebbe capito. Erano solo
un figlio con sua madre.”
Maria Luisa Spaziani, “Venerdì Santo”, da “la luna è già alta”
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Annunciazione
(Le parole dell’Angelo)
“Tu non sei più vicina a Dio
di noi; siamo lontani
tutti. Ma tu hai stupende
benedette le mani.
Nascono chiare a te dal manto,
luminoso contorno:
Io sono la rugiada, il giorno,
ma tu, tu sei la pianta.
Sono stanco ora, la strada è lunga,
perdonami, ho scordato
quello che il Grande alto sul sole
e sul trono gemmato,
manda a te, meditante
(mi ha vinto la vertigine).
Vedi: io sono l’origine,
ma tu, tu sei la pianta.
Ho steso ora le ali, sono
nella casa modesta
immenso; quasi manca lo spazio
alla mia grande veste.
Pur non mai fosti tanto sola,
vedi: appena mi senti;
nel bosco io sono un mite vento,
ma tu, tu sei la pianta.
Gli angeli tutti sono presi
da un nuovo turbamento:
certo non fu mai così intenso
e vago il desiderio.
Forse qualcosa ora s’annunzia
che in sogno tu comprendi.
Salute a te, l’anima vede:
ora sei pronta e attendi.
Tu sei la grande, eccelsa porta,
verranno a aprirti presto.
Tu che il mio canto intendi sola:
in te si perde la mia parola
come nella foresta.
Sono venuto a compiere
la visione santa.
Dio mi guarda, mi abbacina…
Ma tu, tu sei la pianta.”
Rainer Marie Rilke, “Annunciazione”, dal “Libro delle immagini”
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Una preghiera
“O Maria, fragile madre,
ascoltami, ascoltami adesso
anche se non so le tue parole.
Ho in mano il nero rosario,
con il suo Cristo d’argento.
Non è prediletto da Dio
perché io sono l’infedele.
Ciascuno dei grani è tondo
e duro tra le mie dita.
È un piccolo angelo nero.
O Maria, concedimi questa grazia,
concedimi di cambiare,
sebbene io sia brutta,
sommersa dal mio stesso passato,
dalla mia stessa follia.
Anche se ci sono delle sedie
io sono sdraiata sul pavimento.
Solo le mie mani sono salve
toccando i grani del rosario.
Una parola dopo l’altra,
ci incespico dentro,
una principiante.
Sento la tua bocca toccare la mia.
Conto i grani come se fossero onde
che mi martellano contro.
Saperne il numero mi fa ammalare,
afflitta nel cuore dell’estate
e la finestra sopra di me
è la sola che mi ascolta.
Il mio essere goffo
dà in abbondanza,
è rilassante.
L’elargitrice del respiro,
lei, mormora.
I suoi polmoni esalano
come quelli di un enorme pesce.
Sempre più vicina
è l’ora della mia morte
mentre mi risistemo il volto,
divento come prima,
come prima dello sviluppo,
con i capelli diritti.
Tutto ciò è morte.
Nella mente vi è un esile vicolo,
chiamato morte,
ed io mi muovo lungo di esso
come nuotando nell’acqua.
Il mio corpo è inutile.
È disteso, accucciato,
come un cane su un tappeto.
Si è arreso.
Qui non ci sono parole
se non quelle apprese a metà,
l’Ave Maria e piena di grazia.
Ora sono entrata
nell’anno senza parole.
Noto la strana entrata
e l’esatto voltaggio.
Esisto senza parole.
Senza parole una può toccare il pane
e riceverlo, senza emettere alcun suono.
O Maria, tenero medico,
vieni con polveri ed erbe
perché sono nel centro.
È veramente piccolo
e l’aria è grigia
come in una casa a vapore.
Mi porgono del vino
come a un bambino si porge del latte.
Appare in un bicchiere di delicata fattura,
con la boccia circolare e l’orlo sottile.
Il vino ha un colore denso,
muffa e segreto.
Il bicchiere si solleva da solo
tendendo verso la mia bocca
e me ne accorgo e lo capisco
soltanto perché è successo.
Io ho questa paura di tossire
ma non parlo,
la paura della pioggia,
la paura del cavaliere
che arriva galoppando nella mia bocca.
Il bicchiere si inclina da solo
e io prendo fuoco.
Vedo due sottili righe
che mi bruciano rapide giù per il mento.
Mi vedo come se mi vedesse un altro.
Sono stata tagliata in due.
O Maria, apri le tue palpebre,
io sono nel dominio del silenzio,
nel regno della pazzia e del sonno.
C’è sangue qui
ed io l’ho mangiato.
O madre del grembo,
sono venuta soltanto per il sangue?
O piccola madre,
sono dentro i miei pensieri.
Sono rinchiusa nella casa sbagliata.”
Anne Sexton, “Una preghiera”
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Aurelio Bruni, “L’Annunciazione”
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L’Annunciazione
“I figli:
Madre, cos’hai
sotto il tuo occhio?
Cosa nascondi
nel riso stanco?
Domeniche antiche,
fresche di cielo,
antichi maggi
rossi negli occhi
delle tue amiche,
antichi incensi…
Ora, al tuo letto,
tremiamo per te,
madre, fanciulla,
per le domeniche,
gli incensi, i maggi.
Tu eri tanto
bella e innocente…
Madre… chi eri
quand’eri giovane?
E Lui, chi era?
Madre, che muoia…
Ah, sia fanciulla
sempre la vita
nella severa
tua vita fanciulla…
L’ angelo:
Non senti i figli?
O lodoletta
canta in un’alba
di eterno amore…
Maria:
Angelo, il grembo
sarà candore.
Pei figli vergini
io sarò vergine.”
Pier Paolo Pasolini, “L’Annunciazione”
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Litania
JANUA COELI
La porta s’apre
quando la pioggia
marcisce la sera.
Allora un raggio
rompe dai nuvoli.
Tu nuda, o Vergine,
specchi nell’umido
il viso azzurro.
SPECULUM JUSTITIAE
Specchio del cielo!
In te le nubi
i muri gli alberi
cadono immoti.
Spio capovolto…
Che pace paurosa!
Non c’è un sospiro
nel cielo, un alito.
MATER PURISSIMA
Poveri miei occhi
di giovinetto
chini su in corpo
colore dell’alba!
Il gesto santo
del mio peccato
cade in un vespro
di castità!
MATER CASTISSIMA
Ahi crudeltà
non trapassarmi
con gli occhi il corpo!
Sì è nudo
caldo e innocente…
Sotto quel crudo
amore degli occhi
mi sento morire.
MATER INVIOLATA
Dal tuo grembiule
accieca il figlio
un lume candido
di albe e gigli.
Madre! quel lume
è tanto puro
che la tua coscia
pare di neve.
TURRIS EBURNEA
Seni di avorio,
nidi di gigli,
non v’ha violato
mano di padre.
Fianchi lucenti
di nere nuvole
non vi fa scuro
la nostra pioggia.
STELLA MATTUTINA
Nel duro silenzio
rustici uccelli
pungono l’aria
e il casto cuore.
Che calma morte!
Su ridestiamoci,
che il nostro cuore
vuole peccare.
REGINA PACIS
O Inesistente
quante preghiere
strappate al cuore
per ricadere
sul nostro cuore!
Febbrile e vano
suono degli angelus
sul giorno umano.
Pier Paolo Pasolini, “Litania”
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Mi chiamavo Maria ed ero di legno
“Mi chiamavo Maria ed ero di legno,
un lutto di legno, lenti
pensieri di legno e uno sfiorito grembo di legno.
Ma il mio vestito splendeva di lapislazzoli
ed era coperto di stelle pungenti.
Una volta fui spinta a un sorriso
da un menestrello che voleva celebrare
la madre di Dio con le sue arti modeste.
Volteggiò e cantò in falsetto,
imitò tutti gli animali della natura
ed era così deplorevole da commuovere il legno.
Scesi dal mio zoccolo,
il mio vestito un’ondeggiante aurora boreale,
e presi la testa del menestrello terrorizzato
nelle mie mani. Stordita dai suoi odori
toccai i suoi capelli arruffati,
mi piegai scricchiolando in avanti
e baciai la fronte sudata.
Allore un dolore sconosciuto mi attraversò –per un attimo fui umana.
Mi rifugiai di nuovo sul mio zoccolo
e lasciai il menestrello tremante
di fronte a ciò ch’egli vide come un miracolo.
Ma chi provò il miracolo,
il miracolo dell’uomo, ero io.”
Kjell Espmark, da “Vintergata” – Traduzione di Enrico Tiozzo
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Nell’immagine: Antonello Da Messina, “Annunciata di Palermo” (o “Vergine Annunziata”), 1475

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