Pensieri

Io amo “a” te

03.03.2022

“La nostra cultura occidentale troppo spesso ha fatto dell’amore un imperativo morale o religioso e non il mezzo e il luogo più determinanti perché l’umanità possa sbocciare.
È accaduto perché non ci siamo abbastanza preoccupati di coltivare la vita.
Siamo ben lontani da una pratica adeguata della nostra vita relazionale e spesso ci comportiamo in modo peggiore delle bestie.
L’amore non può rimanere un affetto solo immediato e quasi istintivo. La lettera “a” di “amo” a te ricorda il lavoro necessario che richiede l’amore per rivolgersi realmente all’altro.
Significa che prima di poter dire “ti amo” è indispensabile soffermarsi a considerare chi è l’altro, senza sottomettersi o sottometterlo solo ai propri impulsi.
Vuol dire: amo “a” ciò e “a” chi tu sei, e cerco di creare una relazione d’amore con te in quanto persona e non solo in quanto oggetto o supporto dei miei sentimenti personali.
Amare “a” te, e, in questo “a”, disporre di un luogo di pensiero, di pensare a te, a me, a noi, a ciò che ci riunisce e ci allontana, all’intervallo che ci permette di divenire, alla distanza necessaria per l’incontro.
Ti vedo, ti sento, ti percepisco, ti ascolto, ti guardo, sono commossa da te, sor­presa da te, vado a respirare fuori, rifletto con la terra, l’acqua, gli astri, penso a te, ti penso, penso a noi: a due, a tutti, a tutte, comincio ad amare, amare a te, ritorno verso di te, cerco di parlare, di dire a te: un sentimento, un volere, un’intenzione, per adesso, per domani, per molto tempo.
L’ “a te” passa attraverso il respiro che cerca di farsi parole. Senza appropriazione, senza possesso né perdita di identità, nel rispetto di una distanza.
“A te, Altro”. Tra noi questo “a” come l’aria, come il respiro, come un’ intenzione senza oggetto, una culla dell’essere.
Amo “a” te significa «osservo nei tuoi confronti un rapporto di in-direzione». Non ti sottometto, né ti consumo. Ti rispetto (come irriducibile). Ti saluto: saluto in te. Ti lodo: lodo in te. Ti ringrazio: rendo grazie a te per… Ti benedico per…
Ti parlo, non soltanto di una certa cosa, ma ti parlo a te. Ti dico, non tanto questo o quest’altro, ma ti dico a te.
L’”a” è il garante della in-direzione. L’”a” impedisce il rapporto di transitività, in cui l’altro perderebbe la sua irriducibilità, e la reciprocità non sarebbe possibile.
L’”a” mantiene l’intransitività tra le persone, l’interpellanza, la parola o il dono interpersonali: parlo a te, domando a te, do a te (e non: ti do te a un altro).
L’”a” è il segno della non-immediatezza, della mediazione tra di noi.
Quindi, non «ti ordino o ti comando di fare tale o tal’altra cosa», il che potrebbe equivalere a «ti ordino a tali cose, ti sottometto a tali verità, a tale ordine», che possono corrispondere a un lavoro, ma anche a un godimento, umano o divino.
E neppure «ti seduco a me», in cui il «tu» diventa «a me» e l’«amo a te» diventa «amo a me».
E neppure «ti sposo», nel senso di «faccio di te mio marito o mia moglie» ossia «ti prendo, ti faccio mio (a)». Ma «desidero essere attenta(o) a te nel presente e nel futuro, ti chiedo di restare con te, sono fedele a te».
L’”a” è il luogo di non-riduzione a oggetto della persona. Ti amo, ti desidero, ti prendo, ti seduco, ti ordino, ti istruisco ecc. rischiano sempre di annientare l’alterità
dell’altro, facendolo(a) divenire un mio bene, un mio oggetto, riducendolo(a) al o nel mio, cioè a qualcosa che già fa parte del mio campo di proprietà esistenziali o materiali. L’”a” è anche una barriera contro l’alienazione della libertà dell’altro nella mia soggettività, nel mio mondo, nella mia parola.
Fare di te il mio bene, il mio possesso, il mio, non realizza l’alleanza tra noi. Questo gesto sacrifica una soggettività all’altra.
Amo “a” te significa quindi «non ti prendo né come oggetto diretto, né come oggetto indiretto girando attorno a te».
L’a è garante di due intenzionalità: la mia e la tua. In te amo ciò che può corrispondere alla mia intenzionalità e alla tua.
Tu non mi conosci, ma sai qualcosa del mio apparire. Puoi ugualmente percepire le direzioni e le dimensioni della mia intenzionalità. Non puoi sapere chi sono, ma puoi aiutarmi a essere scorgendo quello che mi sfugge di me, la fedeltà o le infedeltà a me stessa(o). Puoi così aiutarmi a uscire dall’inerzia, dalla tautologia, dalla ripetizione, o anche dall’erranza, dall’errore. Puoi aiutarmi a divenire pur restando me stessa(o).
Questa alleanza, dunque, non ha nulla del matrimonio contrattuale che mi strappa a una famiglia per incatenarmi a un’altra; nulla che mi sottometta come discepolo(a) a un maestro(a), nulla che mi prenda la mia verginità, che blocchi il mio divenire in una sottomissione all’altro (garantita da un Altro o da uno Stato), nulla che costringa la mia natura alla riproduzione. Si tratta piuttosto di una nuova tappa della mia esistenza, quella che mi permette di realizzare il mio genere in un’identità specifica, legata alla mia storia e a un’epoca della Storia
Penso che sviluppare una cultura dell’amore possa contribuire al divenire dell’umanità in quanto tale, per non parlare della realizzazione di una democrazia che non si limiti a problemi di danaro.
Ciascuno deve imparare in modo diverso a rispettare l’alterità dell’altro, la sua trascendenza, direi, per poter amare. Sono necessari altri gesti e parole, rispetto a quelli che ci sono consueti e prendere coscienza di ciò che proiettiamo di noi stessi sull’altro.
I sentimenti sono la nostra linfa vitale.
L’amore si deve imparare. Sarebbe l’insegnamento scolastico più importante fra tutte le materie in programma.”

Luce Irigaray, da “Io Amo A Te”. 1993

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