Linguaggi

Dediche

08.03.2022
Luna
“C’è tanta solitudine in quell’oro.
La luna delle notti non è la luna
che vide il primo Adamo. I lunghi secoli
della veglia umana l’hanno colmata
di antico pianto. Guardala. È il tuo specchio._
Jorge Luis Borges, “Luna” (“Luna” è la poesia che Borges compose per Maria Kodama, moglie e musa. Maria, il suo sguardo, si è spenta il 28 marzo 2023)

*****

Jorge Luis Borges e Maria Kodama

 

*****

A Giorgio Caproni

“Se sul treno ti siedi al contrario
con la testa girata di là
vedi meno la vita che viene
vedi meglio la vita che va.

FINE”

Vivian Lamarque, da “Poesie 1972-2002”

 

*****

A Silvia

 

“Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all’opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D’in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d’amore.

Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell’età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.”

 

Giacomo Leopardi, “A Silvia”, 1828

 

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Barbara
“Ricordati Barbara
Pioveva senza tregua quel giorno su Brest
E tu camminavi sorridente
Raggiante rapita grondante, sotto la pioggia
Ricordati Barbara
Pioveva senza tregua su Brest
E t’ho incontrata in rue de Siam
E tu sorridevi, e sorridevo anche io
Ricordati Barbara
Tu che io non conoscevo
Tu che non mi conoscevi
Ricordati, ricordati comunque di quel giorno
Non dimenticare
Un uomo si riparava sotto un portico
E ha gridato il tuo nome
Barbara
E tu sei corsa incontro a lui sotto la pioggia
Grondante rapita raggiante
Gettandoti tra le sue braccia
Ricordati di questo Barbara
E non volermene se ti do del tu
Io do del tu a tutti quelli che amo
Anche se non li ho visti che una sola volta
Io do del tu a tutti quelli che si amano
Anche se non li conosco
Ricordati Barbara, non dimenticare
Questa pioggia buona e felice
Sul tuo viso felice
Su questa città felice
Questa pioggia sul mare, sull’arsenale
Sul battello d’ Ouessant
Oh barbara, che cazzata la guerra
E cosa sei diventata adesso
Sotto questa pioggia di ferro
Di fuoco acciaio e sangue
E lui che ti stringeva fra le braccia
Amorosamente
È forse morto disperso o invece vive ancora
Oh Barbara
Piove senza tregua su Brest
Come pioveva prima
Ma non è più cosi e tutto si è guastato
È una pioggia di morte desolata e crudele
Non è nemmeno più bufera
Di ferro acciaio sangue
Ma solamente nuvole
Che schiattano come cani
Come cani che spariscono
Seguendo la corrente su Brest
E scappano lontano a imputridire
Lontano lontano da Brest
Dove non c’è più niente”

Jaques Prévert, da “Paroles”, 1946

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Matilde
“Matilde dove sei? Ho avvertito quaggiù
tra la cravatta e il cuore, più su
una certa malinconia intercostale
era che tu all’improvviso non c’eri.
Mi è  mancata la luce della tua energia
e ho guardato divorando la speranza,
guardato il vuoto che è senza di te una casa
non restano che tragiche finestre.
Da tanto è  imbronciato il tetto ascolta
cadere antiche piogge sfogliate,
piume, quanto la notte ha catturato:
e così ti aspetto come una casa deserta
e tornerai a trovarmi e ad abitarmi.
Altrimenti mi fanno male le finestre.”

Pablo Neruda

*****

Nella foto: Pablo Neruda e la moglie, Matilde Urrutia

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A Matilde Urrutia
“Signora mia molto amata, grande sofferenza
provai scrivendoti questi mal chiamati sonetti
e troppo mi dolsero e costarono, ma la
gioia di offrirteli è maggiore di una
prateria. Proponendomelo ben sapevo che
al fianco di ognuno, per affezione elettiva
ed eleganza, i poeti di ogni tempo
disposero rime che suonarono come argenteria,
cristallo o cannonata. Io, con molta umiltà
feci questi sonetti di legno, gli diedi il suono
di questa opaca e pura sostanza e così devono
giungere alle tue orecchie. Tu e io camminando per
boschi e arenili, per laghi perduti, per
cineree latitudine, raccogliemmo frammenti di
legno puro, di legni sottoposti al vaevieni dell’acqua e dell’intemperie. Da tali levigatissime
vestigia costruii con accetta, coltello, temperino,
queste legnamerie d’amore ed edificai piccole
case di quattordici tavole perché in esse vivano
i tuoi occhi che adoro e canto. Così stabilite
le mie ragioni d’amore ti affido questa centuria:
sonetti di legno che solo s’innalzarono
perché tu gli desti la vita.”
Pablo Neruda, “A Matilde Urrutia”
*****

Matilde

“Ora, lasciatemi tranquillo.
Ora, abituatevi senza di me.

Io chiuderò gli occhi

E voglio solo cinque cose,
cinque radici preferite.

Una è l’amore senza fine.

La seconda è vedere l’autunno.
Non posso vivere senza che le foglie
volino e tornino alla terra.

La terza è il grave inverno,
la pioggia che ho amato, la carezza
del fuoco nel freddo silvestre.

La quarta cosa è l’estate
rotonda come un’anguria.

La quinta cosa sono i tuoi occhi.

Matilde mia, beneamata,
non voglio dormire senza i tuoi occhi,
non voglio esistere senza che tu mi guardi:
io muto la primavera
perché tu continui a guardarmi.

Amici, questo è ciò che voglio.
E’ quasi nulla e quasi tutto.

Ora se volete andatevene.

Ho vissuto tanto che un giorno
dovrete per forza dimenticarmi,
cancellandomi dalla lavagna:
il mio cuore è stato interminabile.

Ma perché chiedo silenzio
non crediate che io muoia:
mi accade tutto il contrario:
accade che sto per vivere.

Accade che sono e che continuo.

Non sarà dunque che dentro
di me cresceran cereali,
prima i grani che rompono
la terra per vedere la luce,
ma la madre terra è oscura:
e dentro di me sono oscuro:
sono come un pozzo nelle cui acque
la notte lascia le sue stelle
e sola prosegue per i campi.

È che son vissuto tanto
e che altrettanto voglio vivere.”

Pablo Neruda, “Chiedo silenzio”

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Sei poesie per Tamar

1

“La pioggia parla in silenzio
adesso puoi dormire.
accanto al mio letto il battito d’ali del giornale
non ci sono altri angeli
mi sveglio presto per corrompere il giorno che viene
che sia buono con noi

2

Avevi una risata di chicchi d’uva:
molte risate verdi e rotonde
il tuo corpo è pieno di lucertole
che tutte amano il sole
son cresciuti i fiori nel campo, son cresciuti i fili d’erba sulle mie guance
tutto è stato possibile

3

Sei sempre sdraiata
sopra i miei occhi
ogni giorno che siamo stati insieme
Qohelet ha cancellato una riga dal suo libro
siamo la prova a discolpa del giudizio terribile
assolveremo tutti!

4

Come sapore di sangue in bocca
è stata la nostra primavera – all’improvviso
l’universo è sveglio stanotte
è sdraiato supino a occhi aperti
il bacino della luna combacia con la linea del tuo sorriso
il tuo seno con la linea del mio sorriso.

5

Il tuo cuore gioca ad acchiappa sangue
dentro le tue vene.
i tuoi occhi sono ancora caldi come letti,
ci si è sdraiato il tempo
le tue cosce sono dolci di due giorni fa,
io vengo da te
tutti i centocinquanta salmi
ruggiscono insieme

6

I miei occhi vogliono scorrere uno verso l’altro
come due laghi vicini
dire uno all’altro
tutto quello che hanno visto
il mio sangue ha molti parenti
non lo vanno mai a trovare
ma quando muoiono,
il mio sangue eredita.”

Yehuda Amichai, “Sei poesie per Tamar”

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Sonare su un violino in fiamme

“Sonare su un violino in fiamme
una mia seguidilla,
prima che cada il sipario come una ghigliottina.
Mi piace il fragore, il bailamme,
ma la mia vita arlecchina,
veliero viluppo di stracci,
con la sua gracile chiglia
si impiglia in un groppo di ghiacci.
Avanzare con grandi falcate di goffa pavana,
gonfiarsi come una rana.
Riempire di propri scartafacci la stiva,
sognare che il nome
fra tanto oblio sopravviva.
Quanta enfasi, quanta arroganza cetrulla.
O vita, o Hanna Schygulla,
sciantosa di varietà, sulla riva
del Nulla.”
Angelo Maria Ripellino, da “Lo splendido violino verde”, 1976

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Helmut Newton, “Hanna Schygulla”

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Orazione per Marilyn Monroe
“Signore
accogli questa ragazza conosciuta in tutta la terra con il nome di
Marilyn Monroe
anche se questo non era il suo vero nome
(ma tu lo sai il suo vero nome, quello di un’orfanella violentata a
nove anni
la piccola commessa che a sedici aveva cercato di suicidarsi)
e che ora si presenta al Tuo cospetto senza un’ombra di trucco
senza il suo agente
senza fotografi e senza autografi da firmare
sola come un astronauta di fronte alla notte spaziale.
Aveva sognato quando era bambina di trovarsi nuda in una chiesa
(secondo quanto raccontato al Time)
davanti a una moltitudine genuflessa, con le teste appoggiate a terra
e doveva camminare in punta di piedi per non calpestarle.
Tu conosci i nostri sogni meglio degli psichiatri.
Chiesa, casa, antro, sono la sicurezza del seno materno
ma anche qualcos’altro…
Le teste sono gli ammiratori, è chiaro
(l’ammasso di teste al buio sotto lo schizzo di luce).
Ma il tempio non sono gli studios della 20th Century-Fox.
Il tempio – di marmo e oro – è il tempio del suo corpo
nel quale c’è il Figlio dell’uomo con una frusta in mano
cacciando via i mercanti della 20th Century-Fox
che fecero della Tua casa di preghiera una caverna di ladri.
Signore
in questo mondo contaminato dai peccati e dalla radioattività
tu non condannerai una piccola commessa
che come ogni commessa sognava di diventare una stella del cinema.
E il suo sogno diventò realtà (ma dalla realtà del technicolor).
Lei non fece altro che recitare il copione che le abbiamo dato
quello delle nostre vite.
Ed era un copione assurdo.
Perdonala Signore e perdona anche noi
per la nostra 20th Century
per questo Colossal Super-Production nel quale abbiamo lavorato tutti.
Lei aveva fame di amore e le abbiamo offerto dei tranquillanti.
Per la tristezza di non essere santi
le consigliarono la psicoanalisi.
Ricorda Signore la sua crescente paura della macchina da presa
e l’odio verso il trucco – insistendo a rifarsi il trucco a ogni scena –
e come diventò man mano più grande il suo orrore
e più grande l’impunità degli studios.
Come ogni piccola commessa
sognò di diventare una stella del cinema.
E la sua vita fu irreale come il sogno che uno psichiatra interpreta ed archivia.
Le sue storie d’amore furono uno di quei baci con gli occhi chiusi
quando si aprono
si scopre che tutto s’era svolto sotto i riflettori
mentre qualcuno smonta le due pareti della camera (era un set cinematografico)
mentre il regista si allontana con il suo quaderno
perché la scena è già stata girata.
O come un viaggio sullo yacht, un bacio a Singapore, un ballo a Rio,
il ricevimento nel castello del Duca e la Duchessa di Windsor
visti dal salottino dell’appartamento miserabile.
Il film si concluse senza il bacio finale.
La trovarono morta nel suo letto col telefono in mano.
E i detective non seppero dire chi stesse chiamando.
Come quando qualcuno fa il numero dell’unica voce amica
e sente soltanto la voce di un disco che ripete: WRONG NUMBER.
O come quando qualcuno, ferito dai gangster
allunga la mano verso un telefono staccato.
Signore
chiunque fosse colui che lei stava per chiamare
e non chiamò (forse non era nessuno o forse Qualcuno il cui numero non appare nella rubrica di Los Angeles)
per favore
rispondi Tu al telefono!”
Ernesto Cardenal Martinez (poeta e teologo nicaraguense)
*****
Andy Warhol, “Shot Marilyns”, 1964 
*****
Dora Markus
“Fu dove il ponte di legno
mette a Porto Corsini sul mare alto
e rari uomini, quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi all’altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale fino alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s’affondava
una primavera inerte, senza memoria.
E qui dove un’antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d’Oriente,
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.
La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare,
e i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco,
d’avorio; e così esisti!
II
Ormai nella tua Carinzia
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl’irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell’acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.
La sera che si protende
sull’umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d’oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.
La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d’oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l’armonica guasta nell’ora
che abbuia, sempre più tardi.
È scritta là. Il sempre verde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino…
Ma è tardi, sempre più tardi.”
Eugenio Montale, da “Le occasioni”, 1939
(“Si chiama Dora Markus. Falle una poesia.”
Così recita il lapidario biglietto dell’amico Bobi Bazlen.
Ma chi è Dora?
È “un’amica di Gerti dalle gambe meravigliose” – gli spiega Bobi. In effetti quella fotografia, l’unica che permette a Montale di incontrarla, sembra proprio renderle giustizia.
E così comincia a scrivere…ma solo la prima parte della poesia.
La seconda la scriverà dieci anni dopo, nel 1939, quando le inquietudini della giovinezza sono ormai state inghiottite dal tempo, quando il rombo della guerra comincia a risuonare “nell’ora che abbuia”, quando “distilla veleno una fede feroce” e non lascia scampo a chi, come Dora, è ebreo.
E ormai per tutti “è tardi, sempre più tardi”…)

*****

La foto delle gambe di Dora Markus che Bobi Bazlen inviò a Montale

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Ex voto
“Accade
che le affinità d’anima non giungano
ai gesti e alle parole ma rimangano
effuse come un magnetismo. É raro ma accade.
Può darsi
che sia vera soltanto la lontananza,
vero l’oblio, vera la foglia secca
più del fresco germoglio. Tanto e altro può darsi o dirsi.
Comprendo
la tua caparbia volontà di essere sempre assente perché solo così si manifesta
la tua magia. Innumeri le astuzie che intendo.
Insisto
nel ricercarti nel fuscello e mai
nell’albero spiegato, mai nel pieno,
sempre
nel vuoto:
in quello che anche al trapano
resiste.
Era o non era
la volontà dei numi che presidiano
il tuo lontano focolare, strani
multiformi multanimi animali domestici;
fors’era così come mi pareva o non era.
Ignoro
se la mia inesistenza appaga il tuo destino,
se la tua colma il mio che ne trabocca,
se l’innocenza è una colpa oppure
si coglie sulla soglia dei tuoi lari. Di me,
di te tutto conosco, tutto ignoro.”
Eugenio Montale, “Ex voto”, da “Satura”, 1971 (dedicata alla moglie, Drusilla Tanzi)
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Hiba

(Alle tante Hiba che il mare ha ingoiato)
“Stesso parco, stessa altalena,
la stessa età di mia nipote.
Cinque anni e mezzo,
due treccine nere e una parlantina rapida e vivace.
“Hiba” mi dice
“mi chiamo Hiba.
Tu lo sai cosa vuol dire in arabo il mio nome?”
e mi rapisce subito con i suoi occhi nerissimi e magnetici.
“Vuol dire dono, mi dice, dono.
Così mi ha chiamata mio padre
quando sono nata”
Mi parla della sua terra, del nonno lontano
che ha una mucca con, dentro il pancino, il suo piccolo.
Il suo sguardo si incupisce
“Volevo tenerlo in braccio…”
E continua
“Lo sai che la mia casa era vicina al mare?
ogni giorno andavamo sulla spiaggia, ma è grooooooonde, sai!!!”
Dice “grande” con un forte accento francese.
La “erre” che vibra
e la “a” che è una “o”
sulla quale insiste con una voce,
carica di malinconica nostalgia.
E allarga più che può le braccia
e guarda il cielo Hiba,
Hiba, il “dono”.
Annamaria Sessa
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Mia di nessuno
“Mía Gallegos.
Mia di nessuno. Mia di me.
Senza una biografia.
Dolce. Quasi acida.
Con un destino tracciato
in una croce.
Mía Gallegos. Mia di nessuno,
di nessuno, nessuno, nessuno, nessuno.
Avvinghiata alla dolcezza
come all’unico pane che non conforta.
Mia di nessuno. Mia di me.
Senza aria. In ombra.
Lascia che il tempo passi.
Lascia che la vita passi.
Lascia che l’amore passi.
Lascia che la morte passi.
Mia senza biografia e senza antenati.
Senza radici.
Né santa
né puttana.
Mia di me.”
Mia Gallegos, “Mia di nessuno”
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Immagine tratta dal web
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La Gioconda
“La Gioconda brucia, come candela in fluido buio,
negli angoli della galleria, dov’è un vuoto di sorrisi,
in quelle nicchie di stupore è un filo di grazia,
tra le colonne e la gente come sole in una bara.
Nella sua luce la folla si scioglie. Il guardiano chiude. –
Le sette! La Gioconda con santa e amorevole mano
prende il telefono. Lo squillo brilla da me…
“Sono io”…”Sono io”…”Gioconda!”…”Amo”…interrotta!
“Pronto”…”Pronto”…”Gioconda!”…Le scale come rudere
frantumo. Le falde del soprabito…Gridando da lei volo.
Il nero Bacco ci porta il cielo delle sere
condensato, valutato e intasato.
Dietro il banco lo sguardo ispirato alla volta rivolge
l’asso dei cocktail, che toni di alcool non sonati
armonizza e unisce in sapori di pura melodia,
pieni di fruscio di verde, di boschi e di luna.
Quando lei beve troppo e le snelle gambe
posa su un vassoio d’argento come due banane, –
l’angelo della mezzanotte in singhiozzi, in gelidi lampi
ammassa scale di accordi praticate nel ghiaccio,
fino all’etere…sulle vette…trema e si tronca
quel concerto…e a valanga…in terrena bufera di luci
cade…nel vino, nella stanchezza, in adagio di violino.
Con una sinfonia così ardente fino al freddo mattino
suona il delirio di ubriaco, come messa per organo!
Si affievolisce il dancing, cala in fondo e si allontana,
ormai è solo ricordo, risata, alcool…
Gioconda la sua nudità come luce scopre.
E le mie labbra ardenti dal petto ai ginocchi
la tatuano tutta – torrido fiore di carne.
O architettura del corpo! I muscoli come arcate.
Il ritmo ipodermico di sferici e sonanti muscoli,
come semplice melodia nelle vene di un vivo canto.
Quelle anche pari che si accoppiano al riso,
prima che serrino e immergano la testa ardente.
O poesia, estratta dalla notte come forma viva…
Gioconda macchiata di sangue torna in auto riscaldata,
barcolla sul marciapiede e nel mattino si bagna,
e appare in cornici dorate, come fanciulla alla finestra.
E quando il guardiano con la chiave il nuovo giorno apre,
la galleria trema di mattino e si gonfia d’ispirazione.
Il pubblico con cento occhi – bisbiglia. – Arde dalla tela
quel sorriso, dove è santa, amorevole e triste.
I ginocchi della folla piega quella maestà divina.
E’ l’estasi nel calice, come nel grido di una sillaba
E aspettano, pigiati, il prodigio! Il sangue! L’aldilà!
Quando dal sorriso voleranno i bianchi petali di un fiore…”
Światopełk Kaspersky, poeta e satirico polacco, “la Gioconda”
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Un minuto di silenzio per Ludwika Wawrzynska
“E tu dove vai,
là ormai non c’è che fumo e fiamme!
− Là ci sono quattro bambini d’altri,
vado a prenderli!
Ma come,
disabituarsi così d’improvviso
a se stessi?
al succedersi del giorno e della notte?
alle nevi dell’anno prossimo?
al rosso delle mele?
al rimpianto per l’amore,
che non basta mai?
Senza salutare, non salutata
in aiuto ai bambini corre, s’affanna,
guardate, li porta fuori tra le braccia,
nel fuoco quasi a metà sprofondata,
i capelli in un alone di fiamma.
E voleva comprare un biglietto,
andarsene via per un po’,
scrivere una lettera,
spalancare la finestra dopo la pioggia,
aprire un sentiero nel bosco,
stupirsi delle formiche,
guardare il lago
increspato dal vento.
Il minuto di silenzio per i morti
a volte dura fino a notte fonda.
Sono testimone oculare
del volo delle nubi e degli uccelli,
sento crescere l’erba
e so darle un nome,
ho decifrato milioni
di caratteri a stampa,
ho seguito con il telescopio
stelle bizzarre,
solo che nessuno finora
mi ha chiamato in aiuto
e se rimpiangessi
una foglia, un vestito, un verso −
Conosciamo noi stessi solo fin dove
siamo stati messi alla prova.
Ve lo dico
dal mio cuore sconosciuto”.
Wisława Szymborska, “Un minuto di silenzio per Ludwika Wawrzynska”, da “Appello allo Yeti”
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Ludwika Wawrzyńska (nella foto sottostente) era un’insegnante polacca che l’8 febbraio del 1955 salvò quattro bambini portandoli fuori da una casa in fiamme e morì per le ustioni riportate

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Ella
(Ella Fitzgerald)
“Pregava Dio,
pregava con fervore
perchè facesse di lei
una felice ragazza bianca.
E se ormai è tardi per questi cambiamenti,
allora, Signore Iddio, guarda quanto peso
e toglimene almeno la metà.
Ma Dio, benevolo, disse: No.
Le posò soltanto la mano sul cuore,
le guardò in gola, le carezzò il capo.
E quando tutto sarà compiuto, aggiunse,
mi allieterai venendo a me,
mia nera gioia,
tronco colmo di canto.”
Wislawa Szymborska, “Ella”, da “La gioia di scrivere”
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La cantante Ella Fitzgerald
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In memoria
Locvizza, il 30 settembre 1916
“Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse.
Giuseppe Ungaretti, pubblicata per la prima volta nel 1915 sulla rivista “Lacerba” e in seguito inserita nella raccolta “Il porto sepolto”, 1916

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Senza più peso
“Per un Iddio che rida come un bimbo,
tanti gridi di passeri,
tante danze nei rami,
un’anima si fa senza più peso,
i prati hanno una tale tenerezza,
tale pudore negli occhi rivive,
le mani come foglie
s’incantano nell’aria…
Chi teme più, chi giudica?”
Giuseppe Ungaretti, “Senza più peso”, da “Sentimento del tempo”, 1934

“Senza più peso” è  la poesia che Ungaretti compose per l’amico Ottone Rosai, il quale, a sua volta, aveva dipinto un ritratto del poeta.

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Ottone Rosai, “Donne sulla panchina”, 1926

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Commiato 
“Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso.”
Giuseppe Ungaretti, da “Commiato” (poesia dedicata a Ettore Serra), in “Allegria di naufragi”, 1919

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Un ospite inatteso (poesia scritta per l’incoronazione di Carlo II d’Inghilterra)

(feat. Samuel Pepys)

Si è concessa un paio di scarpe nuove, il posto
presso il finestrino, sul rapido, un albergo per la notte.
È stata nella capitale soltanto due volte,
una volta per vedere Tutankhamon, aveva nove anni,
l’altra pioveva. Attraversando The Mall
non è che una persona come le altre
ma la sua mano continua a tastare l’invito,
il pollice strimpella il bordo dorato della carta,
il dito rintraccia le foglie in rilievo, ne riferisce il bordo.
Al cospetto del portone, non riesce a credere
che la polizia si faccia di lato: quelle porte, per concederle
accesso, potrebbe aprirle soltanto Dio o un convegno di giganti.

*

Ha preso posto di fianco agli autisti di ambulanza,
agli infermieri, ai badanti, agli operatori di bene,
all’uomo che ha ricavato disinfettante per mani
distillando gin, alla donna che ha camminato per miglia e miglia,
sponsorizzata, al ragazzo nella tenda. I capi dei capi di Stato
flottano lungo la navata, conosce i nomi
di sette o di otto di loro. Ma la musica è tutto:
il coro trasmuta i salmi in luce sonora,
i cavernosi sogni sonnambuli
dell’organo fanno vibrare l’aria,
accordi che s’inerpicano dalla radice dei suoi piedi.
Da qualche parte – più in là, più in profondità –
accade qualcosa di sacro e d’oro:
tuoni cremisi, squarci di gioielli
come fiamme, alti prelati nel mitologico splendore,
solenne bisbiglio di incantesimi e sortilegi
fino alla parte in cui promessa e preghiera si fondono:
il momento è esatto, il patto sigillato.

*

Arrivo nell’abbazia… assiso nel mezzo…
Vescovi con cappe auree…
nobiltà tutta in foggia parlamentare…
la Corona viene posta sul capo
dardeggia il sommo grido. E viene fuori…
presta il giuramento… E i Vescovi… in ginocchio
…lo proclamano… se qualcuno ha facoltà
di mostrare la ragione per cui Carlo… non dovrebbe
essere re… deve parlare ora…
Il pavimento pavimentato di un panno blu…
e il Re entrò con la sua corona…
e lo scettro brandito in mano…

*

La guarderà ancora al telegiornale delle dieci
dal trono della sua poltrona in salotto:
le telecamere avranno ripreso il suo cappello rosa corallo
o il cappotto rimesso a nuovo con l’eroica medaglia
che le hanno affibbiato? L’invito è un monito:
sta sulla mensola del camino, accanto all’orologio.
Ha adornato quella giornata con l’ordinarietà:
ha avuto la benedizione di portare a casa lo straordinario.
Soltanto ora, ricorda il piccolo passero
che crede di aver visto sui tetti dell’abbazia, mentre
si inarcava, di gronda in gronda, oltre, sopra, aldilà.

5 maggio 2023

Simon Armitage, da “Never Good with Horses”

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Macerie
“Il poeta Osip Mandel’štam fu visto l’ultima volta
in un campo di smistamento prigionieri
presso Vladivostok nel dicembre del trentotto
mentre cercava resti commestibili in un
cumulo di immondizie. Morí prima ancora che finisse l’anno
I suoi assassini a quei tempi amavano parlare
del «cumulo di macerie della storia
sopra il quale
sarà gettato il nemico»
E dunque questo era il nemico: il poeta in fin di vita
e questo il cumulo di macerie (come già disse Lenin:
«La verità è concreta») Se l’umanità avrà fortuna
gli archeologi delle macerie della storia porteranno alla luce
ancora qualcosa della nostalgia di una cultura universale
Se l’umanità avrà fortuna saranno uomini
gli archeologi sulle macerie della storia
Erich Fried, “Macerie”
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Nella foto: René-Guy Cadou
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El poeta de este mundo
(A René-Guy Cadou)
Parlare d’un poeta
È parlare delle colline, degli stagni, delle distese della memoria,
dei pesci, dei rampicanti, delle mareggiate.
Poeta dal nome chiaro come un ciottolo in mezzo alla corrente,
mettevi insieme parole come selci,
parole un po’ semplici e rustiche
da cui nasce un fuoco che non è dimenticato.
René Guy Cadou, poeta amico del barilaio, del postino, del guardaboschi e del contrabbandiere,
vivevi in un villaggio di seicento abitanti.
Lì eri professore di una scuola rurale
il peso dell’odore del giardino soffocava l’aula
come l’aula dove anche tuo padre era stato maestro.
Ti piaceva parlare con la gente che assomiglia alle pentole di creta,
camminare a piedi nudi come i bambini,
guardare giocare a carte all’osteria.
Di notte leggevi alla luce d’un fuoco di spini
mentre i gatti facevano le fusa e tua moglie cuciva
(Helena, cui dicesti che sempre sareste vissuti in cielo).
Avevi un poeta preferito per ogni stagione.
In autunno era Verlaine, la primavera fioriva con tutte le rose di Ronsard,
l’inverno portava la carrozza di Meaulnes
e la stagione violenta, il rumore di spade cozzanti in una locanda di Alessandro Dumas.
Tu non eri mai solo,
t’illuminava il ricordo di tuo padre che tornava dalla caccia invernale.
E mentre i tuoi amici andavano al Caffè
alla Brasserie Lipp o al Deux Magots,
tu salivi in camera tua
ed affrontavi il Volo raggiante.
A prua della tua nave
t’affacciavi a vedere le vie del tuo paese di pantani e fate e mari,
tracciate come le righe d’un quaderno di scuola.
Le tue parole arrivavano
come uccelli che sanno che c’è sempre una finestra aperta alla fine del mondo.
E le poesie erano girasoli accesi
che nascevano dal tuo cuore profondo e segreto,
riscattate come la nostalgia,
l’unica realtà.
Tu sapevi che la poesia dev’essere usuale come il cielo che ci sopraffà,
che non significa niente se non permette agli uomini di avvicinarsi e di conoscersi.
La poesia si deve scambiare come una moneta di tutti i giorni,
e deve stare su tutte le tavole
come una bottiglia di vino il cui canto illumina segretamente, i sentieri domenicali.
La poesia
è un respirare in pace
perché gli altri respirino.
Sapevi che le città sono incidenti che non prevarranno sugli alberi.
Che la poesia non si grida sulle piazze né si va a vendere sui mercati di moda,
che non si scrive con saliva, con benzina, con smorfie,
né col povero umore di quelli che vogliono richiamare l’attenzione
con scherzi da pagliacci pretenziosi,
e che non servono a niente i grandi discorsi balbettanti di chi non ha niente da dire,
e trasforma la poesia in una stanza cieca ed insalubre.
Una poesia deve essere
Un pane fresco,
un cesto di vimini
e deve essere letta dagli amici sconosciuti
sui treni che arrivano sempre in ritardo a paesi sperduti,
o sotto i castagni delle piazze dei villaggi.
Qui pochi sanno che cos’è una poesia,
pochi si sono messi con la faccia al vento in mezzo al grano,
pochi sanno che cos’è un poeta.
Tu sei morto in una stanza dove si radunava tutta la primavera,
guardando una cesta di mele.
“Ho visto morire un principe”
ha detto uno dei tuoi amici.
E questo primo di novembre
quando mi circondano i morti che sempre stanno con me,
penso alla tua serena e rude fede
che posso amare
come una piccola chiesa azzurra di paese
dove c’è un prete anziano che non chiede nient’altro che spartire il suo pane.
Tu parlavi col tuo Dio
come col povero figlio del falegname
perché sapevi che ogni giorno si crocifigge anche un poeta.
(Gesù aveva trentatre anni
Jean Arthur anche era Cristo
crocifisso quando ne aveva trentasette).
Ma a te non importava che ti sputassero in faccia o ti dimenticassero
perché nessuno potrà impedire a un uccello di cantare
e il poeta abbattuto
è solo un albero rosso che segnala l’inizio del bosco.
Jorge Teillier (poeta cileno), da “Muertes y maravillas”, 2005
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Evocazione
Poesia inedita di addio per Aleida March
“La mia unica al mondo…”;
ho estratto di nascosto dalla dispensa di Hikmet
questo unico verso innamorato, per lasciarti l’esatta dimensione del mio affetto.
Ciò nonostante,
nel labirinto più profondo della lumaca taciturna
si stringono e combattono gli estremi del mio spirito:
tu e TUTTI.
Quei TUTTI che mi chiedono la consegna totale,
che la mia sola ombra annerisca il cammino!
Ma senza truccare codici d’amore sublimato
ti porto di nascosto nel mio sacco di viaggio.
(Nella mia borsa di viaggiatore insaziabile io ti porto
come il pane nostro di ogni giorno).
Esco ad innalzare primavere di sangue e di calcina
e ti lascio, nell’incavo della mia assenza,
questo bacio senza dimora conosciuta.
Ma non mi è stata predetta la piazza riservata
alla marcia trionfale della vittoria
e il sentiero che porta al mio cammino è cosparso di ombre già funeste.
Se sono destinato all’oscuro fosso delle fondamenta,
mettilo da parte nell’archivio confuso del ricordo;
usalo nelle notti di lacrime e di sogni…
Addio, mia unica,
non tremare davanti alla fame dei lupi
né al freddo da steppa dell’assenza;
cammini accanto a me, dalla parte del cuore,
insieme andremo avanti fino a quando
sfumerà la rotta …”
Ernesto “Che” Guevara, Evocazione” (Trad. di Milton Fernández)
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Aleida March, rivoluzionaria cubana, fu la seconda moglie del “Che” e ne fu anche la guida. Nella foto, è alle sue spalle
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“La tua malattia”, la poesia di Nichi Vendola per Michela Murgia
“La tua malattia suona e canta
fino a notte fonda
corre tra i boschi e le città
rotola nel fiume
esonda dalla cartella
raschia il cemento
ti fa più bella
non è un lamento che ulula
alla luna e al marciapiede
ma una carezza stridula
un’ode alla notte e una lode
alla mattina
secerne brina e poesia
una felicità strana e insolente
la tua dissonante liturgia
è una sincope
che muove le onde
spezza le parole tonde
non combatte non s’arrende
apre al vento una vela
sei tu Michela
la donna che ruba il fuoco
e la mela
che sfonda l’orizzonte
e nuota e danza e vola
fino a sfiorare dio
che sonda l’infinito
il mai iniziato
che abita sveste ammala
il tempo col suo fiato
che stana e accoglie
il buio del passato
col suo spartito di latte e di lana
i solfeggi e le flebo d’amore
il dolore che sbatte le ali
e questa trasfusione di sogni
e di dodecafonia
che scompone ogni sapere
sangue urina peste morfina
e monta questa musica
curativa e celeste
alle porte alle finestre
sul proscenio del discernimento
esposta all’incanto
fatto racconto
arcano nuragico marino
ma tu non sei un grammofono
neppure un manichino
sei vera e lucente come il mattino
mentre seduci la morte
e le fai un inchino.”
Nichi Vendola, “La tua malattia”
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Per la morte del poeta René Guy Cadou
” …Tu sapevi che la poesia deve essere familiare
come il cielo che ci sovrasta,
che non significa niente se non permette
agli uomini di avvicinarsi e di conoscersi.
La poesia si deve scambiare
come moneta quotidiana,
e deve stare su tutte le tavole
come la canzone di una brocca di vino
che illumina le strade la domenica.
La poesia
è un respirare in pace
perché gli altri respirino.
Tu sapevi che le città sono imprevisti
che non prevarranno sugli alberi.
Che la poesia non si grida sulle piazze
né si va a vendere sui mercati alla moda,
che non si scrive con saliva,
con benzina, con smorfie,
né con il basso umorismo
di quelli che vogliono
richiamare l’attenzione
con scherzi da pagliacci pretenziosi,
e che non servono a niente i grandi discorsi
balbettanti di chi non ha niente da dire,
e trasforma la poesia
in una stanza cieca e maleodorante.
Una poesia deve essere
un pane fresco,
un cesto di vimini
e deve essere letta da amici sconosciuti
su treni che arrivano sempre in ritardo
in paesi sperduti,
o sotto i castagni delle piazze dei villaggi….
Jorge Teillier (Poeta cileno)
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Smoka, del collettivo  “100 Pression”, ritratto del poeta  René Guy Cadou,  Louisfert (Loire-Atlantique)
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Veronica
“Subito dopo il comizio,
una donna del popolo
mi vide pieno di rose,
le ferite. E di sudore,
sudore della lotta, lacrime
che, invece di cadermi
dagli occhi, cadono dal corpo.
Le peggiori, perché
lacrime solo fisiche.
Proprie della materia
in ciò ch’essa possiede
di tragico e di folto.
Una donna del popolo
vedendomi così, volle asciugarmi
il viso, ma fece di più.
Colse le mie rose, ma fece
di più.
Colse il mio stesso viso.
Un viso che, in fin dei conti,
non è neppure mio, l’ho ricevuto
in dono quand’ero futuro.
Non oggi, che sono costretto
a dire: presente, nel momento
dell’identificazione.”
Cassiano Ricardo, da “A face perdida” Traduzione di Ruggero Jacobbi
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James Christensen, “St. Veronica”
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Poesia d’amore per Naima
“Avrei voluto scrivere soltanto poesie d’amore
avrei voluto, anch’io prendere il mattino tra le braccia
respirarne luce e rugiada
e per divertirmi, avrei voluto
far scoppiare le nuvole
rubare la via lattea
saltare di petalo in petalo
e avere il vigore del nettare e della brezza.
Avrei voluto mordere a pieni denti
la poesia
come una volta mordevo a pieni denti le fiabe
Ma le fiabe non hanno più il sapore del frutto.
L’orco e l’orchessa sono stati condannati a morte
perché non recitavano il rosario
e la bella innamorata che si trasformava in sorgente
è stata bruciata viva
tra odor di stuoie e di moschee.
Anch’io avrei voluto raccontare il mio amore
malgrado il fango malgrado il sangue.
Ti avrei voluto dire: ti amo
come si direbbe: sono vivo.
Avrei voluto dire la mia infanzia
per dimenticare la miseria del mio quartiere
e dimenticare le rondini rivestite di stracci.
E per dimenticare i minareti nella nostra carne conficcati
avrei voluto invocare un cielo terso
morbide nuvole dalla morbida pelle di papavero.
Avrei voluto, sì
al suono del tamburello e di un piffero intagliato in fretta
far perdere la testa agli echi di montagne
insegnare nuove danze
all’ape e all’uccello dei frutteti
al grillo stesso insegnare nuovi ritmi…
avrei voluto.”
Ahmed Bouanani (poeta, scrittore e regista marocchino), “Poesia d’amore per Naima” -Traduzione di Toni Maraini
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La foto in evidenza è di Sonia Simbolo – Modella: Rossana Perri

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