Linguaggi

Father

19.03.2022
“Colui che genera un figlio non è ancora un padre, un padre è colui che genera un figlio e se ne rende degno.”
Fëdor Dostoevskij, da “I fratelli Karamazov”
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“Un uomo può dirsi veramente ricco se i suoi figli corrono tra le sue braccia anche se le sue mani sono vuote.”
Dal web
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I vostri figli
“I vostri figli non sono figli vostri. . .
sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee.
Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perché la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni.
Potete sforzarvi di tenere il loro passo, ma non pretendere di renderli simili a voi, perché la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri.
Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive, i vostri figli sono lanciati in avanti.
L’Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suo vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane.
Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo.”

Kahlil Gibran, da “Il profeta”

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Padre, se anche tu non fossi il mio

“Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
Che la prima viola sull’opposto
Muro scopristi dalla tua finestra
E ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
Di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

E di quell’altra volta mi ricordo
Che la sorella mia piccola ancora
Per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
Dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l’avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.

Padre, se anche tu non fossi il mio
Padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei.”

Camillo Sbarbaro, “Padre, se anche tu non fossi il mio”

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Achille Funi, “Il padre”, 1936

 

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A mio padre

 

“Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.
Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
– Com’è bella notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno – Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.”

Alfonso Gatto, “A mio padre”

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Sulla spiaggia di notte

 

“Sulla spiaggia di notte
sta una bambina con suo padre
guardando l’est, il cielo autunnale.
Attraverso l’oscurità,
mentre depredanti nuvole, funeree nuvole, in nere masse
sgorgando,
più basse cupe e veloci di traverso al cielo,
in mezzo a una trasparente chiara cintura di etere
lasciata libera a oriente,
ascende vasto e calmo Giove, signore degli astri,
e vicino a lui, solo poco più in alto,
nuotano le delicate sorelle, le Pleiadi.
Sulla spiaggia la bambina che tiene la mano del padre,
quelle nuvole funeree che si abbassano vittoriose per
divorare tutto,
guardando piange in silenzio.
Non piangere, bambina,
non piangere, mia cara,
con questi baci ch’io allontani le tue lacrime,
le nuvole depredanti non saranno più a lungo vittoriose,
non avranno a lungo il possesso del cielo, divorano le
stelle soltanto in apparenza,
Giove riemergerà, sii paziente, guarda ancora un’altra
notte, le Pleiadi emergeranno,
sono immortali, tutte quelle stelle dorate e inargentate
brilleranno ancora,
le stelle grandi e le piccole brilleranno ancora, durano,
i vasti soli immortali e le eterne, riflessive lune
brilleranno ancora.
Allora mia cara piangerai tu sola per Giove?
consideri tu sola la sepoltura delle stelle?
Qualcosa c’è,
(con le mie labbra calmandoti, io aggiungo in un
sussurro,
ti do il primo consiglio, il primo inganno,)
qualcosa c’è di più immortale anche delle stelle,
(molte le sepolture, molti i giorni e le notti che passano e
svaniscono)
qualcosa che durerà più a lungo anche del luminoso
Giove,
più a lungo del sole e di ogni ruotante satellite,
o delle irradianti sorelle, le Pleiadi.”

Walt Whitman, “Sulla spiaggia di notte”

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Paul Cézanne, “Il padre del pittore che legge L’Événement”, non datato (forse 1866)

 

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Al padre

 

“Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.”

Salvatore Quasimodo, “Al padre”

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Mio padre è stato per me l’assassino

 

“Mio padre è stato per me “l’assassino”,
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.
Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.
Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
“Non somigliare – ammoniva – a tuo padre”.
Ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.”

 

Umberto Saba, “Mio padre è stato per me l’assassino”

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Renato Guttuso, “Ritratto del padre, il Cavalier Gioacchino Guttuso Fasulo”, 1930

 

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Papà

 

“Non servi, non servi più,
O nera scarpa, tu
In cui trent’anni ho vissuto
Come un piede, grama e bianca,
Trattenendo fiato e starnuto.
Papà, ammazzarti avrei dovuto.
Ma sei morto prima che io
Ci riuscissi, tu greve marmo, sacco pieno di Dio,
Statua orrenda dal grigio alluce
Grosso come una foca di Frisco
E un capo nell’Atlantico estroso
Al largo di Nauset laggiù
Dove da verde diventa blu.
Un tempo io pregavo per riaverti.
Ach, du.
In tedesco, in un paese
Di Polonia al suolo spianato
Da guerre, guerre, guerre.
Ma il paese ha un nome molto usato.
Un amico mio polacco
Mi dice che ce n’è un sacco.
Così non ho mai saputo
Dov’eri passato o cresciuto.
Mai parlarti ho potuto.
Mi s’incollava la lingua al palato.
Mi s’incollava a un filo spinato.
Ich, ich, ich, ich,
Non riuscivo a dir di più di così.
Per me ogni tedesco era te.
E quell’idioma osceno
Era un treno, un treno che
Ciuff-ciuff come un ebreo portava via me.
A Dachau, Auschwitz, Belsen.
Da ebrea mi mettevo a parlare,
E lo sono proprio, magari.
Le nevi del Tirolo, la birra chiara di Vienna
Non son molto pure o sincere.
Per la mia ava zingara e fortunosi sbocchi
E il mio mazzo di tarocchi e il mio mazzo di tarocchi
Qualcosa di ebreo potrei avere.
Ho avuto sempre terrore di te,
Con la tua Luftwaffe, il tuo gregregrè.
E il tuo baffo ben curato
E l’occhio ariano d’un bel blu.
Uomo-panzer, panzer, O tu –
Non un Dio ma svastica nera
Che nessun cielo ci trapela.
Ogni donna adora un fascista,
La scarpa in faccia, il brutale
Cuore di un bruto a te uguale
Tu stai alla lavagna, papà,
Nella foto che ho di te,
Biforcuto nel mento anziché
Nel piede, ma diavolo sempre,
Sempre uomo nero che
Con un morso il cuore mi fende.
Avevo dieci anni che seppellirono te.
A venti cercai di morire
E tornare, tornare a te.
Anche le ossa mi potevano servire.
Ma mi tirarono via dal sacco,
Mi rincollarono i pezzetti.
E il da farsi così io seppi.
Fabbricai un modello di te,
Uomo in nero dall’aria Meinkampf,
E con il gusto di torchiare.
E io che dicevo sì, sì.
Papà, eccomi al finale.
Tagliati i fili del nero telefono
Le voci più non ci possono miagolare.
Se ho ucciso un uomo, due ne ho uccisi –
Il vampiro che diceva essere te
E un anno il mio sangue bevé,
Anzi sette, se tu
Vuoi saperlo. Papà, puoi star giù.
Nel tuo cuore c’è un palo conficcato.
Mai i paesani ti hanno amato.
Ballano e pestano su di te.
Che eri tu l’hanno sempre capito.
Papà, carogna, ho finito.”

 

Sylvia Plath, “Papà”

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Frida Kahlo, “Ritratto di mio padre”

 

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Mi’ padre

 

“Mi’ padre è morto partigiano
a diciott’anni fucilato ner nord, manco so dove;
perciò nun l’ho mai visto, so com’era
da quello che mi’ madre me diceva:
giocava nella Roma primavera.

Mo l’antra notte, mentre che dormivo,
sarà stato due o tre notti fa,
m’e’ parso de svejamme all’improvviso
e de vedello, come fusse vero;
sulla faccia c’aveva un gran soriso,
che spanneva ‘na luce come un cero.

– Ammazza, come dormi – m’ha strillato,
era proprio lui, ne so’ sicuro,
lo stesso della foto che mi’ madre
ciaveva sur comò, dietro na fronda
de palma tutta secca, benedetta,
un regazzino, che ride in camiciola,
cor fazzoletto rosso sulla gola.

Ma siccome sognavo i sogni miei,
pe’ la sorpresa j’ho chiesto: – Ma chi sei?-
– So’ tu’ padre – ma detto lui ridenno
– forse che te vergogni alla tua età
de chiamamme cor nome de papà? –

– No, papà, te chiamo come hai detto,
me fa ride vedette ar naturale,
scuseme tanto se me trovi a letto,
che voi sape’? Nun me posso lamenta’,
nun so’ un signore, trentadu’ anni,
davanti c’ho na vita,
ancora nun è chiusa la partita. –
Lo sai, da quanno mamma s’è sposata
co’ mi’ padre, che invece è er mi’ patrigno…
credo sett’anni dopo la tua morte… –

A ‘ste parole ho visto che strigneva un poco l’occhi,
come quanno se sta ar sole troppo forte.
– Scusa papa’, credevo lo sapessi –
Ma lui, ridenno senza facce caso,
spavardo, spenzierato, m’ha risposto:

– Ma che ne so io de quello che è successo,
io so’ rimasto come v’ho lassato,
quanno giocavo, giocavo, giocavo…
giocavo a calcio e mica me stancavo,
giocavo co’ tu madre e l’abbracciavo,
giocavo co’ la vita e nun volevo,
coi fascisti però nun ce giocavo,
io sparavo, sparavo, sparavo. –

Poi m’ha toccato i piedi dentro al letto
e ha fatto un cenno, come da di’ – Sei alto! –
– E dimmi – dice – prima d’anna’ via,
che n’hai fatto della vita
che t’ho dato giocanno co la mia…
Vojo sape’ sto monno l’hai cambiato?
Sto gran paese l’avete trasformato?
L’omo novo è nato o nun è nato?
In qualche modo c’avete vendicato?
– e rideva co’ l’occhi, coi capelli,
sembrava quasi lo facesse apposta.
Me sfotteva, capito, quer puzzone
rideva e aspettava la risposta.

– Ma tu che voi co’ tutte ‘ste domanne?
Mo’ perché sei mi’ padre t’approfitti.
Tu m’hai da rispetta’, io so’ più grande!
Va beh adesso accampi li diritti
perché sei partigiano fucilato…
ma se me fai sveja’ io t’arisponno,
mabbasta solo che aripijo fiato.

Certo che la vita è migliorata!
Avemo pure fatto l’avanzata.
Travolgente hanno scritto sui giornali. –

– Mejo così – me fa – se vede che è servito…
vedi quanno che m’hanno fucilato
Nun ho strillato le frasi de l’eroi
pensavo a voi che sullo stesso campo
avreste certo vinto la partita
pure che io perdevo er primo tempo. –

– No, un momento papà, te spiego mejo…
nun è che avemo proprio già risorto
nella misura in cui ci sta er risvorto emh…
E allora quer ragazzo de mi’ padre
che stava a pettinasse nello specchio
s’arivorta me fissa e me domanna:
– Ma insomma, adesso er popolo comanna?-

Qui so zompato sur letto, co’ na mano
m’areggevo le mutanne, co’ l’altra
cercavo de toccallo, e nun potevo.
Allora j’ho parlato,
perché m’aveva preso come ‘na malinconia
e nun volevo che se ne annasse via
prima de sape’ bene come è stato.

– Sei ragazzo, papà, come te spiego
nun poi capi’ come cambia er monno..
Ce vole tempo, er tempo se li magna
i sogni nostri, io, sai che faccio, aspetto!
Tutto quello che viene, io l’accetto,
semo contenti se la Roma segna,
li compagni so’ tanti e li sordi pochi…
e nun ce sta più tempo pe’ li giochi! –

– Ma so’ sempre quelli te strappano le penne,
ma tu nun poi capi’ papa’, sei minorenne,
se eri vivo te daveno trent’anni,
mejo che torni da dove sei venuto,
perché quelli che t’hanno fucilato,
proprio quelli lì qui te fanno mori’ tutti li giorni!
Lassa perde papà, qui nun e’ aria,
semo cresciuti…nun semo piu’ bambini,
torna a gioca’ co’ l’artri regazzini
che hanno fatto come hai fatto tu,
noi semo seri…e nun giocamo più.

A ‘sto punto mi padre s’e’ stufato,
ha fatto du’ spallucce, un saluto,
s’è rimesso in saccoccia la sua gloria
e vortanno le spalle se n’e’ annato
ripetendo nel vento la sua storia:

– Ma che ne so io de quello che è successo,
io so’ rimasto come v’ho lassato,
quanno giocavo, giocavo, giocavo…
giocavo a calcio e mica me stancavo,
giocavo co’ tu’ madre e l’abbracciavo,
giocavo co’ la vita e nun volevo,
coi fascisti io però nun ce giocavo…
io sparavo, sparavo, sparavo.”

Roberto Lerici, “Mi’ padre”

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Margarita Sikorskaia, “Paternità”

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Vorrei farti felice con questo niente
“Babbo, vorrei comprarti
tutte queste piccole cose
esposte al mercato,
cose piccole, inutili:
arnesi, cianfrusaglie, biglietti.
Vorrei farti felice con questo niente
che colma il vuoto
con quest’amore che ripara,
tu solo annaffi le piante lievi
lavi e curi ogni cosa
e scavi nella compostezza
della vita, con decisione
raccogli foglioline e altro
tu solo puoi entrare nell’infinito.”
Giovanna Sicari, “Vorrei farti felice con questo niente”, da “Portami ancora per mano. Poesie per il padre”, 2001
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Una delle cose più belle dell’essere padre 
“Una delle cose più belle dell’essere padre è
che non bisogna smettere di essere figli.
In effetti non c’è scelta.
I padri sono figli: entrambi soggetto e predicato,
che si godono il privilegio di essere due, in uno.
II padre-e-figlio fortunato può trovare
sostegno in due direzioni: saggezza, forza
e compassione nel padre, intuito e gioia nei figli.
Il bambino può essere padre dell’uomo, e se guardi
da vicino negli occhi di tuo figlio, probabilmente
vedrai gli occhi di tuo padre che ti restituiscono lo sguardo.”
Jon Steewart, “ I padri sono figli”

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