Pensieri

Il tokenism, ovvero l’arte di salvare le apparenze

21.03.2022

“Il tokenism non è altro che una falsa forma di inclusività, molto usata da aziende, ma anche dalle istituzioni, per tentare di prevenire qualsiasi forma di accusa di invisibilizzazione o discriminazione delle minoranze. Per evitare questo problema si ingaggia, a titolo puramente simbolico, superficiale e utilitaristico, almeno un appartente a una minoranza nell’evento/lavoro/attività che l’azienda o l’istituzione ha messo in campo. Un esempio lampante sono i panel costituiti da quasi tutti uomini con l’introduzione di una donna che viene tokenizzata affinché non si possa dire che sia un “manel” (panel di soli uomini). La donna è lì solo per salvare le apparenze di panel di soli maschi. Altri esempi rappresentativi sono nel cinema o nella letteratura in cui viene introdotto l’individuo di minoranza (nero, LBGT+, persona con disabilità ecc.) per dare una pennellata di inclusività al prodotto. Per accorgersi che ci sia o meno tokenism nel prodotto, in questi casi, basti vedere il livello di stereotipizzazione del personaggio. Se stai fruendo di un prodotto che ha fatto tokenism, vedrai i personaggi stereotipati (il gay macchiettistico, la persona con disabilità in versione pietistica o super power, la persona trans che sta sul marciapiede, il nero sfigato ma buono, e così via) perché sono poggiati lì solo per usarli. Se ci fate caso le rappresentazioni tokenizzate sono molte di più di quante sembrino.

Quindi i token non sono più individui, ma diventano elementi simbolici per posizionare l’azienda o l’istituzione sul terreno dell’inclusività. Il ruolo fondamentale dei token, inoltre, è quello della rappresentatività della categoria minoritaria a cui appartengono.

Anche nel sistema adozione lo vediamo fare molto spesso ed è per questo che è fondamentale non prestarsi a imbellettare aziende e istituzioni. Capita ogni volta che ti chiamano per dare una testimonianza (che può avvenire in molti modi, anche presentando un libro) a un evento dove sei lì solo per prevenire eventuali accuse di discriminazione di chi l’adozione la vive davvero. Lo vediamo, ad esempio, nei convegni dei servizi sociali, dove “gli studiati” argomentano sui loro casi e poi arriva sempre la testimonianza della famiglia adottiva (o affidataria) o della persona che è stata adottata a dare contemporaneamente quel tocco di realismo e di finta inclusività alla giornata. Ovviamente metterne dentro uno, sebbene tokenizzato, serve anche a silenziare tutti gli altri “fuori” che non condividono quella narrazione stereotipata. Anzi, solitamente, metterne dentro uno fa esprimere l’azienda, l’istituzione, l’università con tono paternalistico sugli altri spiegando che “uno c’è”, l’accusa di discriminazione è meno solida e quindi si contribuisce a polarizzare le posizioni dei “buoni” dentro e dei “cattivi” fuori. La persona (o la famiglia) che si presta a questa rappresentazione della narrazione adottiva (o affidataria) avalla la narrazione di chi ha il potere di farla (servizi, tribunali, aziende, università) e che solitamente è fatta a partire da scopi che non sono mai quelli della minoranza non rappresentata. E’ una narrazione che non è costruita a partire dall’esperienza della minoranza, ma si costruisce SULLA minoranza che resta un corpo estraneo per i narratori. Fateci caso.”

Da “Tokenism e adozione” – Fonte: IlCorpoEstraneo

*******

Immagine: Anish Kapoor, “Sky Mirror” 

Lascia un commento