“Quando un atto è compiuto, è quello; non si cangia più. Quando uno, comunque, abbia agito, anche senza che poi si senta e si ritrovi negli atti compiuti, ciò che ha fatto, resta: come una prigione per lui. Se avete preso moglie, o anche materialmente, se avete rubato e siete stato scoperto; se avete ucciso, come spire e tentacoli vi avviluppano le conseguenze delle vostre azioni; e vi grava sopra, attorno, come un’aria densa, irrespirabile, la responsabilità che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non previste, vi siete assunta. E come potete più liberarvi?”
“Siamo molto superficiali, io e voi. Non andiamo ben addentro allo scherzo, che è più profondo e radicale, cari miei. E consiste in questo: che l’essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze ch’esso si crea, e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cangia, naturalmente, secondo l’essere in quella forma e in quell’atto ci appare. E ci deve sembrare per forza che gli altri hanno sbagliato; che una data forma, un dato atto non è questo e non è così. Ma inevitabilmente, poco dopo, se ci spostiamo d’un punto, ci accorgiamo che abbiamo sbagliato anche noi, e che non è questo e non è così; sicché alla fine siamo costretti a riconoscere che non sarà mai né questo né così in nessun modo stabile e sicuro; ma ora in un modo ora in un altro, che tutti a un certo punto ci parranno sbagliati, o tutti veri, che è lo stesso.”
“Una realtà non ci fu data e non c’è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile.” […]La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi è destinata a scoprire l’illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita.”
“Nessuno dubita di quel che vede, e va ciascuno tra le cose, sicuro ch’esse appaiano agli altri quali sono per lui; figuriamoci poi se c’è chi pensa che ci siete anche voi bestie che guardate uomini e cose con codesti occhi silenziosi e chi sa come li vedete, e che ve ne pare.”
“Quando si sia fatta l’abitudine di vivere in un certo modo, andare in qualche luogo insolito e nel silenzio avvertire come un sospetto che ci sia qualcosa di misterioso a noi, da cui, pur lí presente, il nostro spirito è condannato a restar lontano, è un’angoscia indefinita, perché si pensa che, se potessimo entrarci, forse la nostra vita si aprirebbe in chi sa quali sensazioni nuove, tanto da parerci di vivere in un altro mondo. ”
“Perché, se ci pensate bene, questo è il meno che possa seguire dalle tante realtà insospettate che gli altri ci dànno. Superficialmente, noi sogliamo chiamarle false supposizioni, erronei giudizii, gratuite attribuzioni. Ma tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono. È vero per loro. Tanto vero, che può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che piú vera della vostra stessa realtà è quella che vi dànno loro. Nessuno più di me ha potuto farne esperienza. “(Libro settimo, IV)
«Perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s’atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa. […] Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.»
“Cadeva ogni orgoglio. Vedere le cose con occhi che non potevano sapere come gli altri occhi intanto le vedevano. Parlare per non intendersi. Non valeva più nulla essere per sé qualche cosa. E nulla più era vero, se nessuna cosa per sé era vera. Ciascuno per suo conto l’assumeva come tale e se ne appropriava per riempire comunque la sua solitudine e far consistere in qualche modo, giorno per giorno, la sua vita.”
“Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti.”
“Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude.”
“Io posso credere a tutto ciò che voi mi dite. Ci credo. Vi offro una sedia: sedete; e vediamo di metterci d’accordo. Dopo una buona oretta di conversazione, ci siamo intesi perfettamente. Domani mi venite con le mani in faccia, gridando:
– Ma come? Che avete inteso? Non mi avevate detto così e così?
Così e così, perfettamente. Ma il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto.”
Luigi Pirandello, da “Uno, nessuno e centomila”, pubblicato nel 1925 sotto forma di romanzo a puntate nella rivista “La Fiera Letteraria” e poi uscito in volume nel 1926
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Illustrazione di Unica Zürn, 1961