Pensieri

La strettoia

04.04.2022
“La libertà ha bisogno dello Stato e delle leggi. Ma non è qualcosa che viene concesso dallo Stato o dalle élite che lo controllano. È qualcosa che viene conquistato dalla gente comune, dalla società. La società deve controllare lo Stato per garantire che protegga e promuova la libertà delle persone, invece di soffocarla come ha fatto Assad in Siria prima del 2011. La libertà ha bisogno di una società pronta a mobilitarsi e in grado di partecipare alla vita politica, di protestare quando è necessario e di mandare a casa un governo attraverso il voto, quando vi riesce.

Il corridoio stretto che porta alla libertà

In questo libro, sosteniamo la tesi che lo Stato e la società devono essere entrambi forti per far emergere e fiorire la libertà. Ci vuole uno Stato forte per combattere la violenza, far rispettare le leggi e fornire servizi pubblici indispensabili per garantire alle persone la possibilità di fare scelte e portarle avanti. Ci vuole una società forte e mobilitata per controllare e incatenare uno Stato forte. I Doppelgänger e i controlli e contrappesi non risolvono il problema di Gilgameš, perché se la società non vigila, le costituzioni e le garanzie non valgono molto di più della pergamena su cui sono scritte.
Schiacciata fra la paura e la repressione degli stati dispotici da un lato, e la violenza e l’illegalità che emergono in loro assenza dall’altro, c’è una strettoia che conduce verso la libertà. È il corridoio dove Stato e società si equilibrano a vicenda. Questo equilibrio non si raggiunge attraverso una rivoluzione: è una lotta costante, giorno dopo giorno, fra queste due entità. È una lotta che porta benefici. All’interno del corridoio, Stato e società non si limitano a competere fra loro, ma collaborano anche, e questa collaborazione permette allo Stato di accrescere la sua capacità di fornire le cose che la società vuole, e stimola una maggiore mobilitazione della società per tenere sotto controllo questa capacità.
È un corridoio e non una porta, perché la conquista della libertà è un processo: bisogna percorrere a lungo questo corridoio prima di riuscire a riportare sotto controllo la violenza, scrivere e applicare le leggi e avere uno Stato capace di erogare servizi ai suoi cittadini. È un processo perché lo Stato e le sue élite devono imparare a convivere con i paletti che la società impone loro, e i diversi segmenti della società devono imparare a lavorare insieme nonostante le differenze. È una strettoia perché non è un’impresa facile. Come si fa a contenere uno Stato che ha una burocrazia enorme, un esercito potente e la libertà di stabilire che cosa è legge e che cosa no? Come si fa a garantire che lo Stato, quando viene spronato ad assumersi maggiori responsabilità in un mondo complesso, rimarrà mansueto e sotto controllo? Come si fa a fare in modo che la società continui a lavorare insieme, invece di rivoltarsi contro se stessa, lacerata dalle divisioni? Come si fa impedire che tutto questo si trasformi in un conflitto a somma zero? Non è affatto semplice, ed è per questo che il corridoio è così stretto e le società vi entrano e ne escono con ripercussioni di così ampia portata.
Sono tutte cose che non è possibile programmare a tavolino. Anche perché non sono molti i leader che, lasciati fare di testa propria, si impegnerebbero davvero per programmare un futuro di libertà. Quando lo Stato e le sue élite sono troppo potenti e la società è remissiva, perché i leader dovrebbero concedere alla gente diritti e libertà? E anche lo facessero, come possiamo sapere che manterranno la parola?
Le origini della libertà si possono ripercorrere nella storia della liberazione delle donne, dai tempi di Gilgameš fino ai giorni nostri. Come ha fatto la società a passare da una situazione in cui, come dice l’epopea, il sovrano «pretende di essere il primo con la sposa, che il re sia il primo e il marito venga dopo di lui», a una situazione in cui le donne hanno diritti (in certe società, quantomeno)? Forse questi diritti sono stati concessi dagli uomini? Gli Emirati Arabi Uniti, per esempio, hanno un Consiglio per l’equilibrio tra i generi, istituito nel 2015 dallo sceicco Mohammed bin Rashid al-Maktoum, vicepresidente e primo ministro del paese nonché governatore di Dubai. Ogni anno il consiglio assegna premi per la parità di genere per cose come il «miglior ente governativo che supporta l’equilibrio tra i generi», «la migliore autorità federale che supporta l’equilibrio tra i generi» e «la migliore iniziativa per l’equilibrio tra i generi». I premi assegnati nel 2018, conferiti dallo sceicco al-Maktoum in persona, hanno una cosa in comune: sono andati tutti a uomini! Una soluzione che era stata pensata dallo sceicco al-Maktoum e imposta alla società, senza la partecipazione di quest’ultima: ecco il problema.
Mettiamo a confronto questa situazione, per esempio, con la più grande vittoria nella storia delle lotte femministe, in Gran Bretagna, dove i diritti alle donne non furono una concessione, ma una conquista. Le donne formarono un movimento di massa, le cosiddette suffragette. Era una costola della Women’s Social and Political Union, un movimento di sole donne fondato in Inghilterra nel 1903. Non attesero che gli uomini elargissero premi per «la migliore iniziativa per l’equilibrio tra i generi». Si mobilitarono. Praticarono azioni dirette e iniziative di disobbedienza civile. Incendiarono la casa estiva dell’allora cancelliere dello scacchiere e successivamente primo ministro, David Lloyd George. Si incatenarono ai cancelli del Parlamento. Si rifiutarono di pagare le tasse e quando venivano mandate in prigione facevano lo sciopero della fame e dovevano essere alimentate a forza.
Emily Davison era un membro di spicco del movimento delle suffragette. Il 4 giugno 1913, all’Epsom Derby, la famosa corsa dei cavalli, Davison corse sulla pista davanti ad Anmer, un cavallo che apparteneva al re Giorgio V. Emily Davison, che secondo alcune testimonianze aveva in mano la bandiera viola, bianca e verde delle suffragette, venne travolta da Anmer. Il cavallo perse l’equilibrio e la schiacciò, come mostra una foto dell’epoca che accompagna l’articolo. Quattro giorni dopo Emily Davison morì per i traumi riportati. Cinque anni più tardi le donne ottennero il diritto di votare alle elezioni parlamentari. In Gran Bretagna le donne non conquistarono i loro diritti grazie alle magnanime concessioni di qualche dirigente uomo, ma perché si organizzarono e si emanciparono. La storia dell’emancipazione femminile non è un caso unico o eccezionale. La libertà dipende quasi sempre dalla mobilitazione della società e dalla sua capacità di tenere testa allo Stato e alle classi dominanti.

Daron Acemoglu, da “La strettoia”, 2020

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Foto sottostante: Emily Davison travolta dal cavallo

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