Magazzino Memoria

La notte

11.04.2022

“Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha trasformato la mia vita in una lunga notte, sette volte maledetta e sette volte sigillata. Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini, i cui corpi vidi trasformarsi in ghirlande di fumo sotto un muto cielo blu.
Mai dimenticherò quelle fiamme che consumavano la mia fede per sempre.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi privò, per tutta l’eternità, del desiderio di vivere. Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima e trasformarono i miei sogni in polvere. Non dimenticherò mai queste cose, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso.
Mai.”

“In pochi secondi abbiamo cessato di essere degli uomini… La notte era completamente passata. La stella del mattino brillava nel cielo. Anch’io ero divenuto del tutto un altro uomo. Lo studente di Talmud, il ragazzo che ero, si erano consumati nelle fiamme. Restava soltanto una sembianza. Una fiamma nera si era introdotta nella mia anima e l’aveva divorata.”

“A partire da quel giorno lo vidi spesso. Mi spiegava con grande insistenza che ogni domanda possedeva una forza che la risposta non conteneva più…
L’uomo si eleva verso Dio per mezzo delle domande che Gli pone -amava ripetere. – Ecco il vero dialogo: l’uomo interroga e Dio risponde. Ma le Sue risposte non si comprendono, non si possono comprendere, perché vengono dal fondo dell’anima e vi rimangono fino alla morte. Le vere risposte, Eliezer, tu non le troverai che in te.”
E tu, Moshé, perché preghi?” gli domandai.
Prego il Dio che è in me di darmi la forza di poterGli fare delle vere domande.

“Sia benedetto il nome dell’Eterno!”
Ma perché, ma perché benedirlo? Tutte le mie fibre si rivoltavano. Per aver fatto bruciare migliaia di bambini nelle fosse? Per aver fatto funzionare sei crematori giorno e notte, anche di sabato e nei giorni di festa? Per aver creato nella sua grande potenza Auschwitz, Birkenau, Buna e tante altre fabbriche di morte?… Oggi non imploravo più. Non ero più capace di gemere. Mi sentivo al contrario molto forte. Ero io l’accusatore, e l’accusato, Dio. I miei occhi si erano aperti, ed ero solo al mondo, terribilmente solo, senza Dio, senza uomini; senza amore né pietà. Non ero nient’altro che cenere, ma mi sentivo più forte di quell’Onnipotente al quale avevo legato la mia vita così a lungo.”

“Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora…
Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare: “Dov’è dunque Dio?
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: “Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca“.
Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.”

“Vidi non lontano da me un vecchio che si trascinava carponi. Si era appena svincolato dalla mischia. Portò una mano al cuore. Prima credetti che avesse ricevuto un colpo al petto, poi capii: teneva sotto la giacca un pezzo di pane. Con una rapidità straordinaria lo tirò fuori, lo portò alla bocca. Gli occhi gli brillarono, un sorriso simile a una smorfia gli illuminò il volto morto e si spense subito. Un’ombra si era appena allungata accanto a lui, e quell’ombra gli si gettò addosso. Carico di botte, ubriaco di colpi, il vecchio gridava: “Meir, mio piccolo Meir! Non mi riconosci? Sono tuo padre… mi fai male… stai assassinando tuo padre… ho del pane… anche per te… anche per te…”
Crollò. Aveva ancora nel pugno chiuso un pezzetto di pane. Volle portarlo alla bocca, ma l’altro si gettò su di lui e glielo prese. Il vecchio mormorò qualcosa, emise un rantolo, e morì nell’indifferenza generale. Suo figlio lo frugò, prese il pezzetto di pane e cominciò a divorarlo, ma non poté andare lontano: due uomini lo avevano visto e si precipitarono su di lui. Altri se ne aggiunsero. Quando se ne andarono c’erano vicino a me due morti: padre e figlio. Io avevo quindici anni.”

“Tutto intorno regnava adesso il silenzio, turbato soltanto dai gemiti. Davanti al blocco le S.S. davano ordini. Un ufficiale passò davanti ai letti. Mio padre implorava: “Figliolo, dell’acqua… Mi sto consumando… Le mie viscere…” – “Silenzio, laggiù!” urlò l’ufficiale.
Eliezer – continuava mio padre – dell’acqua…
L’ufficiale gli si avvicinò e gli gridò di tacere, ma mio padre non lo sentiva e continuava a chiamarmi. Allora l’ufficiale gli dette una violenta manganellata sulla testa.
Io non mi mossi. Temevo, il mio corpo temeva a sua volta un colpo. Mio padre emise ancora un rantolo, e fu il mio nome: “Eliezer“. Lo vedevo ancora respirare, a scatti. Non mi mossi.
Quando scesi dalla mia cuccetta, dopo l’appello, potei vedere ancora le sue labbra mormorare qualcosa in un tremito. Chinato sopra di lui restati più di un’ora a guardarlo, a imprimere in e il suo volto insanguinato, la sua testa fracassata.
Poi dovetti coricarmi. Mi arrampicai di nuovo nella mia cuccetta, sopra mio padre, che viveva ancora. Era il 28 gennaio 1945.
Mi svegliai il 29 gennaio all’alba. Al posto di mio padre giaceva un altro malato. Dovevano averlo preso prima dell’alba per portarlo al crematorio. Forse respirava ancora…
Non ci furono preghiere sulla sua tomba; nessuna candela accesa in sua memoria. La sua ultima parola era stata il mio nome. Un appello, e io non avevo risposto.
Non piangevo, e non poter piangere mi faceva male: ma non avevo più lacrime. E poi, al fondo di me stesso, se avessi scavato nelle profondità della mia coscienza debilitata, avrei forse trovato qualcosa come: finalmente libero!”

Elie Wiesel, da “La notte”, 1956

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