Affabulazioni

Moby Dick

11.04.2022

“Chiamatemi Ismaele. Qualche anno fa — non importa quanti esattamente — avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. È un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione. Ogni volta che m’accorgo di atteggiare le labbra al torvo, ogni volta che nell’anima mi scende come un novembre umido e piovigginoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente dinanzi alle agenzie di pompe funebri e di andar dietro a tutti i funerali che incontro, e specialmente ogni volta che il malumore si fa tanto forte in me che mi occorre un robusto principio morale per impedirmi di scendere risoluto in istrada e gettare metodicamente per terra il cappello alla gente, allora decido che è tempo di mettermi in mare al più presto. Questo è il mio surrogato della pistola e della pallottola. Con un bel gesto filosofico Catone si getta sulla spada: io cheto cheto mi metto in mare. Non c’è nulla di sorprendente in questo. Se soltanto lo sapessero, quasi tutti gli uomini nutrono, una volta o l’altra, ciascuno nella sua misura, su per giù gli stessi sentimenti che nutro io verso l’oceano.”

“Le cose più meravigliose sono sempre quelle inesprimibili, le memorie profonde non concedono epitaffi: questo capitolo lungo sei pollici è la tomba senza lapidi di Bulkington. Voglio dire soltanto che accadeva a lui come a una nave travagliata da fortuna, che trascorre miseramente lungo la costa a sottovento. Il porto sarebbe disposto a darle riparo, il porto è misericordioso, nel porto c’è sicurezza, comodità, focolare, cena, coperte calde, amici, tutto ciò che è benevolo al nostro stato mortale. Ma in quel vento di burrasca il porto, la terra, sono il pericolo più crudele per la nave. Bisogna ch’essa fugga ogni ospitalità; un urto solo della terra, anche se soltanto sfiorasse la chiglia, farebbe rabbrividire il bastimento da cima a fondo. Con ogni sua forza, esso spiega tutte le vele per scostarsi e, così facendo, combatte proprio coi venti che lo vorrebbero portare in patria, torna a cercare l’assenza di terra del mare sconvolto, precipitandosi per amor della salvezza perdutamente nel pericolo: il suo unico amico è il suo nemico più accanito!”

“Capisci ora, Bulkington? Sembra che tu afferri barlumi di quella verità intollerabile ai mortali, che ogni pensare serio e profondo è soltanto l’intrepido sforzo dell’anima per mantenere la libera indipendenza del suo mare, mentre i venti più selvaggi della terra e del cielo cospirano a gettarla sulla costa traditrice e servile. Ma siccome nell’assenza della terra soltanto sta la suprema verità senza rive, infinita come Dio, così meglio è perire in quell’abisso ululante che venire vergognosamente sbattuto a sottovento, anche se in questo fosse la salvezza. Poiché, allora, oh! chi vorrebbe come un verme strisciare vilmente a terra? Terrore dei terrori! È così vana tutta quest’angoscia? Coraggio, Bulkington, coraggio! Tienti ferocemente, semidio! Su dagli spruzzi della tua morte oceanica, su, in alto, balza la tua apoteosi!”

“Si danno, in questo affare strano e confuso che chiamiamo vita, circostanze e occasioni bizzarre nelle quali si prende tutto l’universo come un gran tiro birbone, anche se non se ne capisce che vagamente il senso, e si ha più che il sospetto che tutto quanto il tiro sia stato giocato soltanto alle proprie spalle. Tuttavia, niente serve a scoraggiarci, per niente sembra valga la pena di metterci a litigare. Si buttan giù tutti i fatti, tutti i culti, e le credenze, e le opinioni, tutte le asperità visibili e invisibili, per nocchiute che siano; come uno struzzo dallo stomaco possente trangugia pallottole e pietre focaie. E in quanto alle difficoltà e alle angustie di poco conto: prospettive d’improvvisa rovina, pericolo di rimetterci la vita o un braccio, tutte queste cose, e perfino la morte, sembrano non più che bottarelle date bene e con le migliori intenzioni, allegre gomitate impartite da quel vecchio invisibile e inspiegabile d’un giocherellone.”

Herman Melville, da “Moby Dick”, 1851

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Immagine: Illustrazione da un’edizione ottocentesca di Moby Dick. La didascalia recita: “Entrambe le mascelle, come due gigantesche cesoie, spezzarono in due l’imbarcazione”.

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