Linguaggi

O mia città

13.04.2022
“Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure.”
Italo Calvino, da “Le città invisibili”, 1972
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O mia città
“O mia città vedo le porte gli archi
che un tempo limitavano il tuo cauto
intrecciarsi di case strade parchi
oggi spezzarti come una frontiera
o come una catena di pontili
congiungere le tue zone più vili
ai box del centro dove grandi banche
rivali o consociate in busta chiusa
dan vita o morte in crediti d’usura
legate col cordone ombelicale
del capitale. e in loro trasformate
e quelle in queste ritmica simbiosi
le sedi razionali dell’industria
con l’asino alla mola e i nuovi impianti
la rapida salita – la .. discesa
più rapida – la sedia dei trent’anni
intorno curve, schiene di negozi
la Galleria col tronco fatto a croce
in fondo oltre la Scala la gran piazza
Cavour congestionata la questura .
la pietra dall’Angelicum trapassi
violenti e luminosi in via Manzoni
il tufo è ancora base ai grattacieli?”

Giancarlo Majorino, da “La capitale del Nord”

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Beirut, città dell’uomo
“Nella città dell’indicibile rimorso
dove abitiamo vicino al faro
ad aspettare il ritorno
di mille navi
che hanno preso il largo sulle onde della storia.
Nella città
senza nome, mille e una
identità e speranza
Il shifar,
bellissima parola da trascrivere
in un nazione di trascrizioni,
(sostantivo) – uno slogan, o
un grande pezzo di stoffa (di solito tela) attraverso la quale il vento viene utilizzato
per la propulsione di un vascello.
Siamo tutti marinai
in una città alla disperata ricerca di re-inventarsi.
Tutti affoghiamo in alcol scadente
entriamo e usciamo
dalle identità, cercando lo shifar giusto
trovandolo
nelle sbornie, nel letto di estranei.
Che sia in Occidente, che sia su per lo stretto foro
pacifista di Gandhi, che sia nella promessa di ritorno,
nelle sporche rughe di Madre Teresa
che sia nelle T-shirt da due dollari con la faccia di Che Guevara
nella furba prudenza di Sheherazade, nel piscio pieno di petrolio del Golfo,
nei pub che si fingono a la Andy Warhol, nelle stanze soffocanti e ancora più alcol scadente
che sia nella ricerca
della forza che sia diretta pura sobria
UNICA
Siamo alla ricerca di NIENTE
affermiamo la VITALITA’ di ogni morto ISTANTE
bruciamo pure il faro
rimontiamo lo shifar,
stavolta con la voce dei vivi.
Non stiamo più ad aspettare,
salpiamo
di nuovo verso L’IGNOTO.
Perché il mare non sta mai fermo
si accanisce contro la sponda
irrequieto come un cuore giovane,
dedito alla caccia.”

Omar Baz Radwan, “Beirut, città dell’uomo”

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Beirut

“Beirut è una mela per il mare

un narciso nel marmo

il riflesso dello spirito nello specchio

la prima descrizione di una donna

Beirut è fatta di fatica

Beirut è fatta d’oro

di Andalusia

di Sham

E’ una stella tra me e il mio amante

Beirut è il primo bacio, la nostra tenda e la nostra stella”.

Mahmoud Darwish

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                     Antonio Berni, “Ramona espera”, 1962

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Buenos Aires

Da piccolino ti guardavo da fuori
come un qualcosa d’irraggiungibile;
il naso contro il vetro,
blu per quel freddo,
che poi, vivendo,
sentii dentro di me…
Come una scuola di tutte le cose,
già da ragazzo, stupito, mi hai dato
la sigaretta, la fede nei miei sogni
e una speranza d’amore.

Come dimenticarti in questo lamento,
caffè di Buenos Aires,
se sei la sola cosa nella vita
paragonabile alla mia vecchiaia.
Nel tuo magico miscuglio
di presuntuosi e di suicidi
imparai filosofia… dadi… gioco d’azzardo…
e la crudele poesia
di non pensare più a me stesso.

Mi hai fatto il regalo d’un pugno di amici
gli stessi che riscaldano le mie ore:
José, e il suo sogno,
Marcial, che ancora crede e spera,
e il magro Abel, che non sta più con noi
ma mi guida ancora.
Sui tuoi tavoli che non fanno mai domande
una sera ho pianto la prima delusione,
ho conosciuto i dolori,
mi son bevuto gli anni,
e mi sono arreso senza lottare.

Jorge Luis Borges, “Caffè di Buenos Aires”, da “Tango

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Grottammare

“Turchese il mare al largo di Grottammare
Grottammare con quelle grotte marine
che riecheggiano
lungo l’Adriatico
L’eco d’un canto di sirena
ancora mi raggiunge
dentro al treno silenzioso
una volta ancora le perdute voci
a chiamare sotto al mare
Ah ma certamente
tutto è illusione
La nebbia pesantemente ancora indugia
tra gli ulivi
L’alba è scandita dall’orologio
ma non dalla luce
che solo esiste nella nostra mente
Uomini e donne riposano
nella consueta oscurità
Solo la luce
in quegli occhi addormentata
fa allusione
a un futuro iridescente
a un destino incandescente
Solo di lontano
oltre lontane isole
il mare restituisce
la sua risposta turchese”

Lawrence Ferlinghetti

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Fiori di Bucarest

“Dicono che lassù bambini nudi,
senza amore, si nutrono di bacche
catturate al sorriso della luna.

Dicono che la sera nell’abbaglio
del buio si fanno uomini dai passi
svelti in un nuovo tremito
fugace e duro verso il nulla, l’ignoto.

Come pipistrelli, in cerchi di nebbia,
sbattono le ali in fetidi tombini
nel nonsenso di un crudele inganno.
Il cuore umido, nelle piccole mani strette,
accarezza una lacrima sospesa
nel dolore di essere scordati.

Poi dicono che, come le formiche
rubano spighe per i loro granai.

Loro non sanno cosa vuole dire
aprire le braccia e fare l’aeroplano;
ignorano stupori di aquiloni
da annodare frementi tra le mani.

Hanno speranze piccole e illusioni
disamorate. Senza paradisi.

Eppure, ci vuol poco, molto poco
ad alzare lo sguardo fino al cielo.
Ma noi, travolti da cupe apparenze,
persi tra fiori elettrici
accesi in lontananza,
bruciamo i sentimenti ed ogni senso.

Bisogna amare per essere vivi.”

Rosanna Di Iorio

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            Jakub Schikaneder “Strada al tramonto”, 1906

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Ore di Praga

1. L’alba
Barocco

A Praga mentre biancheggia l’alba
la neve cade
liquida
plumbea.
A Praga pian piano il barocco appare
agitato, lontano,
le dorature annerite
di tristezza.
Sul ponte Carlo quarto, le statue
sono uccelli venuti
da un pianeta morto.
A Praga il primo tram ha lasciato il deposito,
coi vetri illuminati, gialli, caldi.
Ma io so
che dentro ci fa un freddo glaciale
il fiato
del primo viaggiatore non l’ha scaldato
ancora.

A Praga Pepik beve il suo caffellatte
nella cucina bianca, la tavola di legno è
ben pulita.

A Praga mentre biancheggia l’alba
la neve cade
liquida
plumbea.

A Praga passa una vettura
una carretta tirata da un solo cavallo
davanti al cimitero ebreo.
La carretta è carica di nostalgia
d’un’altra città
e il carrettiere sono io…
A Praga pian piano il barocco appare
agitato, lontano,
le dorature annerite
di tristezza.
A Praga nel cimitero ebreo silenziosa,
muta, la morte…
Ah, mio amore, mio amore,
l’esilio è peggio della morte…

2. Il mattino
Praga ottimista

Millenovecentocinquantasette, diciassette gennaio,
suonano le nove.
Il freddo è soleggiato, sincero,
il freddo è rosa pallido
il freddo è celeste cielo.
I miei baffi rossi stanno per gelarsi.
La città di Praga è incisa su una coppa di vetro
incisa con un diamante.
Risuonerebbe se la toccassi:
striata d’oro, limpida e bianca.
Sono le nove sonanti
a tutte le torri
e al mio orologio da polso.

In questo minuto, in questo istante
a Praga nessuno ha mentito
in questo minuto, in questo istante
le donne hanno partorito
senza doglie
e in tutte le strade
non è passata una sola bara:
in questo minuto, in questo istante
tutti i diagrammi sono saliti
eccetto quelli dei malati
In questo minuto, in questo istante
le donne erano tutte belle tutti gli uomini
intelligenti
e i manichini di cera senza tristezza
in questo minuto, in questo istante
nelle scuole tutti i ragazzi han risposto
senza confondersi alle domande
in questo minuto, in questo istante
in tutte le stufe c’era carbone
tutti i termosifoni
erano caldi
e come sempre la Torre Nera dalla punta d’oro
in questo minuto, in questo istante
i ciechi han dimenticato la loro tenebra
e i gobbi la loro gobba
in questo minuto, in questo istante
non ho un solo nemico
nessuno può neanche immaginare
che i giorni passati potrebbero ritornare.
In questo minuto, in questo istante
Vastlar è sceso dal suo cavallo di bronzi
s’è mescolato alla folla
come uno sconosciuto
in questo minuto, in questo istante
mi amavi, mio amore,
come non hai mai amato nessuno

In questo minuto, in questo istante
il freddo soleggiato, sincero,
il freddo è rosa pallido
il freddo è celeste cielo.
La città di Praga è incisa su una coppa di vetro
incisa con un diamante.
Risuonerebbe se la toccassi
striata d’oro, limpida e bianca

3. Mezzogiorno
L’orologio di mostro Honush

Prima ha smesso di nevicare lassù
dalla parte del castello di Praga.
Poi, d’improvviso, limpida
allegra, fresca, una luce turchina
è scesa sui castagni.
Dolcemente si espande.
Il poeta, lontano da casa sua
lacerato di nostalgia
stava nella città vecchia
sulla piazza, da solo.
In cima a un muro gotico
l’orologio di mastro Hanush
suonava mezzogiorno.
Con tuniche porporine
il santissimo Pietro in testa
dall’orologio sono usciti
stanchi, i dodici apostoli
e Creso con la sua scarsella
e la fede e il male e la violenza.
«Ce ne andiamo come siam venuti!»
e un giannizzero di pietra
in basso, triste e sconsolato.
Le campane suonavano a morto
e sul tetto il gallo ha cantato.
Il poeta, lontano da casa sua
lacerato di nostalgia
pensoso, si è guardato attorno.
Allegra, fresca, una luce turchina
è discesa con un dondolio
sulla piazza, nel mezzogiorno…

4. La sera
Le vetrine di corso Vastlar

Quando sopra la sera anneriscono
le torri incappucciate della città di Praga
gli universi che invadono i sogni s’illuminano
nelle vetrine del corso Vastlar.
Stoffe cuoio cristallo e acciaio
gioia tristezza gioventù vecchiaia
appetito infinito come un corno forato
nelle vetrine del corso Vastlar.
Le nostre mani son tese oltre le vetrine
cercando di afferrare le nostre anime
ci contempliamo coi nostri propri occhi
nelle vetrine del corso Vastlar.
La nostra avarizia e la nostra generosità
la nostra dolcezza e la nostra durezza
la nostra furbizia e la nostra onestà
nelle vetrine del corso Vastlar.
Lo zoccolo pesante di ferro della nostra pazienza
il turbante del nostro orgoglio dai setti pennacchi
tutto ciò che accompagna il nostro pezzo di pane
nelle vetrine del corso Vastlar.
La nostra ammirazione per noi stessi
la nostra invidia il nostro amore per gli altri
dalla testa ai Piedi la nostra umanità
nelle vetrine del corso Vastlar.
Quando sopra la sera anneriscono
le torri incappucciate della città di Praga
gli universi che invadono i sogni s’illuminano
nelle vetrine del corso Vastlar.
Sono davanti a una vetrina:
un universo di giocattoli
orsi, lupi di un mondo magico
aeroplani che non uccidono
piroscafi dal fumaiolo giallo
autobus luccicanti…
C’è un Mehmet a Istanbul
che ha compiuto sei anni…

5. La notte
La casa del dottor Faust

Tardi nella notte
ai piedi delle torri, sotto gli archi
ho errato per Praga.
Il cielo nell’ombra è un alambicco che fa
l’oro
una storta d’alchimista
su una pianura turchina.
Sono sceso verso la piazza
e nell’ angolo, vicino alla clinica,
in un giardino, la casa
del dottor Faust
Ho bussato alla porta.
Il dottore non c’è.
Si capisce…
Due secoli fa
per un buco nel tetto
in una notte come questa
il diavolo l ‘ha portato via.
Busso alla porta.
Voglio anch’io il mio contratto col diavolo
l’ho firmato col sangue anch’io
Non voglio né oro
né sapienza né gioventù.
La nostalgia m’ha troppo ferito,
basta!
Che mi porti per un’ora a Istanbul
lo busso, busso ancora.
Ma la porta non s’apre più.
È un desiderio impossibile,
Mefistofele?
O la mia anima a pezzi
non vale la spesa?
A Praga sorge la luna giallo limone.
Sto qua
davanti alla casa del dottor Faust.
Busso alla porta che non s’aprirà
tardi nella notte”

Nazim Hikmet, “Ore di Praga”

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Non ero a Damasco
“Non ero a Damasco quando è stata colpita dall’orrore,
non ero nella montagna e nemmeno nella valle.
Quando la terra tremava, le immagini e l’aria si fendevano
giaceva la mia mano, tremava in un’altra terra.
Sentivo un tremito lungo il corpo,
una larva si è illuminata sulla mia tempia secca;
era forse un messaggio caduto nella cassetta delle lettere?
Oppure la primavera che si rivoltava in una terra lontana?
Non ero a Damasco, non ero in nessuna strada
né in un negozio.
Non ero nella stazione dei treni,
né su un balcone che dava su un treno.
Non andavo di fretta, né andavo piano,
ero più lontano della mia mano
e dai miei occhi affogati nel tempo.
Giacevo nella terra dell’attesa,
la mia mano sanguinava.”
Nouri Al Jarrah (poeta siriano), da “Una barca per Lesbo”, 2016
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Giovanni Antonio Canal, detto “Il Canaletto” (1697-1768), “Veduta del Palazzo Ducale”
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Venezia
“Acquamarina cèrula
berillo verde azzurrognolo
crisòlito di color verde
con qualche ombra di giallo
spinello rosso e roseo
malachite lapislazzuli diaspro sanguigno
cornalina giacinto occhio di gatto
eliotropio diamante corallo
opale iridescente
calcedonio appena rosso
balascio rosso carico
onice negra screziata di opalino
corindone sardonica crisopazio
granato molto lucente
ametista topazio smeraldo rubino
turchina zaffìro
e sotto cupole d’oro massiccio
tre festoni di perle
oro oro oro oro…”
Aldo Palazzeschi, “Venezia”
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Immagine: Fortunato Depero, “Grattacieli e tunnel”, 1930

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