Affabulazioni

Notizie dall’interno

16.04.2022

Anche i più piccoli oggetti erano dotati di un cuore pulsante, e perfino le nuvole avevano un nome.
Le forbici camminavano, telefoni e teiere erano cugini, occhi e occhiali fratelli. Il quadrante dell’orologio era un volto umano, ogni pisello nel piatto aveva una sua personalità e nell’auto dei tuoi genitori la griglia
del radiatore era una bocca ghignante piena di denti. Le penne erano dirigibili. Le monete, dischi volanti. I rami degli alberi, braccia.  I sassi pensavano, e Dio era ovunque.

Non c’erano problemi a credere che l’uomo nella luna fosse un uomo vero. Vedevi la sua faccia che ti guardava dal cielo, ed era senza dubbio la faccia di un uomo. Poco importava se non aveva un corpo – per te era sempre un uomo, e non ti sfiorò mai l’idea che in tutto questo potesse esserci una contraddizione. Comunque sembrava del tutto credibile che una mucca potesse saltare fin sulla luna, come nella filastrocca. E che un piatto fuggisse con il cucchiaio.

I tuoi primi pensieri, vestigia della tua vita in te stesso da bambino. Li ricordi solo in parte, frammenti isolati,
brevi sprazzi di agnizione che affiorano inaspettati dentro di te in momenti casuali – riportati alla mente dall’odore o dal tocco di qualcosa, o dal modo in cui la luce illumina qualcosa nel presente dell’età adulta. Perlomeno pensi di ricordare, credi di ricordare, ma forse non ricordi affatto, o ricordi solo una successiva reminiscenza di ciò che pensi di aver pensato in quel tempo lontano che ormai per te è quasi del tutto perduto.

3 gennaio 2012, un anno esatto da quando hai cominciato a scrivere il tuo ultimo libro, il tuo diario d’inverno ora ultimato. Una cosa era parlare del tuo corpo, catalogare i tanti dolori e piaceri provati dal tuo io fisico, ma
esplorare la tua mente così com’è nei tuoi ricordi d’infanzia sarà senz’altro un compito più difficile, forse impossibile. Eppure ti senti in dovere di provarci. Non perché ti reputi un oggetto di studio prezioso o fuori dal comune, ma proprio per l’esatto contrario, perché ti consideri uno come tanti, uno come tutti.

La sola prova che i tuoi ricordi non sono completamente fasulli è il fatto che ogni tanto ricadi ancora nei tuoi
vecchi schemi di pensiero. Ne restano tracce ancora adesso che hai oltre sessant’anni, la tua mente non è stata del tutto purificata dell’animismo della prima infanzia e ogni estate, disteso supino nell’erba, guardi passare le nuvole e le vedi trasformarsi in facce, in uccelli e animali, in paesi e nazioni e regni immaginari. Le griglie dei radiatori ti fanno ancora pensare ai denti, e il cavatappi è ancora una ballerina che volteggia sulle punte. Nonostante l’evidenza esteriore, sei rimasto quello che eri, anche se non sei più la stessa persona.

Pensando a dove arrivare con ciò che stai scrivendo, hai deciso che non varcherai il confine dei dodici anni, perché dopo quell’età hai smesso di essere bambino, l’adolescenza incombeva, nella tua mente cominciavano già a balenare sprazzi di maturità e ti sei trasformato in un essere diverso dalla piccola creatura la cui vita era un continuo tuffo nel nuovo, che ogni giorno faceva qualcosa, perfino diverse cose, o molte cose per la prima volta, ed è proprio questo lento progresso dall’ignoranza a qualcosa che è un po’ meno ignoranza a preoccuparti adesso. Chi eri, piccolo uomo? Come sei diventato una persona capace di pensare,
e se eri capace di pensare, dove ti portavano i tuoi pensieri? Rivanga le vecchie storie, gratta qua e là per tirar fuori tutto quello che riesci a trovare, poi solleva i frammenti verso la luce e osservali. Fallo. Provaci.

Naturalmente il mondo era piatto. Quando qualcuno cercava di spiegarti che la terra è rotonda, un pianeta che ruota intorno al sole insieme ad altri otto pianeti dentro una cosa chiamata sistema solare, non riuscivi a capire quello il ragazzo più grande di te stava dicendo. Se la terra era rotonda, allora tutti quelli che abitavano sotto l’equatore erano destinati a cadere, perché era inconcepibile che qualcuno potesse passare la vita a testa in giù. Il ragazzo più grande cercava di spiegarti il concetto di gravità,  ma anche quello ti sfuggiva. Immaginavi milioni di persone che precipitavano a capofitto nell’oscurità di una notte infinita e onnivora. Se la terra è davvero rotonda, ti dicevi, l’unico posto sicuro era il Polo Nord.

Senza dubbio influenzato dai cartoni animati che adoravi e che giocavano sul doppio significato della parola in inglese, immaginavi che dal Polo Nord spuntasse un palo, simile ad una di quelle colonnine girevoli a strisce davanti ai negozi dei barbieri.

Le stelle, d’altra parte, erano inspiegabili. Né buchi nel cielo, né candele, né luci elettriche, né altro che somigliasse a qualcosa che conoscevi. L’immensità dell’aria nera sopra tutti e tutti, la vastità dello spazio che stava tra te e quelle piccole luminosità, resistevano ad ogni tentativo di comprensione. Belle e benigne presenze sospese nella notte, che erano lì perché dovevano esserci punto e basta. Opera delle mani di Dio, sì, ma cosa gli era passato per la testa?

Le tue circostanze, allora, erano queste: America, anni Cinquanta del secolo scorso; madre e padre; tricicli, biciclette e carretti giocattolo; radio e Tv in bianco e nero; automobili con cambio manuale; due minuscoli appartamenti e poi una casa in periferia; salute delicata nei tuoi primi anni, poi il normale vigore dell’adolescenza; scuola pubblica; una famiglia della borghesia operosa; una cittadina di cinquemila anime popolata da protestanti, cattolici ed ebrei, tutti bianchi eccetto un pugno di neri, ma nessun buddista, indù o musulmano; una sorella più piccola e otto cugini; fumetti; le scenette di Rootie Kazootie e Pinky Lee in Tv; le canzoni di Natale; la zuppa di Campbell; pane Wonder Bread e piselli in scatola; auto truccate (le cosiddette hot rods) e sigarette a ventitre centesimi al pacchetto; un piccolo mondo dentro il grande mondo, che a quei tempi era per te tutto il mondo, perché quello grande non si vedeva ancora.

Paul Auster, da “Notizie dall’interno”, 2013

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Foto di Sonia Simbolo

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