Pensieri

Saluto di notte

02.05.2022

“Ogni tanto, di notte o verso l’alba, mi sveglio con un dolore che è il più disperato e intollerabile di tutti quelli che ho conosciuto. Non so dove mi trovo. So bene il luogo immediato, se ci penso, il nome di una città o l’altra, e perfino la via ancora rischiarata, a quest’ora, dal fanale all’angolo; so anche il nome della nazione, del continente e del globo dove questa città e strada si trovano: Italia, Europa, Terra. E so il posto occupato dalla Terra nella nostra galassia, e il punto di questa galassia nell’universo. Ma dove sia collocato l’universo, ecco cosa non so. Né come si chiami. E che cosa sia, e di chi sia. Da anni, mi pare, l’idea di queste infinite strade stellari mi si presenta, la notte e mi fa gelare, sognare, tremare. Dove sono? chi – io – fra miriadi di abitanti la Terra, da ogni tempo? cosa, la Terra, fra miriadi di pianeti, di soli, e che cosa questa galassia fra le altre galassie, e dove tutte queste galassie? in quale universo? e quanti gli universi? e dove diretti (si dice che viaggino). Ma il luogo soprattutto vorrei sapere e so che non saprò mai: dove tutto ciò è presente e il suo vero nome e, se non ha nome, perché questo silenzio sul nome. Ed ecco, a pensarci, tutto, intorno all’uomo, mi sembra, da sempre terribile e infinito silenzio e tutti i nomi coperture di nessun nome. Mi pare che non vi sia nessun nome, nessuna identità, nessuna ragione dietro nessuna cosa, e l’universo stesso un terribile luogo senza spiegazione e ragione alcuna.

E’ vero tutto questo, o io fantastico e, in realtà, vi sono nomi, spiegazioni, ragioni che darebbero, una volta apprese, umanità e identità all’universo?

Così vado pensando, la notte, o sull’alba e, a poco a poco, accesa la luce sullo smalto rosso del tavolo, ritrovate le superfici dell’orologio, dei libri, di certi appunti lasciati a mezzo poche ore prima, i terrori si addormentano (come treni che si arrestino e spengano i loro fari abbaglianti, di notte), l’ansietà si calma. So di trovarmi sulla Terra, in questa casa, del fanale so tutto e così dei boschi e le rupi dietro la casa. Ritrovo però la stessa impietrita tristezza, il senso incerto del giorno prima. Sì, il giorno fra poco tornerà, io mi vado riabituando ai falsi nomi e ai luoghi che conosco, ma la certezza riposta di ciò che veramente so – questo orrore del luogo che non ha nome – è più ampia. E questa non finirà mai.

Credo che pensieri simili siano di tutti, anche se non espressi, se non avvertiti chiaramente e sempre premano dietro ogni esistenza. E facciano il buio segreto e la notte personale di ciascuno. Quando vi sono i libri, quando possono esservi, in un’esistenza – o almeno il ricordo dei libri, di ciò che è cultura, meraviglia, patrimonio dell’umanità – tanto terrore si placa, o vi passa sopra come un’onda. gelandovi ma non spezzandovi. Se i libri non ci sono, se la cultura è tutta morta, o impedita, la paura non trova ostacoli, né l’ansia condotti in cui perdersi. Sta lì (dopo moto soffrire) e comincia a organizzare il male. Il male, poi, è semplicemente la necessità di gettare via il proprio male, non in qualsiasi luogo, ma su un altro essere, addebitarlo a un altro vivente, per liberarsene. Depredare o comunque aggredire un altro vivo: e lo organizza proprio questa universale e mai consolata paura di essere.

Quanto sono soli gli uomini e le donne per gettarsi nel male – che è il male altrui! Come nessuno li ha eliminati, calmati, o gli ha sorriso, anche solo fuggevolmente! Le brutte vite, quante sono! Le vite morte, in che misura si espandono! I cattivi pensieri, da che vuoto di sé scaturiscono! E mai nulla che li interrompa, porti dolcezza, fiducia, sia pure un solo minuto! Ma è sempre così, oppure a volte può capitare che vite oscure siano illuminate, forse per un semplice attimo, e la certezza di altre vite fraterne si affacci in questa notte, in quell’altra, come il sole? E si avveri il meraviglioso, cioè la pietà dell’altro, invece che la sua distruzione, o il disprezzo?

Della vita degli altri così poco sappiamo, con tristezza, perché più segreta delle notti del mondo, che per forza, a illuminare una meraviglia, dobbiamo ricordarne una che accadde, a noi. Ma una – simile a questa che dico – tutti forse possono ricordarla. Qui, di particolare, non c’è che un nome, molto bizzarro, e tuttavia quasi ignoto, e per questa ragione, ma forse anche per un riguardo che si deve ai simboli,  non lo dico.

Era dunque una notte come questa, d’inverno, – ma che finiva, – in una casa avvolta dentro una sciarpa di nebbia, piano altissimo, a Milano.

Dormo o non dormo? Chi può dire? Il silenzio, verso le due e mezzo, le tre, era gelato. E mi pareva che nessuno, in questo mondo, fosse più vivo. Avevo pensieri di lavoro, di salute, di semplici lire, di viveri, e poi di un affitto (per un sottotetto), semplicemente tremendi. E di dove trovare un aiuto, al mattino, dato che nessuno era vivo, per me, come io non lo ero per nessuno. In tale ghiaccio mi addormento, o credo, perché mai la cosa mi parve sogno, piuttosto sentii che me ne ero andata di colpo lontano da questa notte, in salvo.

Anna Maria Ortese, da “Saluto di notte”, in “In sonno e in veglia”, 1987

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