Affabulazioni

L’attesa

14.06.2022
“Che ore sono? Non voglio saperlo. Le ore in cui si aspetta non hanno la durata del tempo quotidiano. La loro misura non è quella di un pendolo che oscilla regolare, ma di un cuore che batte, a spasmi e inciampi. Il tempo dell’attesa ti circonda, ti avvolge interminabile.
É come navigare in un mare di cui non si vede la fine.
Chi sto aspettando? Che importanza ha? Un amante un marito, un figlio, una figlia o…un medico con un verdetto, un assassino col coltello, forse uno sconosciuto.
L’importante è che io ora vivo in questa parte dell’universo, nel pianeta dell’attesa, separato e diverso dal pianeta di chi non aspetta nulla e nessuno. E la mia ansia, il mio cuore, i miei pensieri impazziti non si calmeranno finché non sentiranno una voce in strada…e i passi salire le scale, e una mano aprire la porta e… E lo vedrò.
Sul suo volto un sorriso, o un faticoso ghigno di scampato, ferito ma vivo, o iroso e indifferente, ma potrò andargli incontro a avere cura di lui e avere pace. No, non è vero. Non esiste pace per noi. Esiste un tempo sospeso, talvolta felice tra due attese. Tutti aspettano nella vita, è vero. Ma ci sono persone, soprattutto noi donne…che non fanno altro che aspettare. Ogni ora e ogni giorno. Perché accettare la responsabilità, l’amore, l’affetto, l’attenzione la solidarietà vuole dire fare parte di questa schiera dannata.
Quelle e quelli che stanno alla finestra nella notte, il ridicolo dolce esercito di quelli che aspettano.
Aspettiamo senza riuscire a pensare ad altro, spesso senza farci aiutare da un libro o dalla musica. Ogni squillo di telefono ci fa tremare il cuore, ogni voce vicina ci inquieta: ed è un nuovo dolore, non è questa la voce, non è questo il volto che aspettavamo.
E odiamo chi non è colui o colei che aspettavamo.
C’è follia in questo? Sì c’è, spesso. Si può aspettare qualcuno che ha bisogno di noi o che non crediamo abbia bisogno di noi, oppure di cui noi in fondo abbiamo bisogno. Noi crediamo sì. La nostra è una fede che conosce una sola preghiera, un solo tocco di campana. Vieni…ritorna… Quante attese, quante.
L’attesa di un segno dentro di me, di qualcosa che stava per nascere. E poi aspettarlo fuori da scuola, riconoscere il suo viso tra tanti. Aspettare che il calore della febbre lasciasse la sua fronte. Aspettarlo di notte quando faceva tardi, vederlo arrivare stravolto, arrabbiato, confuso.
Aspettare fuori dalla sua camera un segno di quiete.
Aspettare nella corsia di un ospedale, cercando di capire dai volti di tutti cosa stava succedendo. Aspettare una telefonata da un paese lontano o vicino, alzarsi in piedi camminare, cercare di dormire, gridare, piangere. Aspettando quei passi …
E ogni passo sembrava il passo atteso, come ora…
Certo qualcuno ha aspettato anche noi, e forse non ce ne siamo mai accorti. Mentre credevamo di essere gli unici abitanti del mondo dell’attesa c’erano altri che attendevano noi… un genitore, un amante, un figlio… che ci aspettava.
E noi non conosceremo mai il dolore del suo tempo, i suoi pensieri ma possiamo immaginarli, erano uguali ai nostri.
Ora che aspetto, ringrazio tutti voi che mi avete aspettato con affetto con ansia, vi chiedo perdono se non me ne sono accorta. Perdonatemi.
E quanti ritorni, pieni di frasi assurde e crudeli…
“Dove sei stato? Dove sei stata? Perché non hai telefonato, cosa ti è successo, perché così tardi, con chi eri?”
Chi di voi non ha detto o ascoltato queste solite frasi eppure le ripeteremo ancora, altri le ripeteranno, è destino, proprio come è destino restare qui, svegli, col cuore che batte, pieni di nei pensieri e di nostalgia.
E niente può rassicurarci. Solo il rumore di quei passi… che si avvicinano… la sua voce, il suo volto. Un attimo luminoso di gioia in fondo a un nero tempo che morde l’anima. A volte penso: è tempo perso questo aspettare?
O è il tempo più necessario e prezioso, il prezzo che dobbiamo pagare all’affetto, alla cura, alla fratellanza?
E qualcuno di voi forse ha conosciuto il tempo peggiore dell’attesa, quello che si mescola alla paura? Quando si spara in strada, quando c’è il passo delle ronde, quando stivali di soldati battono alla porta, chi potrà mai dimenticare quel tempo?
Ma anche così in questa notte normale… quando non vorresti, ma piangi… non vorresti, ma un pensiero doloroso ti assale, per colui che spetti… perché… perché non senti la mia attesa? In quale guerra in quale droga in quale errore in quale amore ti sei perso? Sospesi nel nostro desiderio egoista di spegnere il nostro dolore, anche se lui lei è felice dove è ora. É felice mentre infelici lo aspettiamo e sarà felice di ritrovarci e avrò bisogno un parola di un bicchiere d’acqua oppure ci insulterà e scivolerà in silenzio lontano da noi. Cosa fai ancorai in piedi… aspettavi me?
No non riuscivo a dormire… lavoravo… stavo… pensando.
E poi il cuore si placa… fino a domani, forse.
I suoi passi? No non è lui. Anche di queste torture è fatta l’attesa.
Anche di segni che ti rendono folle e ansioso, di ossessioni e crudele desiderio di togliere libertà all’altro, di inchiodarlo a un tempo di morti dove nessuno attende e nessuno arriva… ma chi aspetta davvero è vivo, aspetta sempre con amore… con un eccessivo, sprecato, indicibile, ridicolo amore.
Aspetterà sempre e gli sembrerà di non aver fatto altro giorno dopo giorno.
Che i momenti in cui non aspetta, la quotidiana normalità non sia che un istante sospeso nel grande tempo dell’attesa… una lampada in una notte tempestosa… interminabile come questa… e forse… I suoi passi? Sono i suoi passi?
Stefano Benni, “L’attesa”, da “Le Beatrici”, 2011
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Foto di Ferdinando Scianna

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