Pensieri

Abitare la meraviglia

16.06.2022

Quand’ero piccola, abitavo in una casa con un grande giardino che mi ha salvato. Non solo la pelle-la vita, ma anche l’anima, la meraviglia, il senso magico di esistere.

Dio abitava in tutti gli alberi e nei sassi della ghiaia, uno per uno, in mezzo alle ortensie, sia nei fiori che nelle foglie e nei rami e anche nelle nuvole. Un Dio quieto e silenzioso, un legame che non stringeva e non strattonava, un essere lì, silenziosamente. Era anche una gioia fisica. Come una brezza, un soffio. Come il respiro. E ubriacava ma con grazia. Sapevo che di quel Dio non si doveva parlare a scuola e tanto meno in chiesa. A casa, tanto, quasi tutte le parole erano taciute.

L’odore della paura non raggiungeva il giardino o forse si scioglieva nel profumo della vita così com’è che è fatto di tutti gli odori, compresa la paura, ma scorre, scorre sempre. L’odore dello scorrere è trasparente e fresco.

Dunque, per me natura e religiosità (non religione) sono state da subito mescolate, erano un’ unica forza che chiamava e tirava, faceva uscire di casa, dal mondo angusto della segretezza e portava nella vastità, teneva aperta una porta da cui passavano i morti, i viventi vivi, gli animali, gli alberi, gli astri, la luna, la luce e tutte le meraviglie che chiamano i bambini a uscire di casa, a scappare verso il luogo da cui in segreto provengono, verso l’origine. Una gioia originale. Il luogo dove le mancanze si riempiono d’acqua e di luce e di terra e di aria e si è perfetti così come si è. Il mio Maestro radice mi ha insegnato che ci sono due modi di percorrere la Via (Francois Cheng definisce la Via “la vita aperta“9 e anche due modi di insegnarla: uno è rivolto alla meta, e si basa sul migliorarsi, applicarsi, tendere a sempre nuovi obiettivi, sforzarsi e raggiungere; l’altro, il suo e dunque il mio, è rivolto alla fonte, tornare alla nostra vera natura che è già libera e luminosa e quindi lasciarsi andare, lasciarsi essere, galleggiare, spogliare, mettere in luce, riposare nell’ombra. C’è chi è adatto all’uno e chi all’altro. Per chi è cresciuto nella paura di sbagliare, di fallire, nella colpa e nella severità, c’è solo il secondo, tornare alla fonte. Non importa che la fonte biografica sia stata danneggiata, guasta, o assassina, la fonte a cui si ritorna non è personale, è come il respiro, certo che il respiro ci somiglia ma che sia annodato o liscio, faticoso o leggero, corto o lungo, se lo si avvicina e lo si ascolta essere, porta al respiro e basta, senza aggettivi, al misterioso entrare in noi dell’aria, al percorrerci e poi svanire fuori di noi. In breve è così anche la grande storia del respiro: un giorno entra in noi, un giorno esce e non ritorna. Così, rivolgersi alla fonte e stare con il respiro come suo veicolo porta a una vita nuova e antichissima che va oltre l’archeologia personale pur attraversandola. Non uno stato di perduta perfezione, ma uno stato di abbandono, di fiducia, di creatura che sa stare al mondo senza averlo mai imparato e ci sa stare largamente, tenendo insieme la violenza e la carezza, l’invidia e la parola vera, il muschio e le spine.

Anche con la natura a me succede così. Entro nel bosco con un nome e una storia, un’età e uno stato d’animo e dopo un po’ sono un frammento verde, una tesserina che si sente a posto, anonimamente collocata a fare bosco.
Olga Tokarczuk: “Dio è in ogni processo. Dio pulsa nei mutamenti. Una volta è presente, un’altra lo è di meno, ma capita anche che non lo sia affatto manifestandosi perfino attraverso la propria assenza. Gli uomini – che sono a loro volta un processo – temono ciò che è instabile e in continuo cambiamento. Perciò hanno inventato qualcosa che non esiste: l’immutabilità, giudicando perfetto quanto è eterno e immutabile. Hanno dunque attribuito l’immutabilità a Dio, perdendo in tal modo la capacità di comprenderlo.” (1)

Questo Dio sacrilego e irriverente abita la natura e regala la meraviglia. È sottile e delicato, ha bisogno del vuoto di io, di silenzio e attesa e di prontezza al gioco, al pensiero d’infanzia che non procede storicamente, né per causa-effetto, ma per balzi, soprassalti, capitomboli e riprese, un Dio che danza. Ha molte forme, tutte le forme che incontri in un bosco o nei fondali marini, o nelle altezze montane o in quelle erbe di città che crescono tra le crepe del cemento o nei bordi dei tombini. Sono sue forme ed evocano. Cosa? Una dimensione. Immisurabile e senza qualità. Un’accoglienza senza selezione. Ti celebro perché ci sei.

Nel febbraio del 2020 sono venuta per una settimana di convalescenza dopo lunghi mesi di mal essere dal mio compagno che vive in un piccolo paese del Piemonte. Dopo più di un anno sono ancora qui. Ho deciso di restare e di aspettare la nostra casa immersa nei boschi che sarà pronta l’anno prossimo. La pandemia mi ha sorpreso qui. All’inizio, non ho potuto tornare, poi la parola giusta per me è stata “sfollata” e infine è arrivata una precarissima scelta che oscilla tra “io non torno” e “io resto”.

Quello che è successo di più lucente e misterioso, di accogliente e nutriente è l’incontro con il bosco. Nel bosco ci sono molti tempi, sia atmosferici che stagionali. In Oriente, si dice che per guarire da un lutto bisogna vedere le quattro stagioni da soli. Le ho viste.

I lutti però si sono succeduti nel corso delle stagioni: amicizie perdute, lavori finiti, incomprensioni senza possibilità di chiarimento, abbandoni di diverse misure e sfumature, traumi collettivi, morti di tutti.

Ho portato ogni cosa nel bosco. Certe volte il corpo era così pesante. Certe volte il corpo è così pesante. Altre volte scavalco alberi caduti, salto ruscelli, danzo sul prato sotto le poiane per fargli sentire che anche noi atterrati sappiamo più o meno volare o almeno sognare di farlo.

Ho imparato a guardare l’aria, a sviluppare una specie di vista periferica e sfuocata che mi fa notare presenze diverse. Spesso, quando il numero dei morti aumenta da crepacuore, esce dalle cifre e si trasforma in schiere in pigiama che mi seguono nel bosco taciturne, poi si disperdono. Sì, nel bosco senza follia è uno spreco stare. Non si ascolterebbero i consigli degli alberi, i sogni rapitori dei ruscelli, non si canterebbe per i fiori, non li si incoraggerebbe a crescere.

È molto diverso andare in visita dalla natura e vivere vicino a un bosco. Chissà come sarà tra alcuni mesi vivere dentro a un bosco. La differenza sta nella frequentazione quotidiana e quindi nell’intimità che a poco a poco si raggiunge e che assume forme e profondità in costante mutamento.

Un giorno, il mio compagno mi ha detto: “Sì, è molto cambiata la tua presenza nel bosco.” E quando gli ho chiesto cosa voleva dire, mi ha risposto: “Prima eri un’estranea, adesso il bosco ti ha accettata completamente.” Mi sono sentita alzare di qualche centimetro, schiena fiera, spalle aperte e un mezzo sorriso.

Nell’intimità con le stagioni, ho scoperto soprattutto l’inverno, le strutture del ghiaccio, fiori e animali trasparenti e luminescenti, luci imprigionate per poco e che per quel poco si possa raggiungere una tale perfezione e varietà mi ha scosso l’anima e il cuore e anche il pensiero: fare capolavori che non chiedono di essere visti. Sono. E passano.

E la neve, la mia madrina che protegge i segreti dei bambini rotti, con la sua leggerezza e grazia abbatteva alberi giganteschi come fossero grissini e trasformava i prati e i cespugli in palazzi per talpe e ghiri e per la disperazione degli aironi.

Ci sono state molte evoluzioni di me nel bosco. Mi sono sentita all’inizio troppo carica di pensieri, poi molto silenziosa ma un po’ opaca, alcune volte magica, e infine va succedendo che i pensieri siano talvolta legittimi perché seguono l’andatura dei passi, perché vanno pensati e poi abbandonati alla sospensione, perché faranno scongelare le azioni e sarà cambiamento.

Nel bosco, la solitudine è ovunque e in questa coralità di solitudine non ti senti mai sola pur sentendo intatto il tuo isolamento. Vengono a galla molte ferite procurate dagli esseri umani e ti chiedi se ne valga la pena, non di portarle a galla che anzi è una cura, ma di accoglierne di nuove.
Molti che vivono in città pensano che vivere in un bosco o in un piccolo paese con bosco sia una specie di “Ari mortis”, non è vero, è un “Ari vivis” spaventevole, ma certo sottrae energie alla competizione, al paragone, al conflitto, alla polemica, alla prepotenza, ci si disabitua ai giochi sociali, ebbene sì, si lascia il mondo. Un mondo, e se ne trovano molti altri. Di rado, ma ho anche conosciuto delle persone nel bosco e dei cani. Ci sono brevi informazioni che ci si passa di mano in mano quasi senza fermarsi. Sul tempo, sugli animali, sulle stagioni. E così ci si sente infilati gli uni con gli altri su un filo che non è fatto di parole ma di semplificatissime mappe d’orientamento in cui a poco a poco senza accorgertene vieni collocata e dopo un po’ diventi un essere quasi commestibile, comunque non velenoso, non sei più un possibile nocivo.

Nel bosco c’è la morte. Non solo in autunno dove è solo più evidente e spoglia; c’è sempre, occhieggia ovunque e si mescola con la vita, la fa nascere, è la sua culla. I suoi dosaggi sono una sorta di cura omeopatica dell’abbandono, te lo iniettano a poco a poco e mentre attraversi giorno per giorno lo struggimento, ti accorgi che il tempo ciclico, non essendo lineare, ha per andatura la rinascita: nasci vivi muori rinasci. Nel mondo vegetale è scritto evidentissimo. E qualche volta senti forte il desiderio di spezzare quel ciclo e di liberarti per essere senza essere qualcosa o qualcuno. Un quieto nulla, uno sfondo.

Leggo tanto, mai nel bosco, leggo a casa, nel silenzio in cui abbaiano i cani, fanno l’amore i gatti, i merli dicono quel che hanno da dirsi e i libri anziché sussurrare parlano più forte e più chiaro. Se un giorno staremo meglio tutti quanti, chiederò alla scuola del paese che ha una pluriclasse e due classi di poter fare un seminario di poesia ai bambini. In fondo sono sempre stata timida come una che viene in città da un paese sbagliato, quindi adesso sarò più adatta, o forse sarò una che viene da una città che non c’è sull’atlante.

Non si esce dal mondo vivendo in mezzo alla natura, si cambiano solo le dimensioni e le agende. Non è solo la città a essere un punto di vista sulla campagna, anche la campagna è un punto di vista sulla città e in breve tempo la vista sulla metropoli è infernale. Un’agenda io non ce l’ho più, sto nella vita e mi scrivo dei bigliettini: domenica ore 17 chiamare D. Sabato ore 17 G. Il mattino lavoro, traduco, scrivo, studio, leggo. Il pomeriggio presto vivo nel bosco. Alle 18,30 medito con tutti quelli che vogliono farlo con me, a distanza, sulla linea del cuore.

Meditare qui significa ascoltare il silenzio di fuori, un silenzio vivo di versi, senza motori, qualche urlo, qualche motosega e sentire i pensieri, le voci di dentro che gridano, piangono, chiacchierano, suggeriscono, imprecano e via dicendo e senza silenziarle le ascolto zittirsi un po’ intimidite dall’intonarsi con il silenzio esterno, dalla rinuncia al mercato del sì e del no, del pro e del contro.

C’è una cosa semplicissima che ho imparato camminando e mi sta insegnando un nuovo ritmo tra passato presente e futuro: a un certo punto, nel bosco c’è un bivio, se vado a destra salgo e poi incontro gli asini; se vado dritta, resto in piano e incontro il ciliegio selvatico che sa parlare con me e ascoltarmi. Ho imparato a non decidere mai quale strada prendere finché non mi trovo proprio al bivio. E così, spesso, quando sono tormentata da uno dei miei miliardi di dilemmi mi dico: “Aspetta di essere al bivio, Chandra.” E così la decisione matura nel buio e nel silenzio e quando è il suo tempo ecco che mi cade in mano come una mela.
Ho sempre coltivato in città il desiderio di essere nulla, di essere spazio, era un attrito forte e corroborante, ci si sentiva un po’ speciali e un po’ sprecati, la natura mi è sempre mancata, uno struggimento costante, nonostante gli alberi del giardino sottocasa.

Adesso, prima di dormire nomino e vedo l’immagine delle quattro querce rosse che visito ogni giorno nel bosco e del ciliegio selvatico e di un faggio gigante che mi aspetta dove andrò a vivere. E anche gli alberi di Milano vedo. Ripenso a due cedri del Libano e a un faggio rosso ferito. E anche a tre betulle. E mi commuovo. È davvero diverso pensare prima di dormire agli alberi del cuore anziché alle persone. È meno storico e più geografico. Mi orienta in una quiete senza mete. Buonanotte. Prendo rifugio nei grandi esseri che vengono a insegnare nei sogni.

1) Olga Tokarczuk. Nella quiete del tempo. Bompiani 2020. pag. 131.

Chandra Livia Candiani, “Abitare la meraviglia”, dalla rivista  “Psicologia Analitica”, Nr. 104, “Umana natura”, maggio 2022

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